Joe Biden (foto LaPresse)

Le stelle di Biden

Luciana Grosso

L’ex vicepresidente è sempre più il candidato scelto dai democratici per sfidare Trump. Cosa ci dice il miniTuesday sulle sue chance di batterlo 

E dunque, alla fine ha vinto Biden. Lo ha fatto in Michigan, Missouri, Mississippi e Idaho. Lo stato di Washington è in bilico e il North Dakota vede in vantaggio Bernie Sanders. Una situazione alla luce della quale Biden, oltre ad aver vinto in quattro stati su sei di quelli in palio questa notte, ha sostanzialmente vinto la corsa per le primarie democratiche che, a questo punto, sembrano cosa fatta.


 

Certo, in via teorica ci potrebbe ancora essere un ribaltamento di fronte, e se Bernie vincesse in tutti gli stati in corsa da qui all’estate, potrebbe, in teoria, vincere. Ma non succederà. Non solo perché appare statisticamente arduo, ma perché, molto probabilmente, in quegli stati nemmeno ci si arriverà alle primarie. Con ogni probabilità, la conta interna ai dem per scegliere il loro candidato, finirà a breve (si parla del 15 marzo, data del prossimo dibattito) o al più tardi del 17, data delle consultazioni che potrebbero dare a Biden la certezza matematica della vittoria e a Bernie Sanders quella della sconfitta. 

 

 

Così, alla luce dei fatti, dei numeri e di un entusiasmo che anche se non scende, di certo non si espande e non trova nuove e più numerose voci, dalle parti di Sanders si inizia a mormorare la parola “fine” o addirittura quella “ritiro”. Lo ha fatto a CNN un collaboratore stretto del candidato socialista che ha detto (da anonimo) “semplicemente non è successo” mentre un suo collega (anche lui anonimo), interrogato su cosa pensasse di fare Bernie nei prossimo giorni ha risposto “il dibattito”. 
 

  

 

Anche i sostenitori storici di Sanders, sono apparsi nervosi o rassegnati: Bill de Blasio, il sindaco di New York che ha il dono di una rara maldestria, ha rivolto un controproducente appello a Elizabeth Warren affinché facesse endorsement per Sanders, con il risultato di far infuriare i sostenitori dell’una (che si sono sentiti tirare per la giacca) e dell’altro (che si sono sentiti scavalcati e offesi). Anche la comunicativamente più abile Alexandria Ocasio Cortez, che per Sanders ha dato l’anima, sembra rassegnata e, nella notte, ha parlato di “una serataccia”.

 

Ma è Bernie Sanders stesso, con la sua decisione di non parlare alla fine dello spoglio, che dà la dimensione di quanto grande e profondo sia il rompete le righe che si respira dalle parti della sua campagna, lui che che per un mese esatto di primarie è parso essere il predestinato e che ora si ritrova con un pugno di mosche.

A lui, sconfitto nei fatti, è arrivato anche l’appello di Biden, gongolante ma senza strafare, che lo ha invitato all’unità e si è rivolto ai suoi elettori dicendo “venite da noi, c’è posto per ognuno di voi, insieme batteremo Trump”.

 

 

E questo, quando i giochi per le primarie sembrano ormai fatti, è già diventato il punto centrale del dibattito: Biden riuscirà a allargare la sua base, unire il partito e a farsi seguire (anche) dagli elettori di Sanders? Biden, così compassato ed educato, è davvero l’uomo giusto per battere Trump, presidente noto per il fatto di non aver paura di mentire, imbrogliare, barare? Non sarà forse vero quello diceva, qui sul Foglio, qualche giorno fa Mattia Ferraresi quando ha scritto che Biden (inteso come modello, come visione, come approccio) ha già perso contro Trump nel 2016? 

 

E poi ancora: come sarà la campagna elettorale del 2020, ai tempi del coronavirus? Se l’epidemia sarà ancora in giro nei prossimi mesi e non si potranno tenere bagni di folla, incontri, convention e raduni, come andranno le cose? Sarà tutto delegato a social e tv, da sempre terreno preferito di Trump? O l’epidemia, più di tutto, metterà in luce l’evidenza dell’inadeguatezza del presidente? 

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