Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Ci sono poche novità nel nuovo memorandum con la Libia

Luca Gambardella

La bozza di accordo a cui ha lavorato Di Maio prevede ancora finanziamenti alla Guardia costiera di Tripoli e si appella alla Convenzione di Ginevra (che i libici non hanno mai ratificato)

Da mesi il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è impegnato in prima persona nel condurre le trattative con il governo nazionale di Tripoli per modificare il memorandum concluso con la Libia nel 2017. Il documento, che stabilisce un sistema di coordinamento tra i due paesi per la gestione delle politiche migratorie, si è rinnovato automaticamente lo scorso 2 febbraio, senza che Roma e Tripoli avessero ancora trovato l’intesa sulle modifiche da apportare.

 

Ieri però Avvenire ha pubblicato una bozza del nuovo memorandum, che si compone di otto articoli. Anche se non mancano alcuni miglioramenti formali, come i riferimenti al rispetto dei diritti umani per i migranti detenuti nei campi in Libia, restano diversi punti critici. “Non sono delle vere modifiche, è solo un tentativo di arginare una situazione fuori controllo, di totale violenza e abusi”, ha commentato Gianfranco Schiavone, vicepresidente di Asgi (Associazione studi giuridici per l’immigrazione), parlando al Redattore sociale. Il primo nodo è che l’unico testo normativo che dovrebbe dare valore giuridico agli impegni presi da Tripoli, citato nel memorandum all’articolo 2, è la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati: il punto è che la Libia non ha mai ratificato questo trattato cruciale del diritto umanitario. Non solo: i campi di detenzione non sono mai citati come tali nel documento ma ci si riferisce a essi come “centri di accoglienza”. Come ha notato anche Avvenire, non esiste alcun riferimento alle violenze e alle torture perpetrate dai carcerieri libici ai migranti nei campi detentivi e documentati, invece, dalle organizzazioni internazionali (l'ultima testimonianza in ordine di tempo è quella di Filippo Grandi, Alto commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati).

  

 

Nel memorandum, l’Italia chiede che la Libia assicuri “il pieno rispetto dei diritti umani; il progressivo adeguamento dei centri – anche attraverso specifici programmi di formazione – agli standard internazionali applicabili in tema di diritti umani”. Insomma, il nostro governo si aspetta che i campi non siano più gestiti dalle milizie ma da funzionari ad hoc, con tanto di corsi di aggiornamento. Ancora, l’Italia chiede che Tripoli “favorisca l’istituzione di un sistema di strutture poste sotto il controllo del ministero della Giustizia libica basto sullo stato di diritto, su procedure giudiziarie chiare e sui princìpi del giusto processo”. Una realtà difficile da immaginare, se si pensa che l’intera rete del potere a Tripoli, così come avviene nello schieramento avverso della Cirenaica, è composta da milizie e tribù a cui è appaltata anche la gestione di gran parte di questi campi di detenzione. Lo stesso vale per la Guardia costiera: nel nuovo accordo l’Italia si impegna a formare e a finanziare i libici per pattugliare i confini marittimi. Si tratta di uno dei nodi più controversi del memorandum: oltre a essere arruolati in milizie, i marinai delle motovedette libiche hanno dimostrato più volte di non essere in grado di compiere operazioni di recupero in mare senza mettere a repentaglio la vita dei naufraghi. Inoltre, la Libia è considerata un porto non sicuro dalle Nazioni Unite e i respingimenti dei migranti nel paese violano il diritto internazionale. Legittimare e finanziare la Guardia costiera libica significa legittimare e finanziare una pratica illegale. 

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.