fuori e dentro il Cremlino

Le due Russie senza eredi

Il presidente teme le insidie di un delfino, l'oppositore ha costruito un movimento che per sopravvivere ha bisogno del suo carisma

Micol Flammini

Vladimir Putin e Alexei Navalny condividono un’unica cosa: non hanno un successore. Ecco perché si spingono ogni giorno più in là,  in una lotta che non è ad armi pari. La presidenza a vita e lo sciopero della fame

C’è un vuoto che avvicina Vladimir Putin e Alexei Navalny. I due sono diversi in molte cose, si combattono e si rincorrono, sinceramente si detestano, l’uno è il bersaglio dell’altro in questa battaglia ad armi impari in cui il potere e la forza si concentra tutta nelle mani del presidente, che la esercita con violenza contro il più noto ed efficace dei suoi oppositori. Ma in una cosa sono legati. Né Putin né Navalny hanno un erede, sono i soli tenutari delle loro lotte diversissime e questo vuoto, questa assenza, è uno dei motivi per i quali sono costretti ad andare fino in fondo, a rischiare tutto, nel percorso che si sono tracciati. In loro tutto è diverso, anche il motivo per cui non  hanno mai coltivato un successore, ma rimango gli unici veri  rappresentanti  della loro idea di Russia. 

 

Il presidente Putin non ha mai voluto designare un delfino. Lui stesso è stato un erede designato, è stato vorace, rapido e anche abile a sbarazzarsi di chi lo aveva scelto. Boris Eltsin era già un presidente in difficoltà quando gli era stato presentato il timido, goffo ma molto determinato giovane ufficiale dell’Fsb, e a quella difficoltà Putin si è aggrappato per fare in modo che il suo turno arrivasse più velocemente. Anche il capo del Cremlino da alcuni anni sembra in difficoltà e in molti si domandano chi, se lui dovesse lasciare il suo ruolo, potrebbe prenderne il posto. La risposta è semplice: nessuno. Non ha cresciuto un erede, attorno a sé ha coltivato una corte di uomini servili e forse la verità più nuda è che il presidente un delfino non lo vuole neppure. Lo scorso anno ha trovato una soluzione al limite dei due mandati consecutivi che gli avrebbe impedito di candidarsi nel 2024: ha cambiato la Costituzione, ha sottoposto i cambiamenti a un voto nazionale e adesso, se vincerà le elezioni, potrà rimanere al Cremlino fino al 2036, quando avrà ottantaquattro anni. Un’età eccessiva per il leader di una nazione complessa come la Russia e la negazione di quello che Putin rappresentava ai suoi esordi. Piaceva perché era un presidente giovane, perché sapeva fomentare i russi con i suoi discorsi semplici e spesso violenti, è stata questa la ragione del suo successo per anni. Il Putin di ora, quello che si nasconde nel bunker per paura del virus, che non si fa vaccinare davanti alle telecamere forse per poca fiducia nei confronti del vaccino Sputnik V, che fa sbadigliare e annoiare la platea che martedì era ad ascoltare il suo discorso alla nazione – Dmitri Medvedev non fa testo, lui si è sempre addormentato – non fomenta, non agita, non appassiona. Ha perso il tocco magico, ha perso la sua capacità di conoscere e capire i russi, è un presidente sempre più distante e distaccato dalla realtà. Un presidente perso, imbalsamato, che non trascina più. Nessuno può prendere il suo posto e lui va avanti, a vita, nonostante appaia sempre più infastidito dai problemi della nazione, stanco delle critiche,  irritato dall’opposizione,  incapace di dialogare con i leader internazionali e attaccato a un’idea di mondo e di Russia troppo vecchia e ormai insostenibile

 


Il presidente  non ha mai voluto designare un delfino. Conosce bene i rischi, lui stesso lo è stato


 

Alexei Navalny è la sua ossessione, finché è stato libero non gli ha mai dato tregua, ha smitizzato con le sue inchieste e i suoi telegiornali alternativi su YouTube l’aura di intoccabilità del presidente e del potere. Ha introdotto un nuovo linguaggio politico, meno istituzionale, una satira corrosiva inaccettabile per un politico come Putin, che tanti commentatori e biografi descrivono come un eterno insicuro. Navalny ha messo su un movimento ben strutturato, che ha sedi in tutta la Russia, nonostante gli sia stato impedito di candidarsi ha sempre trovato il modo di contare. L’ultima idea, prima che venisse avvelenato con un agente nervino molto potente, il Novichok, è stata quella del “voto intelligente”. Suggeriva di concentrare, nelle elezioni locali dello scorso anno, il voto dell’opposizione sul partito che aveva la maggior probabilità di vincere. In alcune regioni ha funzionato. Dopo l’avvelenamento, confermato da tre laboratori europei, Navalny è stato ricoverato in Germania, la sua vita era in pericolo ma è sopravvissuto. Ha utilizzato i suoi mesi a Berlino per portare a termine un’inchiesta sul periodo che Putin ha trascorso a Dresda, come ufficiale del Kgb. Poco prima del suo ritorno ha pubblicato l’inchiesta, che svelava l’esistenza di un palazzo super lussuoso costruito con i soldi di fedelissimi che il presidente aveva piazzato qua e là in ruoli chiave del potere con risultati disastrosi. E’ tornato in Russia a metà gennaio, dopo oltre quattro mesi di assenza, e l’ha fatto per ridare vita e compattezza al suo movimento. Al suo arrivo a Mosca è stato immediatamente arrestato, ma è successo l’impensabile: tutte le correnti e le forme dello scontento, dell’opposizione, tutte le sensibilità contro Putin si sono unite. Ognuno per ragioni diverse, ma tutti dietro a Navalny. Il volto più noto dell’opposizione, sopravvissuto all’avvelenamento che è anche riuscito a incastrare uno dei suoi avvelenatori facendolo confessare al telefono e ridicolizzando uno dei servizi di spionaggio più temuti al mondo, adesso è in una colonia penale, dove è stato mandato con un obiettivo su tutti: farlo sparire. In poche settimane Navalny sembrava essere scomparso, i suoi sostenitori e membri della Fondazione anti corruzione avevano anche annunciato che almeno fino all’estate non ci sarebbero state più proteste. Erano smarriti. Tutto il tumulto delle due settimane di gennaio e febbraio sembrava essersi spento, fino a quando Navalny non ha iniziato lo sciopero della fame, ha cominciato ad accusare problemi fisici sempre più gravi. E’ stato lui a richiamare l’attenzione su se stesso e le proteste di martedì ben organizzate, pacifiche e con una grande partecipazione era per lui, per la sua sopravvivenza. Ha usato il suo corpo per richiamare l’attenzione perché anche lui è senza eredi. La sua fondazione si regge sulla sua persona, sul suo carisma, sulle sue sofferte dimostrazioni di coraggio e follia. Non ha nessuno a cui lasciare la sua lotta mentre lui è in carcere. Ogni tanto escono nomi e speculazioni: la moglie Yulia, il fratello Oleg, tutti e due simboli di una storia familiare che si è messa a disposizione di un cambiamento, ma che non riescono a diventare gli eredi della sua battaglia. Questo il presidente russo lo sa e capisce bene quanto leggera si possa fare la persistenza  dei navalniani senza Navalny. E’ conscio anche di quanto sia rischioso non avere nessuno a cui affidare la propria battaglia, soprattutto se la battaglia è legata alla tua vita, come nel caso dell’oppositore. 

 


Il movimento creato da Navalny si regge sul suo coraggio e carisma, senza di lui si spegnerebbe 


 

Navalny sta molto male, i suoi dottori dicono che è in pericolo di vita e adesso e martedì per la prima volta è stato visitato da medici civili che gli hanno consigliato di interrompere lo sciopero della fame. Da  due settimane, rischiando la vita, è riuscito a rimettere al centro dell’attenzione il suo movimento e Putin di fronte a una scelta: lasciarlo vivere o morire. 
Per il presidente russo, attaccato al Cremlino fino al 2036, la domanda è complessa. Il trasferimento all’ospedale civile di Vladimir è una buona notizia, sembra indicare che Putin non voglia lasciarlo morire, anche se sa che Navalny non ha eredi,  senza di lui il movimento si spegnerebbe e l’opposizione dovrebbe  aspettare il suo prossimo leader. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.