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Le primarie americane sono chiuse

Luciana Grosso

Dopo l’ultima tornata elettorale, aritmetica, politica e buon senso dicono: Sanders fermati, il candidato è Biden

Dopo i risultati di stanotte in Arizona, Illinois e Florida (vinti con amplissimo margine da Biden), se fossimo nello  staff di Bernie Sanders gli diremmo che le primarie sono ormai cosa fatta. Lo dicono l’aritmetica, la politica e il buon senso.

 


 

La prima, l’aritmetica (materia ostica ai più, eppure chiarissima, nelle sue sentenze) dice che ci sono sono quasi 400 delegati di differenza tra Joe Biden e Bernie Sanders, un gap difficile da colmare: da qui in poi Biden dovrebbe perdere tutto il perdibile e Sanders vincere tutto il vincibile. In teoria può succedere. Ma la teoria, in genere, ha armi spuntate. Affascinanti, ma spuntate. 

 

 

La politica, dal canto suo, dice che, le chiacchiere (come le primarie) stanno a zero: c’è un’elezione presidenziale da vincere. Un presidente instabile e corrotto (eppure amato, almeno dai suoi) da cacciare. E per farlo ai democratici serve un partito compatto e non uno lacerato, come quello del 2016, lasciato a terra più morto che vivo proprio da Sanders e dai suoi irriducibili. Non solo: ma ai democratici servono gli stati in bilico, e in quelli, su tutti la Florida e il Michigan, ha stravinto Joe Biden.

 

Infine c’è il buon senso che dice di smetterla, il più presto possibile, con questa cosa delle primarie, dei comizi, delle mani strette, della gente in fila per votare. Cose che andavano di moda un secolo fa (o erano due settimane?) ma che ora, con il mondo d’oggi, non c’entrano più niente. La gente deve stare a casa, altro che primarie. E soprattutto, di qui a qualche giorno, la conta interna ai dem, ci sentiamo di garantirlo, diverrà l’ultimo dei problemi degli americani.

Per questo, fossimo nel suo staff (o se solo Bernie Sanders leggesse Il Foglio) gli diremmo “Mr. Sanders, finiamola qui. Davvero”.

 

Proveremmo persino a indorargli la pillola e gli diremmo che forse, quando si tratta di primarie americane, è il destino di chi si sente predestinato, quello di dover lasciar perdere. Magari gli diremmo che, forse, l’America non è pronta a un programma socialista e alla rivoluzione post sessantottina che tanto sarebbe piaciuta ai suoi (molti, ma non abbastanza) sinceri sostenitori. Una specie di ‘non sei tu, sono io’ e ‘tu se troppo per me, non ti merito’ in salsa elettorale.

 

Ma soprattutto, fossimo nel suo staff (o se solo Bernie Sanders leggesse Il Foglio) gli consiglieremmo, di capitalizzare. Di trarre il massimo dal suo peso politico ed elettorale. Di sedersi a un tavolo con Joe Biden e di trattare. E gli consiglieremmo di farlo adesso che c’è ancora spazio di manovra e mercato: Biden, come tutti, ha solo fretta di rintanarsi in casa. E Sanders ha una cosa che ancora Biden non ha: il voto dei giovani. Gli consiglieremmo di vendere (ci si scusi il termine crudo e mercatista): il suo appoggio e il suo elettorato giovane in cambio di alcune concessioni sul programma, di un ministero di peso, di un’apertura sui temi di healthcare e di università che tanto Sanders ha a cuore. Il momento di farlo, Mr. Sanders, è adesso. Biden ha teso una mano: la prenda.

 

 

Fra pochi giorni, il suo capitale di voti che oggi vale oro, potrebbe non valere più nulla, per svariate ragioni: Biden, spinto dal ‘Joementum’ potrebbe conquistarsi i giovani da solo; il coronavirus potrebbe cambiare lo scenario e le priorità; le primarie potrebbero essere sospese; le elezioni (Dio non voglia) rinviate; Trump potrebbe sparigliare, e tirar fuori dal cilindro chissà che sbilenco coniglio. Tutte cose che rischiano di far sembrare le primarie poco più o poco meno che puerili scaramucce e il suo pacchetto di voti, un inutile orpello, invece che un prezioso capitale.

Quindi, se fossimo nel suo staff  (o se solo Bernie Sanders leggesse Il Foglio) gli diremmo che il momento è adesso. Uscire o morire. 

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