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Il colore dei carri armati

Come la propaganda bellica mistifica la realtà

Francesco Cundari

Dagli aiuti fraterni dell’Urss alle bombe intelligenti della Nato. I tanti modi per definire un’invasione

Vladimir Putin ha spiegato chiaramente che quella in corso in Ucraina non è una guerra – “Guerra? Quale guerra?”, avrebbe detto l’immortale Aigor di “Frankenstein Jr” – bensì una “operazione militare speciale”. Inevitabilmente, quando le prime ritorsioni occidentali hanno provocato la caduta del rublo, molti ne hanno approfittato per twittare che Putin non aveva motivo di preoccuparsi, perché non si trattava di sanzioni, ma di una “operazione finanziaria speciale”. Sarà anche per questo che poco dopo la Russia ha deciso di “staccarsi” da internet. O almeno così la notizia è stata riportata, come se si trattasse di una spina, ed è forse anche il modo più giusto di renderne lo spirito, a metà tra “Good Bye Lenin” e “Willy il Coyote”.

Non meno datata appare del resto la stessa definizione di “operazione militare speciale”. Operazione che naturalmente, secondo i russi, ha il solo scopo di aiutare le autoproclamate repubbliche separatiste a difendersi, rispondendo al loro accorato appello. Una riedizione nemmeno particolarmente aggiornata, se non nella modernità e nella brutalità dei mezzi impiegati, di quello che ai tempi dell’Urss si usava chiamare “l’aiuto fraterno” che ai paesi membri del patto di Varsavia era generosamente assicurato dagli altri membri del club. In pratica, dai carri armati sovietici. Si dirà che la propaganda di guerra è uguale dappertutto e in tutti i tempi. Come molti amano ripetere in questi giorni, anche l’occidente usa spesso espressioni tipo “bombe intelligenti” o “bombardamenti chirurgici”.

C’è però una differenza non solo politica, ma anche linguistica: perché il bombardamento in effetti è spesso tutt’altro che chirurgico, ma resta un bombardamento; le bombe si dimostrano molte volte tragicamente stupide, ma restano bombe; mentre l’aiuto fraterno non solo non è affatto fraterno, ma soprattutto non è un aiuto, né un’operazione speciale, né niente del genere. C’è insomma tutta la differenza che passa tra un aggettivo e un sostantivo. Differenza, per l’appunto, sostanziale.

Difficile sottovalutare l’effetto che l’aiuto fraterno dei carri armati sovietici ai compagni ungheresi, nel 1956, ha avuto sulla coscienza e sull’immaginario di una parte della sinistra italiana, appartenente o vicina al Pci. Il dibattito che si aprì allora è stato raccontato molte volte: il gruppo dirigente che si schiera con l’Urss; il dissenso di Giuseppe Di Vittorio, autorevolissimo capo della Cgil, subito isolato e indotto a una specie di ritrattazione; l’appello dei 101 intellettuali che criticava l’intervento sovietico e chiedeva di rivedere il giudizio sulla rivolta, bollata come sommossa controrivoluzionaria (anche tra loro ci sarà qualche ritrattazione più o meno impacciata). Palmiro Togliatti sull’Unità firma un articolo dal titolo inequivocabile: “La presenza del nemico”. E a questa posizione si atterrà anche nella relazione al congresso, dopo che la rivolta popolare e il tentativo di rispondere con un’apertura del regime, da parte di Imre Nagy, sarà stato represso nel sangue. Il segretario del Pci critica gli “errati indirizzi politici” seguiti dagli ungheresi e soprattutto “l’aberrante metodo della loro denuncia fuori del partito”, per poi aggiungere: “Gravissimo errore sarebbe però il limitarsi a questo, escludendo senz’altro l’intervento e la presenza del nemico, ritenendo quasi giustificato il ricorso alla violenza contro i regimi di democrazia popolare, o anche solo l’assurdo appello alle masse contro il partito che le deve dirigere, dimenticando che il nemico non sono soltanto i dollari degli imperialisti americani, pure abbastanza di per sé già efficaci, ma sono anche le sopravvivenze nella coscienza degli uomini di falsi orientamenti ideali e pratici, perché la coscienza degli uomini si trasforma più lentamente di quanto non sia possibile trasformare le strutture economiche e politiche”.

A proposito di coscienza e ambiguità del linguaggio politico, la citazione quasi obbligatoria in questi casi, che Togliatti certamente non avrebbe gradito, è il bipensiero o bispensiero (dipende dalle traduzioni, l’originale è “doublethink”) coniato da George Orwell in 1984. In particolare, soprattutto in tempi di populismi e post-verità, il passaggio in cui definisce il bipensiero come la capacità “di sostenere allo stesso tempo due opinioni che si annullavano reciprocamente, sapendo che erano in contraddizione e credendo fermamente a entrambe”. Non vi pare il ritratto di certi leader politici di oggi?

Per quanto il fenomeno abbia evidentemente radici antiche, non si può negare che l’avvento dei social network abbia permesso un salto di qualità nella produzione e distribuzione di un certo genere di propaganda, disinformazione e manipolazione, con effetti pervasivi anche sul nostro linguaggio di tutti i giorni. Penso per esempio a un tipico modo di alimentare il circuito delle fake news, consapevolmente o meno, che potremmo chiamare quello del “se è vero, è grave”. Un meccanismo che in tempi di guerra, e di propaganda bellica, può diventare obiettivamente micidiale. In pratica, è l’equivalente comunicativo delle cluster bomb: le fregnacce a grappolo. Da un lato c’è l’ingenuità e la pigrizia di chi rilancia notizie di cui è il primo a dubitare, ma che non ha nessuna intenzione di perdere tempo a verificare, pur avendo invece moltissima voglia di commentarle. Dall’altro c’è la malafede di chi fa la stessa cosa, pur sapendo o potendo benissimo immaginare come stanno le cose. In entrambi i casi, il risultato è la moltiplicazione e la diffusione virale di una enorme quantità di idiozie, nel migliore dei casi, e di pericolose falsità utili solo ad alimentare conflitti ingiustificati, nel peggiore. 

Una variante molto giocata di questo schema è poi l’appello ai giornalisti affinché facciano capire davvero come stanno le cose ai poveri cittadini disorientati da tante diverse voci: un giorno leggiamo sulla stampa che la terra è rotonda, il giorno dopo vediamo come molti siti sostengano invece che sia piatta, possibile che in questo paese non si riesca mai a capire come stanno le cose?

Esempio tratto da una storia vera: “Ieri la notizia del bombardamento di un ospedale pediatrico. Oggi molti siti dicono che era un ex ospedale, sgombrato ed utilizzato da militari. Noi leggiamo, da lontano, senza poter verificare e vorremmo che chi ci dà le notizie, approfondisse i fatti, cercando la verità” (virgole dell’autore, molto noto, che non cito perché ha cancellato il tweet, sia pure lamentandosi dell’incomprensione altrui, e dunque non c’è ragione di infierire). I “siti” erano probabilmente gli stessi rilanciati dall’ambasciata russa a Londra, in una serie di tweet in cui si arrivava persino a sostenere che le due donne fotografate tra le macerie fossero la stessa persona, la “beauty blogger Marianna Pogurskaya”, che avrebbe “recitato il ruolo di entrambe le donne incinte nelle foto”.

Ma anche questo genere di dinamiche, intendiamoci, non nascono con i social network. Nell’epistolario di Togliatti pubblicato da Einaudi con il titolo “La guerra di posizione in Italia” (a cura di Gianluca Fiocco e Maria Luisa Righi), una delle lettere più illuminanti, da questo punto di vista, è proprio quella in cui il segretario del Pci risponde al signor Eugenio Denti, da Chianciano, che nell’agosto del 1963, a due anni dalla costruzione del muro di Berlino, gli aveva chiesto conto delle notizie riportate dal Corriere della sera circa i provvedimenti adottati dalla Ddr per impedire la fuga dei cittadini. E’ breve, e credo meriti, soprattutto oggi, di essere letta per intero. “Egregio signore, ho avuto la Sua lettera sul ‘Muro di Berlino’. La sua opinione si è formata sulla lettura di articoli di giornali che dicono cose non vere. Il famoso ‘muro’ è una normale frontiera che, purtroppo, passa attraverso una città. E’ stato costruito per porre fine alla attività di provocazione, contrabbando, speculazione, spionaggio, ecc. che veniva svolta, per danneggiare la capitale della Repubblica democratica tedesca, dai reazionari (spesso anche nazisti) che sono al governo di Bonn e che gli ‘occidentali’ proteggevano sfacciatamente. Se Lei leggesse anche qualche giornale democratico, la verità le sarebbe nota. Per consentirle di meglio conoscerla, Le invio il ritaglio di una lettera scritta per dire la verità da un residente a Berlino. Le unisco anche un altro scritto sullo stesso argomento, nella speranza che questi documenti servano a farle capire di quali menzogne il Corriere e altri giornali infarciscono i loro scritti”.

Mi scuso per la lunghezza della citazione, ma oltre alla bellezza della prosa, mi sembrava particolarmente significativa non solo l’idea di virgolettare il “muro”, o meglio “il famoso muro”, come se in realtà fosse stato qualcos’altro (chessò: una staccionata, una siepe spartitraffico, un guardrail), ma anche il riferimento alle provocazioni dei reazionari “spesso anche nazisti” (pare proprio scritto oggi, non è vero?), per non parlare della testimonianza di “un residente a Berlino”, archetipo intramontabile di quei milioni di cugini, cognati e suoceri che vivono in Russia (o in Ucraina), e prima a Wuhan, e prima ancora in qualsiasi altra esotica località compaia nel flusso delle notizie, le cui sicure confidenze affollano quotidianamente le nostre bacheche social. Senza dimenticare, ovviamente, la consueta invettiva contro i giornalisti. I quali tuttavia, non possiamo negarlo, hanno pure la loro (la nostra) parte di responsabilità.

Tralasciando i casi più gravi, assimilabili alla corruzione o quantomeno alla pura malafede, molto dipende anche dalle cattive abitudini. A cominciare da quelle cattive abitudini nello scrivere che “potrebbero essere facilmente evitate se solo si fosse disposti a prendersi il disturbo necessario”, come ad esempio “l’uso di metafore che hanno perso ogni forza evocativa e sono utilizzate semplicemente perché risparmiano alle persone la fatica di inventare frasi da sé”, o magari sono utilizzate “senza la minima consapevolezza del loro significato, e spesso mischiando metafore incompatibili, segno sicuro che chi scrive non è interessato a quel che sta dicendo”.

Per quanto possa sembrare incredibile, le citazioni non si riferiscono al giornalismo italiano di oggi, ma alla prosa inglese del secolo scorso, e sono prese anche queste da Orwell. Per la precisione da un saggio del 1946, “Politics and English language”, scritto nella convinzione – evidentemente illusoria – che fosse possibile e doveroso liberarsi di tali cattive abitudini, che liberarsene fosse necessario per “pensare più chiaramente” e che “pensare più chiaramente” fosse il primo passo per “la rigenerazione politica”.

Il nesso tra queste righe e la distopia immaginata pochi anni dopo in 1984 dovrebbe essere evidente, e sufficiente a fugare ogni dubbio circa la reale importanza di simili pignolerie, anche in politica. Soprattutto in tempi di guerra.


D’altra parte, lungo questa strada il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha fatto giovedì un passo ulteriore, e direi definitivo, rispondendo così alla domanda se la Russia intendesse attaccare altri paesi: “No, non abbiamo intenzione di attaccare altri paesi. Non abbiamo attaccato neanche l’Ucraina”. Affermazione che giustamente ha indignato gli ucraini, ma dovrebbe soprattutto preoccupare gli altri paesi. Del resto, se come dice Putin non c’è nessuna Ucraina, come avrebbero potuto attaccarla?

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