La guerra dei mondi

Alessandro Maran

Più che sul fronte economico, il vero “decoupling” tra Cina e Stati Uniti potrebbe avvenire su quello tecnologico. E per l’Europa sarà il momento di scegliere con chi stare

“Comò ’l score de un fiume in t’el mar grando”.

(Biagio Marin)

  

Un paio di settimane fa, in una intervista a Fox Business, il presidente americano Donald Trump ha detto, parlando dell’estensione delle supply chain al di fuori dei confini nazionali, di volere riportare le industrie americane a casa. “Dovremmo fare tutto negli Stati Uniti”, ha dichiarato. Siamo in campagna elettorale, si sa. Trump ha bisogno di qualcuno da incolpare per la disoccupazione di massa e gli insuccessi che il Covid-19 si sta lasciando alle spalle e ha scelto la Cina come capro espiatorio. Ma la guerra commerciale fra Cina e Stati Uniti dura a questo punto da tre anni e ormai si parla apertamente di “nuova Guerra fredda”. Oltretutto, visto che la Cina non ne vuole sapere di conformarsi al modello politico liberal-democratico adottato in occidente, il conflitto sul piano economico ha assunto inevitabilmente una connotazione ideologica.

 

Ci siamo abituati a parlare di “guerra commerciale” e ora ecco la “guerra tecnologica” o addirittura la “Guerra fredda”

In questo contesto, la parola che più ricorre nel dibattito internazionale per descrivere la traiettoria delle relazioni tra Cina e Stati Uniti, è “decoupling”, il termine usato in economia per indicare il progressivo allontanamento tra due economie tra loro correlate e interdipendenti. La parola allude, nel nostro caso, al disaccoppiamento tra le due maggiori economie del mondo. Ma divorzieranno davvero? Sì e no. Una rilocalizzazione, un trasloco di imprese americane dalla Cina verso gli Stati Uniti e altre destinazioni (il caso più noto è quello della produzione del prossimo iPhone spostata in India) per riportare a casa la produzione di beni vitali, è sicuramente probabile. I nuovi dati sul lavoro nell’industria e nella logistica confermano infatti un trend di “reshoring” in molti paesi avanzati (persino con il ritorno di un certo numero di posti di lavoro, anche se si tratta di figure molto diverse da quelle ben pagate e relativamente poco specializzate di vent’anni fa).

 

Ma le relazioni economiche (sia le attuali sia quelle in prospettiva) sono molto più interconnesse di quanto l’uso crescente del termine “decoupling” possa suggerire. Non per caso, sebbene sia diventato un termine di moda (e per alcuni sia un punto d’arrivo desiderabile), finora né il governo degli Stati Uniti né quello cinese lo hanno mai impiegato nei documenti e nei discorsi ufficiali, nonostante le relazioni tra i due paesi abbiano toccato il punto più basso da mezzo secolo a questa parte. Anche perché in politica estera le parole sono pietre. Ci siamo abituati a parlare di “guerra commerciale” da qualche anno appena, e in un batter d’occhio il conflitto sul piano economico è diventato “guerra tecnologica” e ora si parla addirittura di “Guerra fredda”, della lotta, cioè, per il controllo del mondo.

   

Di “decoupling” si è cominciato a parlare nella letteratura accademica dedicata alle relazioni sino-americane e nei think tank. Poi la parola è diventata il cavallo di battaglia di Steve Bannon, l’ex stratega del presidente Trump. Ma si sa che, nelle relazioni internazionali, il linguaggio può sia rispecchiare la realtà, sia “creare” la realtà. E può produrre (rapidamente) anche conseguenze non intenzionali. Per esempio, il dibattito sul “Great Decoupling” che infuria in entrambi i paesi ha come conseguenza, nelle due capitali la predisposizione di piani di emergenza per affrontare tutta una serie di scenari economici nel caso in cui un “decoupling” con la D maiuscola dovesse davvero realizzarsi. Il che, ovviamente, accresce il rischio che questi piani vengano attivati in risposta a qualsiasi indizio, per quanto labile, di un’azione ostile dell’altra parte. Creando, in questo modo, come è avvenuto alla vigilia della Grande guerra, una spirale di azioni e reazioni che, sia pure nell’ambito dell’economia, rischiano di sfuggire di mano.

  

Resta il fatto che chi sostiene un “decoupling globale” sta cercando di creare le condizioni per una “Seconda Guerra fredda”. Ma proprio perché le relazioni economiche sono molto più interconnesse di quanto si racconti non sarebbe male se, anziché indulgere in un linguaggio incendiario, i policymaker di Washington e Pechino stabilissero i nuovi termini della coesistenza economica, dentro la cornice di quella che gli Stati Uniti hanno definito “una nuova èra di competizione strategica”. In altre parole, come sempre, dovremmo stare molto attenti a quel che desideriamo, perché potremmo ottenerlo. Va da sé, infatti, che un mondo completamente “disaccoppiato” sarebbe un posto destabilizzato, che minerebbe le certezze di crescita economica globale degli ultimi quarant’anni, segnerebbe il ritorno di una cortina di ferro tra est e ovest e darebbe la stura a una nuova corsa agli armamenti (nucleari e convenzionali) con l’instabilità e i rischi conseguenti.

 

Molti degli economisti, si sa, preferirebbero ignorare la politica, ma oggi è proprio la politica interna a costituire il fattore critico per l’avvenire della relazione tra i due paesi. Sia i repubblicani e i democratici a Washington, sia i conservatori e i riformisti a Pechino si accapigliano sulla relazione tra i due paesi perché quella relazione è giustamente considerata al centro di tutte le cose: dalla soia al Mar cinese meridionale fino al cambiamento climatico; da Huawei alla Nba e ai diritti umani.

 

Ma al di là delle spacconate e delle posture elettorali, a quattro anni dall’elezione di Trump non è ancora chiaro quale sia la strategia americana. Quel che si capisce è che l’America è arrabbiata con la Cina perché ritiene abbia tradito la sua fiducia e abbia barato nell’adottare le regole del Wto nel commercio internazionale e nelle pratiche economiche; ed è frustrata per le mancate promesse di riforma. Ma se è chiaro che l’America ha una visone negativa della Cina, la sua strategia per affrontare Pechino non è affatto chiara.

 

Nel 2017 la National Security Strategy ha definito per la prima volta la Cina un concorrente “alla pari” degli Stati Uniti e ha concluso che quarant’anni di impegno strategico non sono riusciti a far sì che Pechino aderisse all’ordine globale fondato sulle regole. Invece di diventare uno stakeholder responsabile, la Cina ha inaugurato un nuovo periodo di “competizione strategica a tutto campo”. Il che però non rappresenta una strategia politica dettagliata per il futuro. Tanto che il segretario Mike Pompeo, che pure ha rigettato esplicitamente “il sistema ideologico cinese”, non ha mai avallato nessuna forma di “decoupling” per le due economie e il vicepresidente Mike Pence qualche mese fa ha detto: “Ci hanno chiesto se l’amministrazione Trump cerchi di dissociarsi dalla Cina. La risposta è un sonoro no”.

 

Non è detto, tuttavia, che Pechino prenda per buone queste assicurazioni, posto che negli ultimi anni la fiducia tra le due parti è crollata completamente. Specie se si tiene conto che, dal canto suo, Xi Jinping intende rimanere in sella a lungo e che il suo principale punto debole resta l’economia. Xi ritiene che gli Stati Uniti abbiano cambiato atteggiamento nei confronti della Cina e avrebbe detto ai suoi colleghi del Politburo che il partito dovrà preparasi a un conflitto trentennale con gli Stati Uniti. Per questo Xi ha dato inizio ad una strategia accelerata per proteggere il più possibile la Cina da una eventuale azione americana coercitiva diretta contro l’impalcatura economica del paese. E si cominciano a vedere alcuni segnali di questa inversione di rotta nel commercio, negli investimenti, nella tecnologia e nel mercato dei capitali. Anche se i dati sono tutt’altro che uniformi, specie quando si tratta di mercato dei capitali e di certi mercati tecnologici dove rimettere il dentifricio nel tubetto non è affatto un’impresa facile.

 

Insomma, l’amministrazione Trump potrebbe essere in buona fede quando dice di non volersi imbarcare in un “decoupling” economico con la Cina, ma potrebbe essere proprio il governo di Xi Jinping ad avviare e accelerare il processo nel nome della “self-reliance” nazionale, un concetto che oggi è diventato il perno della politica cinese. Ovviamente è improbabile che imboccare la strada dell’autosufficienza possa essere davvero nell’interesse della Cina (la maggior parte dei riformatori cinesi direbbe un altrettanto sonoro no) ma il senso di vulnerabilità fa fare cose strane sia alla gente sia agli stati. In questo stadio dello sviluppo economico la vulnerabilità della Cina rispetto alla decisione degli Stati Uniti di limitare i propri mercati alle merci e ai servizi cinesi è considerevole: gli Stati Uniti sono il principale mercato di sbocco per la Cina. Al contrario, la Cina è meno importante per gli Stati Uniti. Inoltre, quella di Pechino è un’economia più dipendente dal commercio di quella di Washington. Anche se oggi è meno vulnerabile di un decennio fa.

 

Insomma, Xi si rende conto della rilevante minaccia all’economia che deriva dalla guerra commerciale con gli Stati Uniti. La sua strategia a breve termine è quella di gestire la guerra commerciale offrendo concessioni in modo da prevenire un’ulteriore escalation, senza tuttavia cedere riguardo a quelli che Xi considera i fondamentali interessi economici e politici nazionali. Allo stesso tempo, Xi da un lato cerca di rilanciare i consumi privati interni come principale spinta alla crescita economica e, dall’altro, cerca di diversificare i mercati di esportazione cinese. Non è detto che funzionino, ma entrambe le strategie sono pensate per ridurre la dipendenza cinese di lungo termine dagli Stati Uniti.

 

In un discorso sulla prevedibile “separazione” dell’economia cinese da quella americana, l’ex primo ministro australiano Kevin Rudd, che ora guida l’Asia Society Policy Institute, ha esaminato minuziosamente quanto in profondità possa andare questa spaccatura. Secondo Rudd, mentre i mercati dei capitali sono uniti in modo indissolubile (qualcosa come 5.000 miliardi di dollari sono legatiin listini di borsa transfrontalieri, partecipazioni, titoli di stato, azioni cinesi “intermediate” da società americane), le cose stanno diversamente quando si tratta di tecnologia. Qui, gli Stati Uniti e la Cina sono risucchiati in una spirale competitiva e ciascuno si sta preparando al taglio delle catene di approvvigionamento tecnologico, considerato che gli Stati Uniti non nascondono le loro preoccupazioni riguardo alla sicurezza nazionale e che la Cina privilegia la capacità di auto-sostenersi.

 

Gli Stati Uniti e la Cina nei mesi scorsi hanno siglato la “fase uno” di un accordo commerciale volto a impedire una ulteriore escalation nella guerra commerciale (per la “fase due” si vedrà dopo le elezioni). Ma sebbene la Cina possa trovare un accordo su temi importanti come il furto di tecnologia, è improbabile che questo possa mettere fine alla competizione tecnologica. L’irrigidimento tra le due principali economie del mondo potrebbe quindi durare ben oltre i dazi e le tregue dell’èra Trump.

 

Per Xi Jinping la lotta per il primato tecnologico sugli Stati Uniti è diventata l’elemento centrale della relazione tra Pechino e Washington e, più in generale, della strategia di sicurezza nazionale. Il Piano di sviluppo per l’Intelligenza artificiale, dichiara esplicitamente che l’Ia, il motore della quarta rivoluzione industriale, “è l’area principale di competizione economica e strategica internazionale”; un’area nella quale la Cina ha una “opportunità strategica fondamentale” e potrebbe godere del significativo “vantaggio della prima mossa”. E in questa guerra tecnologica che si sta sviluppando rapidamente la posta in gioco è diventata molto alta, superando gli ambiti tradizionali del commercio, degli investimenti, della politica estera e di sicurezza. Per molti versi, anzi, è diventato il terreno centrale della relazione sino-americana.

 

La realtà perciò è che un grado significativo di “decoupling” tecnologico tra la Cina e gli Stati Uniti si sta già realizzando. Naturalmente, tutto è cominciato più di vent’anni fa, quando la Cina ha deciso di non cedere sulla sovranità di Internet per limitare il flusso di informazioni diretto ai propri cittadini. Ed è probabile che accada lo stesso con il 5G per ragioni relative alla sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati. Inoltre, anche per quel che riguarda l’Ia, l’intreccio tra le esigenze di sicurezza americane e la strategia cinese che punta sulla “national self-reliance”, pone il settore su una traiettoria di “decoupling”.

 

Dopo tre anni di guerra commerciale, sembra tuttavia che entrambe le parti si siano fermate a guardare l’abisso: dopotutto, parecchia gente potrebbe farsi molto male, senza benefici duraturi per nessuno. Entrambi i presidenti hanno l’interesse di rafforzare le loro rispettive economie e, sebbene la rimozione dei dazi non sia probabile in un anno elettorale, le trattative andranno avanti. Sembra infatti che non ci sia in giro tanta voglia di danneggiare ulteriormente le relazioni commerciali e che trapeli il desiderio di metterci una pezza e di risolvere poi il resto con il tempo.

 

Ma porre fine o limitare la guerra commerciale non significa, di per sé, porre fine alla guerra tecnologica, alla guerra per i “talenti”, al declino del flusso degli investimenti diretti o alle nuove incertezze emergenti sulla valuta (si veda la proposta cinese di un renminbi digitale). Questa guerra è probabile che continui in conseguenza dell’irrigidimento politico in entrambi i paesi. Il pericolo di una spirale negativa perciò rimane. Insomma, un certo “decoupling” è ora inevitabile, ma un “decoupling” su larga scala resta molto improbabile.

 

Va da sé che al di là delle relazioni economiche, le tensioni di politica estera e di sicurezza continueranno a crescere tra Pechino e Washington. Non ci sarà un tracollo, ma la rivalità geopolitica tra i due paesi è destinata a intensificarsi. Viviamo in una fase storica in cui una potenza a lungo dominante (gli Stati Uniti) deve fronteggiare una potenza emergente (la Cina). Fu proprio Xi Jinping, qualche anno fa, a evocare la trappola di Tucidide, sostenendo che Stati Uniti e Cina avrebbero dovuto fare tutto il possibile per non cadervi dentro. Si tratterà di trovare, come propone Kevin Rudd, qualche forma di “competizione strategica gestita”, che possa definire anche una cornice per i paesi terzi. Se nel tempo il “decoupling” dovesse svilupparsi e dovesse prendere forma un sistema internazionale sempre più bipolare, i paesi terzi si troveranno di fronte a pressioni crescenti per compiere una scelta strategica: o con il blocco occidentale o con il blocco cinese. La questione Huawei potrebbe essere solo la prima delle scelte che verranno, e non solo per quel che riguarda la tecnologia. L’Unione europea dovrà ovviamente scegliere da che parte stare, anche perché non sarà facile tenere un piede in due scarpe, come hanno cercato di fare finora molti paesi europei. E forse, un po’ alla volta potrebbe farsi strada la consapevolezza che in assenza di una nazione democratica sufficientemente forte da essere un punto di riferimento e contrastare le potenze emergenti del capitalismo autoritario, allora un “nuovo centro” capace di esercitare una funzione ordinatrice può emergere soltanto come alleanza globale tra democrazie, cementata da un mercato comune; un’alleanza anche economica grande abbastanza per imporre standard occidentali a un sistema globale dove emergono nuovi poteri globali e regionali (e cos’altro erano il Ttip e il Tpp?). Specie se si considera che più che ad un “Great Decoupling”, stiamo assistendo, con il riemergere un po’ dovunque di varie forme di populismo, di protezionismo e di nazionalismo, al “grande disfacimento” dell’ordine globale (basato sulle regole) costruito a caro prezzo negli anni successivi all’ultima guerra mondiale. Il che sarebbe una tragedia. La deriva verso l’anarchia internazionale aprirebbe le porte a un’èra caratterizzata dalla legge della giungla.

 

Non è un mistero per nessuno che tra le conseguenze della pandemia ci sia anche un prepotente ritorno dell’anticapitalismo, e che ci sia, come ha scritto Alberto De Bernardi, chi vuole cogliere l’occasione per “regolare i conti” una volta per tutte con il capitale e il mercato. Per questo, non sorprende che si discuta dei finanziamenti statali alle aziende e della partecipazione del settore pubblico ai loro Cda. Così come non deve meravigliare l’imposizione di alcune condizioni e garanzie ai finanziamenti forniti dallo stato (che si mantenga cioè la presenza sul territorio nazionale, che non si delocalizzi, ecc.); o che si parli, anche a sproposito, del prestito chiesto da Fca per sostenere i suoi 16 stabilimenti italiani. Ma vista l’aria che tira, non sarebbe male tenere sott’occhio quel che accade, come si dice dalle mie parti, nel “mar grando”. Dopotutto, è stato quell’ordine mondiale “in disfacimento” a garantire il periodo di pace e prosperità senza precedenti di cui abbiamo beneficiato. O di questo si occupa Di Maio?

In Europa la questione Huawei potrebbe essere solo la prima delle scelte che verranno, e non solo per quel che riguarda la tecnologia

Al di là delle spacconate e delle posture elettorali, a quattro anni dall’elezione di Trump non è chiaro quale sia la strategia americana

Il settore dell’Ia è quello in cui la Cina ha una “opportunità strategica fondamentale” e potrebbe godere del “vantaggio della prima mossa”

Di più su questi argomenti: