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Treni di guerra. Simbolo di potenza per Mosca e di salvezza per gli ucraini

Stefano Cingolani

Memorie letterarie da “Anna Karenina” al “Dottor Zivago”. Ritratto del treno a cavallo tra Europa e Asia. Sulle strade ferrate che portarono Lenin a San Pietroburgo e Trockij in Siberia. Le stesse che oggi portano i soldati russi al fronte e i profughi in salvo

C’era anche la banda con tanto di tromboni ad accogliere, intonando l’Internazionale, il grande capo bolscevico tornato dal lungo esilio insieme alla moglie Nadja e a 28 compagni, per rovesciare la storia. Una foto famosa ci mostra Vladimir Il’ich Ul’janov, conosciuto da tutti come Lenin, sul predellino del treno mentre saluta con il berretto in mano – il già famoso copricapo con visiera da operaio – i compagni plaudenti, anch’essi con i loro berretti agitati come fossero bandiere. Nessuno, tanto meno la folla che in quel 16 aprile 1917 s’accalcava sul marciapiede della stazione Finlandia a San Pietroburgo, sapeva quel che accadeva dietro le quinte. Nessuno aveva letto telegrammi come questi:

 

“Da von Romberg, ambasciatore a Berna, al cancelliere del Reich von Bethmann Hollweg. Segretissimo. 14 marzo 1917. Ho avuto con il nostro confidente russo Weiss una circostanziata conversazione circa il nostro atteggiamento sulla rivoluzione in Russia (…). Weiss ritiene che i pacifisti possano avere la meglio (…). Raccomanderei di mettere a disposizione del signor Weiss almeno 30 mila franchi per il mese di aprile che egli utilizzerebbe soprattutto per il ritorno in Russia dei più importanti esponenti del suo partito (…). Posso promettergli dei sussidi anche per il futuro”.

 

“Dal sottosegretario di stato agli Affari esteri all’ambasciatore a Berna von Romberg. Cifrato. 18 marzo 1917. Urgente. E’ auspicabile che il transito dei rivoluzionati russi attraverso la Germania avvenga nel più breve tempo possibile, poiché l’Intesa sta già adottando contromisure in Svizzera”.

 

“Dall’ambasciatore di Germania a Copenhagen conte von Brockdorff-Rantzau al ministero degli Affari esteri. Segretissimo. 20 marzo 1917. Dobbiamo assolutamente cercare di creare in Russia il maggior caos possibile (…). Abbiamo tutto l’interesse ad appoggiare gli elementi estremisti (…). Secondo tutte le previsioni, si può valutare che nel giro di tre mesi la decomposizione sarà abbastanza avanzata perché un intervento militare da parte nostra provochi immancabilmente il crollo della potenza russa”.

  

Una locomotiva di epoca sovietica in Carelia, Russia, al confine con la Finlandia (LaPresse)
  

Non avesse mai preso quel treno, non avesse mai stretto quel patto con il nemico mentre la guerra era in corso e i ragazzi del suo paese, stremati, morivano nel fango e nella neve per combattere i tedeschi. Se Lenin non fosse mai arrivato, la storia del Novecento (e anche quella del Duemila) sarebbe stata diversa: gli Imperi centrali sconfitti almeno un anno prima; la rivoluzione russa avviata su una strada liberale, socialista, comunque democratica, evitando cinque anni di stragi e guerra civile; Iosif Džugašvili detto Stalin un terrorista che ricattava i petrolieri di Baku; Benito Mussolini un estremista arruffapopoli, non il baluardo contro il bolscevismo; quanto ad Adolf Hitler, chissà, solo un imbianchino, come lo chiamava Bertolt Brecht. E l’Ucraina in questo spaventosa primavera del 2022 sarebbe rimasta una repubblica indipendente, libera di decidere come vivere e con chi stare. Altro che “secolo breve”, Eric Hobsbawm ha avuto torto: forse il Novecento è cominciato nel 1914, ma non è finito nel 1989. Quanto a Ernst Nolte, anche lo storico tedesco ha peccato di ottimismo: quella “guerra civile europea”, che fa cominciare proprio con il 1917 e il golpe leninista chiamato Rivoluzione d’ottobre, non si è conclusa nel 1945. 

 

Tra le immense steppe dell’Europa orientale, il treno è più che altrove la forza del destino, i suoi binari sono i fili che le parche possono tirare, allentare o tagliare a loro piacimento. La vita quotidiana, le onde della storia che tanto angustiavano Lev Tolstoj, l’arte e la letteratura, tutto nel vasto mondo di lingua russa è attraversato dai cavalli di ferro. C’è un treno nel dolente fato di Anna Karenina all’inizio, con “un cattivo presagio”, quell’operaio schiacciato tra due vagoni, e alla fine quando la più romantica delle eroine letterarie si getta tra le ruote fumanti. Il treno segna la vita del dottor Živago, i suoi amori, i suoi dolori, la deportazione, la guerra civile che gli si presenta con quei convogli blindati che attraversano le gelide pianure portando la rivoluzione e il terrore.

 

Sono le locomotive con la stella rossa grazie alle quali Trockij, l’uomo senza il quale Stalin non avrebbe vinto (e lui non lo avrebbe fatto ammazzare), mobilitò la Siberia per scagliarla contro le Guardie bianche armate e sostenute dall’Europa occidentale lungo il Don, in Crimea, in Ucraina. Quei “treni corazzati con su scritto morte ai borghesi” che percorrevano l’Ucraina lacerata tra Rossi e Bianchi, occupata da tedeschi, francesi, turchi, come ricorda nel suo libro di memorie “Viaggio sentimentale” il critico letterario Viktor Borisovic Šklovskij, ufficiale carrista nel Primo conflitto mondiale, poi con i socialisti rivoluzionari che i bolscevichi avevano trasformato in acerrimi nemici. E nella guerra che insanguina oggi quelle stesse terre, protagonisti sono ancora una volta i treni, non più macchine, ma simboli, non più solo mezzi di trasporto, ma arche della salvezza dal diluvio di fuoco e di morte.

  

Profughi ucraini in fuga dal paese, dopo l'invasione russa (LaPresse)

La Russia – questa “complessa combinazione di arretratezza e di progresso”, ha scritto Isaac Deutscher, lo storico ebreo, polacco, britannico nonché ex trotzkista – comincia presto a costruire ferrovie, già nel 1837, dodici anni dopo la Stockton-Darlington in Inghilterra (prototipo assoluto) e due anni prima della Napoli-Portici. Oggi le Rossijskie železnye dorogi, letteralmente “strade ferrate della Russia”, conosciute anche come RŽD, gestiscono in regime di monopolio statale 85 mila chilometri di binari con oltre 835 mila dipendenti. Numero tre al mondo dopo Stati Uniti e Cina, la compagnia contribuisce con il 3,6 per cento all’intero prodotto interno lordo e trasporta l’80 per cento dei passeggeri (un milione e 300 mila l’anno) e l’82 per cento delle merci. Per ragioni strategiche e militari, per sancire la propria differenza, Mosca non ha mai adottato lo scartamento standard di 1.435 millimetri, in uso nella metà del mondo, la distanza tra i binari infatti è di 1.520 mm, ciò vale anche per Bielorussia, Mongolia, Finlandia e altre nazioni dell’ex blocco sovietico tra le quali l’Ucraina, e questo oggi rende più difficile il transito ai treni della speranza. 

 

Lo sforzo che le ferrovie ucraine stanno compiendo fin dai primi giorni dell’invasione è davvero immenso. Secondo stime ufficiali, ma provvisorie, subito dopo l’attacco russo i treni hanno trasportato quasi tre milioni di persone verso la parte occidentale del paese e mezzo milione all’estero. Molte società ferroviarie dell’Unione europea hanno aiutato, la maggior parte consentendo ai rifugiati il libero transito sui propri treni, altre, ad esempio la tedesca DB, con il lancio di un ponte per trasportare beni di soccorso. Ma c’è anche chi, come le compagnie nazionali romena e polacca, ha deciso di ripristinare alcune linee abbandonate. La rete ucraina è gestita da un’azienda di stato, la Ukrzaliznytsja, con linee di 23 mila chilometri, di cui novemila soltanto elettrificate. I corridoi verso l’Unione europea sono diventati essenziali non soltanto per chi fugge, ma anche per chi rimane. Dopo il blocco dei porti sul Mar Nero, attraverso i quali quasi il 95 per cento della produzione agricola veniva spedita all’estero, la UZ ha deviato su rotaia almeno una piccola parte dei traffici alimentari facendoli passare attraverso Polonia, Slovacchia, Ungheria e Romania.

 

Non è un caso se l’uomo più ricercato – il nemico pubblico numero due dei russi subito dopo il presidente Volodymyr Zelensky – oggi è Oleksandr Kamyshin, 37 anni, che guida la rete ferroviaria ucraina soltanto dall’ottobre scorso, ma ha dimostrato una formidabile capacità organizzativa oltre che coraggio personale. Vera primula rossa, si sposta di continuo per non essere rintracciabile, sempre protetto da guardie del corpo. Non vede la moglie e i due figli ormai da un mese. “Dobbiamo essere più veloci di quelli che cercano di rintracciarci – ha raccontato alla Bbc –. Invece dei porti marittimi andiamo a ovest. Abbiamo lanciato un programma per trasferire la produzione così possiamo spostare persone, idee, piani, forse macchinari nelle zone meno colpite dal conflitto”. I suoi treni fanno scappare rapidamente i profughi, portano tonnellate di aiuti alle zone sotto assedio, caricano le armi che arrivano dall’occidente, i missili anticarro e i droni che hanno consentito di colpire duramente l’armata russa.

 

Quei vagoni senza sosta diventano tradotte per le truppe nelle città del fronte e carri merce per esportare tutto ciò che l’Ucraina può ancora produrre nonostante la guerra. Squadre di ispettori sono state inviate alle frontiere per aumentare almeno del doppio la capacità dei transiti, compito non facile, a causa del diverso scartamento, al confine è quasi sempre necessario il trasbordo di beni e persone, e ciò rende più vulnerabili uomini e cose. I collegamenti con la Bielorussia e la Russia sarebbero più facili in condizioni normali, ma le linee sono state interrotte o sabotate. La ferrovia diretta nella repubblica separatista moldava di Pridnestrovie, che ospita contingenti militari russi, è stata fatta saltare dalle truppe ucraine per paura di un’invasione. Putin ha mobilitato anche quei reparti per stringere in una morsa Odessa, tuttavia il trasferimento ferroviario attualmente è impossibile. 

 

I soldati ucraini hanno imparato la lezione perché i macellai di Bucha non si sono lanciati soltanto con il paracadute, ma sono arrivati via treno dalla Bielorussia, vera retrovia grazie al burattino Aljaksandr Lukashenka. Anche ora che si ritirano, i russi imbarcano in quel paese satellite se stessi e tutto quello che hanno razziato: abiti, preziosi, televisori. Spezzare i collegamenti, dunque, è essenziale. Per portare al fronte forze fresche Mosca utilizza una ferrovia ammantata di leggenda come la Transiberiana. Presentata con grande sfarzo all’Esposizione universale di Parigi del 1900, con i suoi 9.288 chilometri è la più lunga al mondo, un quinto in territorio europeo, il resto in quello asiatico. La prima pietra o meglio la prima traversina fu depositata il 31 maggio 1891 vicino a Vladivostok, alla presenza dello zarevic Nicola, il futuro imperatore Nicola II, che simbolicamente trasportò la prima carriola di terra. Da allora si andò avanti a 740 chilometri l’anno, tappe forzate grazie al lavoro dei forzati: furono impiegati novantamila uomini, la maggior parte dei quali deportati nei gulag; non si saprà mai quanti morirono di stenti, certo molte migliaia. Il primo ministro Pëtr Arkad’evic Stolypin, restauratore del potere zarista dopo la sconfitta nella guerra con il Giappone e la breve rivolta del febbraio 1905, lanciò una riforma agraria accompagnata da emigrazione di massa dei contadini verso gli sterminati territori orientali: chi accettava di trasferirsi in Siberia poteva ottenere anche grandi terreni senza pagare un copeco. Tre milioni di uomini e donne, per lo più giovani, salirono nei vagoni in terza classe e grazie alla Transiberiana nuova di zecca emigrarono tra il 1906 e il 1916. Altre migrazioni per lo più forzate avrebbero segnato la vita della ciclopica ferrovia durante la lunga e sanguinaria èra staliniana.

 

Oggi con quella strada ferrata giungono in Europa almeno 20 mila container all’anno, circa 8.300 provenienti dal Giappone. Sono ancora una minima parte del trasporto di merci dall’arcipelago asiatico. Prima delle sanzioni il governo di Mosca voleva aumentare i treni merci fino a 120 al giorno per raggiungere la quota di centomila contenitori l’anno. Per farlo avrebbe dovuto sbloccare i numerosi colli di bottiglia rappresentati dai tratti a binario unico.  Le difficoltà materiali sono molte, a cominciare dai grandi fiumi che scorrono da nord a sud e rendono difficile la rotta trasversale, ma l’ostacolo maggiore non è la geografia, bensì la storia. Senza dimenticare l’alleanza pelosa con la Cina. Vaste estensioni di territorio siberiano sono occupate da coloni cinesi, affamati di terre scarse e poco produttive in un paese dove solo un terzo della superficie è coltivabile. Questa invasione per lo più spontanea e non regolata è fonte continua di frizione, ma per Pechino può diventare lo strumento di uno scambio ineguale: uomini in Siberia, gas e minerali in Cina. Speculazioni da geo-economia che potrebbero diventare realtà solo dopo la guerra in Ucraina e in funzione di come finirà. Certo è che la Russia ne uscirà stremata oltre che isolata e Xi Jinping è pronto a trarne vantaggio.

 

Ma torniamo all’angoscioso via vai dei convogli zeppi di profughi che lasciano le loro case. Li abbiamo visti abbandonare Kiyv, li vediamo allontanarsi a fatica da Kharkiv sotto le bombe o da Odessa sul treno n. 036 per Leopoli. Donne e bambini saltano spesso sul primo convoglio, senza sapere dove è diretto, purché sfugga alle orde d’oriente, purché sferragli verso occidente. “Una volta ancora i due antagonisti, la Russia e l’occidente, sembrano incapaci di trovare un linguaggio comune per mitigare il perpetuo conflitto dei loro interessi e delle loro ambizioni”, scriveva Deutscher nel pieno della Guerra fredda, parole che tornano oggi più attuali che mai. E proseguiva: “La nostra generazione ha rivissuto questo dramma, lo ha visto assumere proporzioni mondiali, ha visto passioni e sospetti armarsi di ordigni nucleari”. Due generazioni dopo (lo scrittore è morto nel 1967) torna il terrore, torna lo scatenamento brutale, selvaggio di quelle passioni e di quei sospetti diventati ormai odio inarrestabile, rancore violento come poche volte nella storia.

 

Oggi l’abisso s’è fatto più profondo, chissà per quante generazioni ancora, chissà se sarà mai colmabile. Lo strazio dei corpi, il vuoto degli animi, cosa porteranno con sé i profughi ucraini che affollano i treni dell’addio? E’ grazie a loro, a quelle strade ferrate difese con cura, protette a costo della vita affinché altri possano vivere, se resta la speranza, se questa nuova tragedia nel cuore dell’Europa non si chiuderà con un solo grido, l’ultimo che Joseph Conrad in “Cuore di tenebra” mette in bocca al colonnello Kurtz, mente offuscata dalla volontà di potenza, immagine del mostro che s’annida in noi: “L’orrore, l’orrore”.

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