Mezzi militari indiani nella regione di Ladakh (foto LaPresse)

La guerra in altitudine

Carlo Buldrini

Lo scontro tra soldati cinesi e indiani a oltre 4.000 metri di altezza ha una lunga storia di tradimenti e forse incrina per sempre i rapporti tra Delhi e Pechino

Nella terza settimana del mese di luglio 1962, un ennesimo scontro tra le truppe indiane e quelle cinesi nella valle del fiume Galwan, in Ladakh, provocherà di lì a poco una sanguinosa guerra tra l’India e la Cina. Oggi, 58 anni dopo, è ancora la valle del Galwan al centro della contesa tra i due paesi più popolosi del mondo. Cina e India sono divise da una linea di confine “indefinita” lunga 3.488 chilometri. A occidente, a separare i due paesi, c’è la “linea attuale di controllo” (Lac) che sancisce l’esito della guerra del 1962 che si concluse con una umiliante sconfitta dell’India. La Lac taglia fuori dal territorio indiano l’intero altopiano arido e disabitato dell’Aksai Chin, storicamente appartenente allo stato indiano del Jammu e Kashmir. A oriente, il confine tra i due paesi è segnato dalla “linea McMahon” definita nel 1914 dalla Convenzione di Simla tra il governo britannico dell’India e il Tibet. Dopo la guerra del 1962, tra India e Cina, sono stati siglati cinque accordi bilaterali (l’ultimo nel 2013) per il mantenimento della pace lungo questi confini. Malgrado gli accordi, la situazione è rimasta carica di tensione e i due eserciti si sono confrontati in molte occasioni. Nel 2017, per 73 giorni, i soldati indiani e gli uomini dell’Esercito popolare di liberazione cinese si sono fronteggiati a Doklam, una località himalayana, dove si toccano i confini di India, Cina (Tibet) e Bhutan.


Nello scontro di lunedì notte ci sono stati almeno venti morti tra i soldati indiani, mentre il numero delle vittime cinesi non è noto


 

Quest’anno, il confronto tra i due eserciti è stato ancora più duro del solito. Le schermaglie sono iniziate il 5 maggio, quando 250 soldati di entrambe le parti si sono affrontati con sbarre di ferro, bastoni e lancio di pietre nei pressi del lago Pangong, lungo la linea attuale di controllo. Ci sono stati feriti. Un nuovo incidente si è verificato il 9 maggio. Vicino al passo di alta montagna di Naku, in Sikkim, militari indiani e cinesi hanno dato vita a un nuovo violento confronto. L’India accusa la Cina di essere entrata in Ladakh in tre punti: nella valle del fiume Galwan, nei pressi del lago Pangong e a Damchok. In queste zone, i cinesi hanno ammassato 12.000 soldati, hanno montato un centinaio di tende, hanno allestito accampamenti militari e hanno costruito bunker in cemento armato, sottraendo all’India 60 chilometri quadrati del proprio territorio. Da parte sua la Cina obietta all’India la costruzione di una strada chiamata “Ds-Dbo”. La strada corre, in territorio indiano, parallela alla linea attuale di controllo. Ma va tenuto presente che costruire una strada in questo territorio conteso, equivale a volte a una dichiarazione di guerra. L’altra obiezione cinese riguarda l’alterazione fatta dal governo indiano dello status giuridico del Ladakh, adesso separato dal Jammu e Kashmir e diventato “territorio dell’Unione” sotto la diretta amministrazione del governo di New Delhi. Per risolvere queste controversie è iniziata una trattativa tra i rappresentanti dei due eserciti. Dopo sei incontri terminati con un nulla di fatto, il 6 giugno, a Chushul, nel versante cinese della Lac, si sono incontrati il generale indiano Harinder Singh e la sua controparte cinese, il generale Liu Liu. Stando a un comunicato ufficiale del ministero degli Esteri indiano “i colloqui tra i due generali si sono svolti in una cordiale e positiva atmosfera”. Da parte cinese, invece, le bocche sono rimaste cucite. E’ poi trapelato che, nel corso dell’incontro, la posizione del generale cinese è stata intransigente. Avrebbe detto che la valle del Galwan appartiene alla Cina e che il suo esercito non l’avrebbe abbandonata. L’“atmosfera cordiale e positiva” menzionata nel comunicato indiano è stata drammaticamente smentita la notte tra il 15 e il 16 giugno. Un nuovo violento confronto tra i soldati dei due eserciti nella valle del Galwan ha causato la morte di 20 soldati indiani. Il numero delle vittime in campo cinese non è stato possibile accertarlo.

 

Questo grave incidente di frontiera sancisce il fallimento della politica di appeasement nei confronti di Xi Jinping portata avanti dal primo ministro indiano Narendra Modi. Nel 2014, appena nominato primo ministro, Modi rinviò di sei settimane una visita già programmata in Giappone per permettere a Xi Jinping di essere il primo capo di stato di un paese straniero a essere ricevuto in India dalla sua nuova amministrazione. Per riaffermare l’amicizia tra i due paesi e “discutere in un’atmosfera amichevole delle questioni strategiche di importanza globale e regionale”, Xi Jinping e Narendra Modi hanno dato vita a due “summit informali” nel 2018 e 2019. Il primo si è tenuto a Wuhan, in Cina, il secondo a Chennai, nell’India meridionale. L’incidente di frontiera di questi giorni ha fatto completamente evaporare l’atmosfera amichevole di Wuhan e Chennai e segna forse un punto di non ritorno nelle relazioni tra i due paesi. Per capire perché, bisogna ripercorrere la storia dei rapporti politici e diplomatici tra l’India e la Cina.


Nel 1962 la Cina approfittò della crisi dei missili a Cuba per attaccare l’India. Nel 2020 approfitta della pandemia globale


 

Alla fine degli anni ’40 del secolo scorso, le due grandi civiltà dell’Asia si affacciavano sul palcoscenico mondiale come due giovani nazioni uscite vittoriose da lunghi anni di lotta contro la dominazione europea. Il 15 agosto 1947 Jawaharlal Nehru aveva annunciato l’indipendenza dell’India. Il primo ottobre 1949 Mao Zedong aveva proclamato la Repubblica popolare cinese. I due paesi si erano mostrati subito amici. Nehru si era personalmente battuto perché il seggio permanente del Consiglio si sicurezza delle Nazioni Unite già occupato dalla Cina nazionalista fosse assegnato alla Repubblica popolare cinese di Mao. E, sempre Nehru, si adoperò affinché fosse garantita la presenza del primo ministro cinese Zhou Enlai nella importante conferenza afroasiatica che si tenne a Bandung, in Indonesia, nell’aprile 1955. Ma un episodio aveva gettato una prima ombra sull’amicizia tra i due paesi: il 7 ottobre 1950 la Cina aveva invaso e occupato militarmente il Tibet. Nehru, parlando in Parlamento, aveva detto di sperare che la cosa potesse essere risolta pacificamente. Aveva aggiunto che “sarebbe stato sbagliato criticare duramente la Cina, un paese vicino, anch’esso uscito dall’ombra della dominazione europea”. Vallabhbhai Patel, vice primo ministro dell’India e ministro dell’Interno, chiedeva invece di tenere una linea dura nei confronti della Cina. Scrisse a Nehru: “L’irredentismo cinese e l’imperialismo comunista sono diversi dall’espansionismo e dall’imperialismo delle potenze occidentali. Quello cinese, nascosto sotto le vesti dell’ideologia, è dieci volte più pericoloso. Nasconde rivendicazioni razziali, nazionali e storiche”. Nella lettera, Patel chiedeva a Nehru di “essere cosciente del nuovo pericolo” e lo invitava a “rendere l’India più forte sotto il profilo difensivo”. Nehru gli rispose che il suo governo doveva trovare un’intesa con Pechino perché “l’India e la Cina in pace tra loro, avrebbero avuto un peso determinante negli equilibri mondiali”. Di lì a poco Patel morì e Nehru poté portare avanti il suo tentativo di trovare un “understanding” con la Cina. In quegli anni gli Stati Uniti cominciavano a portare avanti una politica favorevole al Pakistan e l’India si avvicinò ancora più alla Cina. Nell’aprile 1954 l’India riconobbe ufficialmente il Tibet quale parte della Cina. La dichiarazione congiunta di India e Cina elencava per la prima volta i famosi cinque princìpi (“panch sheel”) di coesistenza pacifica tra i due paesi. Questi comprendevano il patto di mutua non aggressione e la coesistenza pacifica.

 

Alla fine del 1954 Nehru visitò per la prima volta la Cina. Ricevette una calorosa accoglienza dal popolo cinese. Al suo ritorno in India, il primo ministro indiano fu accolto da un milione di persone radunate nel Maidan di Calcutta. “Il popolo cinese non vuole la guerra” assicurò Nehru alla folla. Due anni dopo Zhou Enlai restituì la visita. Si recò in India accompagnato dal Dalai Lama e dal Panchen Lama. All’epoca i rapporti tra India e Cina erano ancora cordiali e lo slogan di quei giorni era “Hindi-Chini bhai-bhai”, gli indiani e i cinesi sono fratelli.


L’incidente sancisce il fallimento della politica di appeasement voluta da Narendra Modi nei confronti della Cina


 

Nelle zone di confine intanto, India e Cina erano impegnate nel consolidare le loro rispettive posizioni. Nel settore orientale la linea McMahon era stata tracciata dagli inglesi per proteggere le proprie piantagioni di tè in Assam. Una larga parte del Tibet meridionale, con capitale Tawang, era finita così nell’India britannica. Con l’indipendenza dell’India, il governo indiano cercò di rafforzare la propria presenza in questa regione allora chiamata North-East Frontier Agency (Nefa, oggi è l’Arunachal Pradesh). Inviò sul posto un drappello di militari, e un ufficiale del governo indiano fece sapere ai lama del famoso monastero di Tawang che “non era più necessario pagare i tributi a Lhasa”. Sul fronte occidentale fervevano invece le attività cinesi. Tra il Ladakh, che faceva parte dello stato indiano del Jammu e Kashmir, e le due province cinesi dello Xinjiang e della regione autonoma del Tibet, si incuneava l’Aksai Chin, un arido e disabitato altopiano. Un trattato del 1842 lo indicava come parte dell’India britannica prima, e poi dello stato principesco del Jammu e Kashmir del maharaja Hari Singh. A partire dal 1956 i cinesi avevano iniziato a costruire nell’Aksai Chin una strada che, dalla città di Yarkand, nello Xinjiang, sarebbe arrivata fino a Lhasa, in Tibet. Nell’ottobre 1957 la strada era stata completata. La Cina poteva così farvi transitare camion carichi di soldati e armamenti con destinazione la capitale di un Tibet in quegli anni in rivolta. Cina e India stavano portando avanti le loro attività lungo la frontiera, a est e a ovest, all’insaputa l’uno dell’altro.

 

Nel luglio 1958 si verificò quella che l’India chiamò una “aggressione cartografica”. China Pictorial, una rivista ufficiale del governo cinese, pubblicò una mappa che mostrava la quasi totalità della North-East Frontier a est, e l’intero Aksai Chin a ovest, come parte della Repubblica popolare cinese. Alla protesta formale di Nehru, Zhou Enlai rispose che “la linea McMahon è un prodotto dell’aggressione britannica nei confronti della regione cinese del Tibet”. I rapporti tra India e Cina si stavano deteriorando. A complicare le cose c’era stata la fuga del Dalai Lama in India (31 marzo 1959). La Cina si mostrò molto indispettita dall’accoglienza che l’India riservò al “dio-sovrano” del Tibet. Nell’agosto del 1959 si verificò il primo scontro tra militari cinesi e indiani a Longju, lungo la linea McMahon, nel settore orientale. A ottobre, un drappello di soldati indiani fu attaccato nel Kongka Pass in Ladakh. Nove uomini dell’esercito indiano furono uccisi e molti fatti prigionieri. Gli scontri continuarono. Dopo tre anni di “quasi guerra”, la notte tra il 19 e il 20 ottobre 1962, tra India e Cina fu guerra vera. Con un “blitzkreig” attraverso gli alti passi himalayani, gli uomini dell’Esercito popolare di liberazione cinese invasero simultaneamente il settore orientale e quello occidentale. Le forze indiane furono colte di sorpresa. A est, vennero sbaragliate permettendo ai cinesi di raggiungere Tawang. A ovest, nella zona di confine tra il Ladakh e l’Aksai Chin, otto postazioni militari indiane caddero in mano cinese. Il 24 ottobre i cinesi fermarono l’avanzata. Il 22 novembre la Cina annunciò il cessate il fuoco unilaterale. Nel settore orientale l’esercito cinese si ritirò dietro la linea McMahon. Nel settore occidentale, invece, la Cina mantenne il controllo dell’intero Aksai Chin e, successivamente, fu fissata la linea attuale di controllo (Lac) che ancora oggi separa a occidente i due paesi. Nella guerra morirono 1.383 soldati indiani e 3.968 furono fatti prigionieri.


Jawaharlal Nehru sosteneva un “understanding” con Pechino, un suo ministro lo mise in guardia dall’“imperialismo comunista” 


Dopo la cocente sconfitta, nel Parlamento di New Delhi fu aspramente criticata la politica di Nehru e il suo tentativo di trovare un “understanding” con la Repubblica popolare cinese. Il ministro della Difesa Krishna Menon fu allontanato. L’umiliazione subita da Nehru lasciò il segno. L’ambasciatore americano che lo incontrò, lo descrisse come “un uomo fragile, all’apparenza piccolo e vecchio”. La sua salute deteriorò rapidamente. Morì il 27 maggio 1964. Ancora oggi, in India, sono in molti ad attribuire la morte di Nehru al “tradimento” cinese.

 

La guerra lampo della Cina contro l’India avvenne in quello stesso mese di ottobre 1962 in cui il mondo intero rimase con il fiato sospeso per il confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica a causa della crisi dei missili a Cuba. Analogamente, quest’anno, la Repubblica popolare cinese ha approfittato di un mondo alle prese con una pandemia che sta causando migliaia di morti e sta mettendo in ginocchio le economie di tutti i paesi, per passare all’attacco. Lo ha fatto speronando e affondando un peschereccio vietnamita (2 aprile) nel Mar cinese meridionale, affermando così la sua volontà di dominio in questo specchio di mare. Lo ha fatto approvando la legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong (28 maggio) togliendo alla città ogni speranza di autonomia. Lo ha fatto minacciando un’azione militare contro Taiwan (29 maggio) “se non ci sarà un’altra via per impedirle di diventare indipendente”. Lo ha fatto attaccando l’India lungo il confine che separa il Ladakh dall’Aksai Chin (5 maggio – 15 giugno). Con queste azioni dimostrative Xi Jinping vuole riaffermare la propria leadership in Asia e offrire un assaggio di quell’“armonia universale” che la Cina, sotto la sua leadership, mette a disposizione del mondo.

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