(foto Ap)

San Pietroburgo, la città di Putin dove la repressione delle proteste è stata più dura

Anna Zafesova

Una parabola insolita: da capitale "ribelle" del dissenso a epicentro degli arresti ai danni dei manifestanti pro Navalny

Almeno 806 arresti: quasi la metà di tutte le manette sui polsi dei sostenitori di Alexei Navalny, in tutta la Russia, da Vladivostok a Mosca, è scattata a Pietroburgo. La “città delle tre rivoluzioni”, come la chiamavano i depliant turistici di epoca sovietica (quella del 1905 e le due del 1917, di febbraio e di ottobre), ha riconfermato il suo strano paradosso storico: è la più ribelle, e la più repressiva contemporaneamente. Nella capitale una folla pacifica ha invaso tutto il centro, spingendosi fin sotto alle mura del Cremlino a urlare “Putin, vattene” e “Libertà ai detenuti politici”, quasi incredula di non incontrare manganelli e cordoni: i fermi sono stati poche decine, e tutti sono stati rilasciati poche ore dopo senza verbale, in altre parole, impunemente. Nella ex capitale dell’impero, invece, si è assistito a un’autentica caccia: massicci schieramenti di “cosmonauti”, come vengono chiamati i poliziotti in tenuta antisommossa, con elmetti oscuranti e giubbotti, che si lanciavano contro i manifestanti, scegliendo i bersagli totalmente a caso, come documentato da numerose telecamere. Gli agenti hanno buttato per terra e martellato con manganelli giovani e anziani, uomini e donne, ma soprattutto hanno utilizzato senza imbarazzo i taser, gli storditori elettrici. Una novità preoccupante: erano già apparsi alle precedenti manifestazioni convocate dai seguaci di Navalny, a gennaio, ma la polizia non vi aveva mai fatto ricorso con tanta facilità.

Anche in altre città russe la polizia è stata insolitamente discreta: da Perm a Ekaterinburg e da Saratov a Yaroslavl’, gli schieramenti di agenti sono stati da attacco terroristico, ma gli interventi relativamente pochi (anche se in diversi posti c'erano stati arresti preventivi dei coordinatori delle cellule locali dei navalniani). A Pietroburgo il centro era stato blindato fin dal mattino, e fino a tarda sera i “cosmonauti” hanno percorso vie laterali e vicoli intorno alla prospettiva Nevskij – clamorosamente bloccata dal corteo di due mesi fa, per la prima volta in due decenni – alla ricerca di attivisti da arrestare. Ufficialmente, i manifestanti erano appena 5 mila, ma dalle foto è evidente che erano molto più numerosi – i media indipendenti parlano di 25 mila persone – e questo spiega anche il numero elevato di fermi. Una violenza che ha fatto pensare che, nonostante la posizione intransigente del Cremlino – il movimento di Navalny rischia di venire proibito per “estremismo”, alla pari dell’Isis o dei terroristi di estrema sinistra – in realtà, molti dirigenti locali hanno preferito lavarsene le mani. Tranne Pietroburgo, la città del presidente.

Un destino curioso, quello di una capitale del dissenso, dalla rivolta dei decabristi nel 1825 alla cultura alternativa sotto il comunismo. Il bellissimo volume di Marco Sabbatini “Leningrado underground”, appena uscito da Write Up, ricostruisce quell’affascinante culla di letteratura da samizdat e rock clandestino, il cui eroe più celebre resta Iosif Brodskij, il poeta espulso dall’Urss e insignito del Nobel. Un focolaio di ribellione che Mosca ha sempre cercato di schiacciare, e l’ex capitale ha avuto dirigenze locali tra le più conservatrici dell’intero paese, da Andrei Zhdanov all’ultimo capo comunista Boris Gidaspov. Una tradizione interrotta soltanto con la fine del comunismo, quando a stravincere le prime elezioni libere a sindaco è il carismatico riformista Anatoly Sobchak, quello che restituirà all’ex capitale dei Romanov il suo nome storico, quello reso celebre da Gogol’ e Dostoevskij. Paradossalmente, sarà proprio il campione della democrazia Sobchak a chiamare come vicesindaco uno sconosciuto ex funzionario del Kgb, tale Vladimir Putin. Dal municipio di Pietroburgo, luogo di nascita non solo della maggioranza degli oligarchi e consiglieri più stretti del presidente russo, partirà la scalata al potere dei “piterskie”, i pietroburghesi, nella politica russa. Ma rimarrà sempre anche la città dove i liberali prendono più voti, e dove la piazza è tornata a essere attiva e numerosa quanto quella di Mosca, con le auto sulla prospettiva Nevskij che suonano il clacson in segno di solidarietà con i manifestanti.

Di più su questi argomenti: