(foto LaPresse)

Gli aiuti europei all'Italia sono ignorati dalla propaganda

Micol Flammini

Per le donazioni di Berlino, Parigi e Praga e per il maxi appalto della Commissione Ue non c’è posto nello spin della Farnesina

Roma. C’è una guerra di propaganda che in questi giorni si sta combattendo a suon di mascherine e di annunci e che vede contrapporre quel che gli alleati naturali dell’Italia stanno facendo per la nazione durante l’emergenza sanitaria del coronavirus e gli altri: cinesi, russi, cubani, egiziani, brasiliani. L’Italia ha visto l’arrivo degli aiuti di Pechino, le bandiere cinesi sventolano da alcuni giorni accanto a quelle italiane all’ingresso degli ospedali della Lombardia. Poi è stato il turno dei medici cubani, atterrati con in braccio il ritratto di Fidel Castro. Gli ultimi i russi, arrivati con un’operazione perfetta, sono atterrati a Pratica di Mare per installare una base a Orio al Serio, le camionette dell’esercito russo hanno percorso 639 chilometri, viaggiando, come ha detto una conduttrice del telegiornale russo, “nel cuore dell’Europa e lungo le strade della Nato”. Queste immagini hanno colpito tutta l’Europa che ha visto l’Italia trasformarsi in un teatro di propaganda.

 

L’Ue ha reagito in ritardo in fatto di aiuti, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha invitato tutti i paesi, era il 15 marzo, a “condividere il materiale protettivo”. Da quel momento gli stati membri si sono svegliati, la crisi che sembrava soltanto italiana è diventata rapidamente una crisi europea. La Germania e la Francia sono state le più solidali. Berlino la scorsa settimana ha inviato sette tonnellate di attrezzature per l’assistenza respiratoria e un milione di mascherine. La Francia lo aveva già fatto e alle donazioni ha aggiunto duecentomila tute protettive. Gli aiuti sono stati inviati anche dall’Austria, un milione di mascherine. E la Repubblica ceca – accusata la scorsa settimana di aver sequestrato un carico di aiuti cinesi destinati all’Italia ( si è poi scoperto che c’era un’indagine in corso su quel materiale e Praga ha comunque provveduto a inviare centodiecimila mascherine) – ha donato diecimila tute protettive. L’Unione è stata tacciata di mancanza di solidarietà tra europei, alcuni stati hanno cercato di recuperare, ma si sono trovati davanti il muro della propaganda. La Germania, per esempio, ha tentato di alleggerire il carico delle terapie intensive, sia in Francia sia in Italia, ma lo ha fatto senza spot e senza pensare che invece l’arrivo di Cina, Cuba e Russia sarebbe stato accolto con così tanta pubblicità. Gli spot non hanno permesso neppure di rendersi conto che nel frattempo la Commissione europea ha fatto un maxi appalto collettivo a cui partecipano venticinque stati membri per materiale sanitario. Il clamore suscitato dall’arrivo dei cinesi e degli altri non ha consentito di vedere che le offerte del bando indetto dall’Ue superano le quantità richieste dai singoli stati. La guerra della propaganda è iniziata sul territorio italiano, “non ci siamo fatti pubblicità”, ha detto un funzionario dell’Eliseo al sito di notizie europee Politico. “Non dobbiamo perdere la guerra della propaganda ricevendo qualsiasi cosa dalla Cina, dalla Russia e da Cuba”, ha detto sempre a Politico una fonte del Consiglio europeo. Il problema tuttavia è da cercare anche nelle nostre istituzioni che a questa propaganda hanno offerto il fianco. Nei giorni scorsi il ministero degli Affari esteri ha pubblicato un’infografica sulle mascherine in arrivo in Italia. Nell’elenco comparivano anche Egitto, Brasile e India, oltre a Cina, Russia e Unione europea. Tutti insieme, senza fornire dettagli sul carattere di questi aiuti, se si trattava di donazioni o di acquisti. Il materiale donato dagli altri paesi membri non è finito nello spin della Farnesina, ma l’Ue, anche se ogni stato è ormai colpito dall’epidemia, ha deciso di agire senza troppa pubblicità. Quando il coronavirus era ancora un affare tutto cinese, Bruxelles aveva inviato 56 tonnellate di materiale sanitario. Una fonte europea ha riferito alla giornalista Isabelle Ory che quando Pechino stava per ricevere gli aiuti aveva chiesto di farlo con discrezione. Discrezione che non ha usato quando le parti si sono invertite.

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