10 marzo 2019. Manifestazioni di protesta a Mosca contro RuNet e la censura del web. (Foto: Epa/Maxim Shipenkov)

RuNet, il web per isolare la Russia, e Telegram, l'app che resiste

Pietro Minto

Tra Mosca e l'Occidente si è alzata una cortina di ferro digitale: Putin vuole controllare le informazioni su internet e lancia RuNet. L'unica app ancora consentita è Telegram, che però ricopre un ruolo ambiguo nella politica internazionale

Una rete internet parallela, o meglio, isolata dal mondo esterno. Un web russo chiamato RuNet, ma anche una Wikipedia locale su cui il Cremlino ha investito circa 32 milioni di dollari. Non sono notizie dell’ultima settimana ma cronache a cavallo tra il 2019 e il 2020, quel mondo pre pandemico che sembra così distante ma segnava già la volontà, da parte della Russia di Vladimir Putin, di isolarsi dall’occidente. Anche dal punto di vista informatico.

Negli ultimi anni sono state fatte alcune prove generali di RuNet, anche se già nel dicembre 2019 Putin aveva firmato una legge che obbligava i produttori di computer, smartphone e smart tv a pre-installare app di sviluppatori locali, indicando una strada di indipendenza tecnologica. Del resto, l’Iran e soprattutto la Cina hanno dimostrato com’è possibile scollegare intere nazioni dal web mondiale. Gli esperimenti di RuNet potrebbero tornare utili a Mosca in questi giorni, visto che l’invasione dell’Ucraina ha spinto molte aziende a congelare i propri rapporti con il paese e il suo mercato.

Nel corso degli ultimi giorni, Visa, PayPal e Mastercard si sono unite al coro, mentre Facebook e Twitter sono state bloccate dal governo; altre società, da TikTok alla Bbc, hanno dovuto fermarsi per non essere punite dalle nuove leggi sulle “fake news” volute da Putin, per le quali parlare di questa “guerra” – termine di fatto proibito dal Cremlino – è punibile con il carcere. Non si tratta proprio del RuNet sognato da Mosca, perché lo scollegamento è stato goffo, forzato e in molti casi subito. Eppure, a poco meno di due settimane dall’inizio del conflitto, una cortina di ferro digitale si è alzata, improvvisa e alta, tra la Russia e l’occidente. Il confronto tra le app più scaricate nell’App Store russo, pubblicato dall’esperto di tecnologia Benedict Evans, dipinge un quadro piuttosto tetro: prima del conflitto (e del blocco bilaterale dei vari servizi digitali), la top ten conteneva Zoom, Whatsapp, Instagram, oltre che VK e altre app russe; oggi non c’è quasi più nulla di social, mentre dominano i servizi di Vpn (Virtual private network, che si possono usare per proteggere la propria privacy online e mascherare la propria provenienza).

A resistere, tra le applicazioni più cercate tra quelle rimaste a disposizione dei russi, c’è un prodotto diffuso anche in occidente: Telegram. Telegram è una chat, una sorta di anti Whatsapp piuttosto personalizzabile, fondata nel 2013 da due fratelli russi, Nikolaj e Pavel Durov, già co-fondatori di VKontakte (VK), il citato colosso social del paese. Nel 2014, l’anno successivo alla fondazione, Pavel fuggì dalla Russia dopo essere stato licenziato da VK: persone vicine al Cremlino avevano preso il controllo del sito, lui decise di non piegarsi. Durov riuscì a portare con sé Telegram, che da allora ha sede a Dubai come il suo founder, oggi dotato di passaporto francese.

E’ strano, il servizio di una persona all’epoca descritta come “il Zuckerberg russo che sfida Putin” rimane attivo, in Russia, nonostante tutto? Telegram ha un ruolo strano, schizofrenico, con la politica internazionale, e da ben prima che la Russia invadesse l’Ucraina. Da anni è l’app di riferimento dell’estrema destra – statunitense ed europea –, ma anche di movimenti progressisti; allo stesso modo, fino alla scorsa settimana, il network di regime Russia today aveva un canale Telegram da un milione di iscritti (chiuso la scorsa settimana dall’azienda dopo una campagna di pressione occidentale).

E ancora, qui il presidente Volodymyr Zelensky ha un canale ufficiale da 1,3 milioni di seguaci, ma Telegram viene usato anche da hacker pro Kyiv per coordinarsi, come racconta Politico. Tra i canali di Telegram corre anche tanta disinformazione, come dimostrano i canali che usano la Z – il simbolo dipinto sui carrarmati russi ormai diventato icona pro russa – per distinguersi. Visto il rapporto controverso tra VK e il governo, anche prima della cacciata di Durov, rimane il dubbio sul trattamento speciale di Telegram da parte della Russia. Se poi si ricorda che l’app ha una pessima reputazione in fatto di privacy anche al netto dell’ombra del Cremlino (i messaggi non sono criptati di default e le chat di gruppo non possono proprio essere crittate), la figura del suo fondatore si fa sempre più ombrosa e scomoda. Non sarà Telegram a salvarci.

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