La guerra in Ucraina

La brutalità russa che ci provoca sgomento ha radici lontane

Maurizio Crippa

Nelle pianure d’occidente la forza trovò i suoi argini, in Russia ha continuato a scorrere in una piramide di paura. L’armata multietnica dell’impero sfasciato di Putin

In questa famiglia non risolviamo i nostri problemi picchiando la gente. 

No, in questa famiglia gli spariamo. (“A History of Violence”, David Cronenberg)

 

Una storia di violenza. Che gronda sangue dalle strade infangate e dagli scantinati e schizza fino ai nostri occhi. Davanti alla quale ci professiamo increduli (com’è stato possibile?) per non dover ammettere di essere atterriti. Perché la ratio della guerra, della politica, persino del male autocratico può essere incanalata in qualche zona della mente, delle parole. La violenza invece spaventa. Non è più, da tempo, una componente censita del nostro mondo. Se non per la cronaca, per le proxy war che orecchiamo distratti o per residui sociali magari nemmeno marginali, ma perimetrabili. Là invece no. “Prima li interrogate, poi li uccidete”. Se è vera – ma perché non dovrebbe essere vera? – la comunicazione intercettata tra un comando russo e i soldati che occupavano Bucha non ha nulla della guerra. E’ solo una storia di violenza. Giovedì l’Assemblea generale dell’Onu ha sospeso la Russia dal Consiglio dei diritti umani di Ginevra. Dei diritti umani: perché un conto è la guerra, ma questa ai nostri occhi è una faccenda diversa. E’ una storia di violenza.


Da giorni il profilo mongolo e il nome di Omurekov Asanbekovich, tenente colonnello comandante a Bucha e indicato come responsabile del massacro dei civili, sono entrati nella nostra sfera di conoscenza. Fotografie di corpi martoriati; testimonianze di giornalisti che hanno visto corpi martoriati; testimonianze di donne stuprate, racconti su donne stuprate e poi ammazzate; bambini ammazzati mentre cercavano di fuggire; immagini di scantinati adibiti a mattatoi. Servirebbe la penna dura e incalzante di Agota Kristóf per rendere l’idea dell’orrore: l’orrore di chi sta qui, da questa parte. Noi. Non abbiamo mai visto da vicino una storia di violenza? Certo che sì, fa parte delle nostre conoscenze, del nostro retaggio storico. Di Sant’Anna di Stazzema dovrebbe ricordarsi persino l’Anpi. Di bastardi con le stellette che amano l’odore del napalm al mattino è piena la Storia universale della complessità. Ma per noi la ferocia insana resta comunque una cosa misurabile e distanziabile – è successo allora, è accaduto lontano. Sebbene fosse accaduto anche a Srebrenica, che era più vicina. Com’è che l’orrore che ci ha investito, il suono e l’odore di quella violenza, ci appare adesso così incombente, minaccioso?


Bisogna provare a varcare almeno con la mente un lungo confine. I simboli di un confine. Di là dalle grandi pianure, di là dai grandi fiumi che tagliano come lame la longitudine dello spazio detto Europa. Bisogna immaginare i popoli antichi. Quando dalla culla mediterranea i soldati e i mercanti risalivano le grandi vie d’acqua, il Reno e il Rodano, o popoli di cui abbiamo perso traccia scendevano lungo l’Elba con i loro carichi di ambra. Quando i soldati di Roma risalivano l’Europa: inquadrati, le vettovaglie più precise delle moderne razioni K, acquartierati in accampamenti di geometrica potenza. Come già avevano fatto le falangi macedoni veloci verso oriente. Tappe forzate, l’ottimizzazione di una forza controllata e pronta a dispiegarsi, a colpire, a riorganizzarsi, a stabilizzarsi. I soldati romani che risalivano la via dei grandi fiumi si portavano i semi del frumento e le barbatelle della vite. Dove si fermavano iniziavano a coltivare per il proprio sostentamento, con la pazienza di chi sa che domani quel territorio sarà la loro vita. A ogni veterano un pezzo di terra da coltivare, da difendere. Dopo le battaglie, c’è un tempo per distruggere e un tempo per seminare. Ognuno al suo lavoro. “Ciò che si scambiava, al crocevia del Sundgau, alle foci del Neckar, non erano soltanto utensili, armi o gioielli, si scambiavano idee, passi avanti dell’incivilimento”, come racconta un maestro della Storia, Lucien Febvre.


Di là, ad est, correva la via dell’ambra che scendeva dal Baltico lungo la Vistola e il Danubio. Per quelle vie non si è soltanto formata l’Europa, si è costruita una placca di civiltà, come un reticolato di sbarramenti, che lungo i secoli ha imbrigliato la violenza. Up to a point, benedetta complessità: ma dopo Hitler è come se i tedeschi fossero stati sottoposti a una cura Ludovico collettiva, hanno introiettato il terrore persino delle guerre recintate della Guerra fredda. Ora che Scholz ha deciso il riarmo, dopo ottant’anni, è come se fosse crollato un tabù. Eppure l’argine alla violenza è ciò che avviene “quando la spada, ‘braccio di metallo che prolunga il braccio di carne’, viene a spartire il favore con la scure, brutalmente omicida”, scrive Lucien Febvre: “Si tratta semplicemente di uno strumento che si espande o di modi d’agire, di maniere d’essere più sottili che si insediano?”. La forza bruta che aveva incontrato un suo principio regolatore e un principio di forza superiore, di legge, ha generato quei confini che ancora oggi riconosciamo come il nostro mondo. 


Di là dai grandi fiumi, dove dal Volga verso le terre calde scendevano gli slavi, dove i samoiedi allevavano renne, al di là dagli Urali dove cacciatori e venditori di pellami risalivano l’Ob, dove dal Don e dal Dnestr le carovane viaggiavano verso i mari caldi, dove tra il Dnepr e il Mar Nero si muovevano nelle steppe i popoli che poi sarebbero diventati i cosacchi, i baskiri, e a est verso la Siberia e nelle terre dei burjati. Là, la storia ha tracciato solchi diversi. Là, la guerra nomade e la forza come pura ragion d’essere hanno proseguito per un altro paio di millenni. Oggi all’etnia burjati appartiene il boia di Bucha, Asanbekovich, comandante dell’unità militare 51460, 64esima brigata di fucilieri motorizzati: praticamente un esercito etnico della più grande minoranza di origine mongola della Siberia. Come etnico è l’esercito quasi privato dei ceceni di Ramzan Kadyrov. E’ lì, in quelle radici profonde, in quella storia di popoli guerrieri, che nel lunghissimo medioevo russo e fino alle soglie del Novecento la violenza bellica non ha mai conosciuto una vera limitazione statuale, un ordine se non feudale, gli eserciti come forze private degli zar. E’ lì che bisogna cercare l’inizio di quella storia di violenza e del nostro terrore sgomento.


La prima parte del libro di Anna Politkovskaja La Russia di Putin (riproposto da Adelphi) parla dell’esercito russo: “L’esercito del mio paese”. O, si potrebbe dire, parla di uno dei cerchi concentrazionari in cui sprofondano le radici dell’ex impero. Primi anni Duemila (il libro è del 2004), oggi. Le guerre cecene ancora in corso, ma quasi dietro le spalle. E’ un racconto agghiacciante, storie di violenze indicibili. Perché parla di “operazioni di pace”, non di zone di guerra. Ma ci sono 500 soldati di leva morti ogni anno, scrive. Di cui quasi solo le madri (sempre le madri) tengono la contabilità effettiva. Perché non sono morti in battaglia, ma per le sevizie subite dai superiori in caserma. Perché si sono suicidati. Perché sono stati lasciati morire senza cure, in condizioni subumane, da chi doveva aver cura della sua truppa. Provincia di Mosca, 4 maggio 2002: il soldato Cesnokov è interrato fino al collo nel cortile. Il maggiore Simakin urla che “quello è il solo modo per educare il soldato Cesnokov”. Quasi lieto fine: “Una volta fuori dalla fossa il soldato Cesnokov disertò”. I soldati russi che muoiono oggi in Ucraina, invece, rischiano di non tornare mai più a casa. Quello che Politkovskaja racconta è un sistema piramidale, animalesco più ancora che tribale. Una catena alimentare. I vertici depredano le risorse, impongono con brutalità e punizioni e ricatti il loro dominio, garantiti da un rapporto col potere politico cui interessa solo la stabilità nella ruberia generale delle risorse dell’esercito. Vi stupite dei racconti dei soldati ucraini, che quasi ridono dell’inefficienza di carri armati che si rompono, di bombe che non scoppiano, di fucili che non sparano? Gli ufficiali, a loro volta, si rifanno sui gradi inferiori e predano la loro parte di bottino, di fureria. E i sottufficiali sfogano la rabbia e la violenza belluina sui soldati, sui ragazzi di leva. I disgraziati. E’ mai esistito, nella storia della Russia, un sistema diverso? Forse un po’ sì, ma il degrado degli ultimi decenni ha sommato i metodi della brutalità antica con l’assoluta mancanza di controllo. La già scarsa efficienza è finita con l’Armata rossa. E la gerarchia è la stessa violenta che conosciamo dall’Afghanistan, dalla Cecenia, dalla Siria.


“Quello che ha colpito l’immaginazione del mondo, nelle guerre russe degli ultimi decenni, è stata quella spietatezza indiscriminata, lo sfoggio di brutalità inutile, senza alcun criterio non soltanto di umanità, ma di ragionevolezza nell’utilizzare la forza bellica”, ha scritto sulla Stampa il 4 aprile Anna Zafesova. “La distruzione come metodo di conquista, lo sterminio come metodo di sottomissione di un popolo”. Cita il politologo Abbas Galyamov, secondo cui la strage di Bucha “è stata una violenza spontanea dei soldati e ufficiali russi per vendicarsi della propria umiliante sconfitta”. C’è indubbiamente, scrive Zafesova, il senso dell’umiliazione che è montato nei russi da quando hanno scoperto, trent’anni fa, che gli sconfitti della Guerra patriottica, i tedeschi, gli italiani, vivevano mille volte meglio di loro. Ma ovviamente non basta, la Russia resta un paese “dominato dai forti, le leggi sono riservate ai deboli”. I sistemi dittatoriali – ma anche lo zarismo era un sistema dittatoriale – si reggono sul mancato controllo che, seppur in modo imperfetto, le società civili e la politica possono esercitare. Più ancora, si reggono sulla piramide di violenza di cui ognuno accetta di subire la sua quota in cambio della possibilità di scaricarla su altri. Questa piramide di ingovernato sopruso che domina la società, le caserme, le carceri  che sono ancora una derivazione del Gulag, ha una radice antica.


Quando nel 1552 lo zar Ivan non ancora il Terribile conquistò Kazan’, scrissero i suoi cronisti: “Con l’aiuto del nostro onnipotente Signore Gesù Cristo e per le preghiere della Madre di Dio… lo zar ha preso prigionieri le donne e i bambini e ha fatto uccidere tutti gli uomini armati per il loro tradimento”. Guerrieri tatari. Con la conquista del khanato di Kazan’ e poi quello di Astrachan’ nasce l’impero russo, e nasce multietnico. Una miscela grandiosa e poco governabile che proseguirà con l’espansione nelle steppe orientali, fino alla sottomissione dei cosacchi, dei burjati animisti in Siberia. Ma per secoli questi popoli guerrieri rimasero di fatto alleati militari degli zar, infeudati ma autonomi, amici o nemici a seconda delle circostanze. Conservando leggi e usanze anche di guerra ispirate alle loro tradizioni. Sono i Cosacchi che spaventarono e affascinarono Tolstoj, e che sparano agli “abrek”, nemici solitari, “dopo aver detto secondo l’abitudine cosacca appresa dall’infanzia ‘in nome del Padre e del Figlio’” e aspettandosi la giusta ricompensa. Sono i cosacchi padroni dell’Ucraina, gli antenati dei soldati di oggi, quelli che Gogol’ racconta nel suo romanzo romantico e patriottico Taràs Bul’ba. Il vecchio guerriero che ha una sola regola, “il cosacco ha altro da fare che stare a gingillarsi”. Ai giovani augura: “Che abbiate sempre fortuna in guerra. Che battiate i miscredenti, che battiate i turchi e il tartarume e pure i polacchi”. Ambientato nell’epoca che segna la fine delle ultime grandi rivolte cosacche, narra un mondo in cui l’arruolamento tribale era un esame di catechismo: “Ci credi in Cristo? E alla Santa Trinità? E in chiesa ci vai? Allora fatti il segno della croce”. Alla fine della tragica epopea di Gogol’, il vecchio Taràs, prima di morire, dopo aver combattuto “per la nostra patria Ucraina”, grida: “Verrà il tempo, verrete a sapere cosa sia la fede ortodossa. Si alzerà dalla terra russa il suo zar, e al mondo non ci sarà forza che gli si potrà opporre”. Giusto per comprendere quanto ci sia di fratricida, di consanguineo, nella guerra che oggi divide due popoli per secoli parte di uno stesso paese. Ma ne Ivan né gli altri zar, né Stalin e tantomeno Putin il pietroburghese sono mai risusciti a plasmare attraverso l’esercito un diritto della forza ben temperato. I cosacchi rimasero per secoli una sorta di esercito di ventura, a volte alleato a volte duramente perseguitato; sono gli stessi cosacchi dell’orda bolscevica di Babel’, che ne raccontò la ferocia molto più che rivoluzionaria, e mal gliene incolse. Lo stesso vale per i ceceni che affascinarono l’Eroe del nostro tempo di Lermontov. 
Che tutto questo si rifletta sull’oggi, è un’altra scoperta che aumenta il nostro spavento. L’ambasciatore Stefano Pontecorvo, ex rappresentante civile della Nato in Afghanistan, ha analizzato su Repubblica il mistero poco misterioso di un aspetto della ferocia che sta alla base della piramide militare russa. Ed è proprio la sua mai governata componente multietnica. Nell’esercito l’etnia russa è volutamente una minoranza, pur essendo grande maggioranza nella nazione. Il 65 per cento dei soldati russi feriti censiti a Rostov, osserva Pontecorvo, non sono russi etnici. Eppure i russi (ortodossi) sono l’80 per cento, solo l’8 per cento i turcomanni, il 5 i caucasici mentre le altre 47 minoranze rappresentano spiccioli. Ma nell’esercito ben oltre la metà delle truppe appartiene a queste minoranze. “La carne da macello dell’esercito russo, ma anche il grosso delle sue forze”, dice l’ambasciatore, è costituito “da queste minoranze che non sentono come propria la guerra dei russi”, poco disciplinabili al di fuori di un’obbedienza interna di clan. “Molti soldati provengono dal Daghestan, dall’Ossetia, la Buriatia”. Altro bacino di reclutamento importante è l’Astrachan’, sono i discendenti dei tatari dell’Orda d’oro che Mosca sottomise e si fece alleati militari e che ora sono parte di un esercito il cui tasso di ferocia è documentato persino dalle intercettazioni radio e dagli slogan scritti a vernice sui razzi sparati sulle teste dei civili del Donbas. 


Mentre l’ingegneria giuridico-militare romana su cui poi si plasma il potere della chiesa occidentale – gerarchia, ora et labora, vescovi-conti e persino Papi guerrieri – da quasi tre millenni ha dato una logica per così dire formale alla forza (absit complessità verbis), il lungo medioevo russo è come fosse rimasto all’esercito di Aleksandr Nevskij che affonda i cavalieri teutonici sulle note di Prokof’ev prima di tornare popolo di cacciatori e pescatori. Etnie, lotte religiose e feudali. “Nel corso degli ultimi decenni”, scrive Pontecorvo, “del maggior benessere ha beneficiato la popolazione di etnia russa”. Mentre alle minoranze periferiche è rimasto il maggior risentimento e la leva militare come valvola di sfogo alla miseria.


La storia di Taràs Bul’ba è quella dei suoi due figli, che il vecchio cosacco conduce a vivere la vera vita: la guerra, il saccheggio e la bisboccia nei momenti di riposo. Oggi non possono non impressionare le facce dei giovani soldati ucraini, i ragazzi civili che stringono un fucile per difendere le case, le facce da adolescenti imberbi e spaventati dei soldati russi. E sempre l’Infanzia di Ivan, il connubio mortale di giovinezza e guerra che la nostra cultura ha rimosso, o nascosto dietro a un monte di tabù e di parole. E’ in queste radici storiche, in questa separazione antropologica tracciata dai fiumi, che è madre anche della piramide della paura del potere russo, che risiede parte del nostro sgomento. E’ come se il mondo russo sia transitato nella contemporaneità attraverso il grande incubo rosso del totalitarismo senza aver mai incontrato un principio di moderazione della forza. L’ultimo  romanzo di Tolstoj e il più politico, Resurrezione, può essere letto come un manuale di fine Ottocento per aspiranti rivoluzionari e descrive alla perfezione una catena che non si è mai spezzata. Dal sopruso sociale a quello della giustizia malata, al sistema carcerario a quello politico e militare al ruolo gregario e mistificatorio della chiesa ortodossa. Sembrano le cronache di Anna Politkovskaja. Quella catena rimane inalterata, pronta a scaricare a terra la propria ferocia incontrollata in un impero etnico sfaldato in cui l’esercito continua a essere predatorio. Una donna, davanti alla sua casa bruciata, ha raccontato all’inviato del Corriere: “Sono diventati crudeli, ladri e assassini. Uno dei primi giorni uno di loro mi ha detto di stare attenta che sarebbero arrivate le squadre della polizia politica e sarebbe stato molto peggio per noi”. A History of Violence.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"