L'ex capo del servizio segreto israeliano, Danny Yatom (fotoelaborazione Il Foglio)

L'appello all'Europa dall'uomo del Mossad

Annalisa Chirico

Il Vecchio continente dovrebbe occuparsi del suo destino, ma non ha una politica estera condivisa né un esercito comune. I rischi dell’isolazionismo e la mina medio oriente. Parla il generale Danny Yatom, ex capo del servizio segreto israeliano

L’accordo di Sochi tra Erdogan e Putin ridisegna la mappa della Siria nordorientale. Con l’operazione Fonte di pace, voluta dal “Sultano”, svanisce il sogno curdo di costruire un governo autonomo nel Rojava. “Sul piano geopolitico i vincitori sono Russia e Turchia”, dichiara al Foglio il generale Danny Yatom, ex capo del Mossad, di passaggio in Italia per partecipare alla Scuola di Fino a prova contraria. “L’occidente ha giocato di rimessa: prima l’errore americano di ritirare le truppe dalla Siria, poi l’incapacità europea di far sentire una voce forte e unitaria. Il mondo libero deve mettere insieme le forze per stabilizzare il medio oriente senza abbandonarlo all’influenza russa. Il problema non riguarda il ritiro di mille soldati ma, più in generale, la ridefinizione del ruolo americano in senso isolazionista”. Yatom, settantaquattro anni, laurea in Matematica e Fisica alla Hebrew University di Gerusalemme, già consigliere per la sicurezza dell’ex primo ministro Ehud Barak, è stato il direttore del Mossad la cui identità, per la prima volta nella storia dei servizi segreti israeliani, fu resa pubblica.

 

Già prima che Donald Trump s’insediasse alla Casa Bianca, gli facciamo notare, Barack Obama aveva avviato una politica di disengagement puntando sul quadrante asiatico. “Il processo si è accentuato con l’attuale amministrazione – prosegue Yatom – Se gli Stati Uniti rinunciano al ruolo di guida negli equilibri internazionali, se smettono di essere il gendarme del mondo, se si ritirano da Iraq, Afghanistan e Siria, le conseguenze per la sicurezza globale saranno disastrose. Il terrorismo è una minaccia reale, non si può abbassare la guardia. A Kabul si registrano attentati di matrice talebana contro obiettivi occidentali, che siano targati Onu, Nato o Stati Uniti. All’indomani della Guerra fredda, l’America ha assunto il ruolo di peacemaker e poliziotto globale: se tale assetto viene meno, si rischia il caos. Una realtà complessa come quella attuale non può essere governata dall’anarchia. Per garantire ordine e stabilità, serve un paese leader, esattamente come un governo ha bisogno di un primo ministro e un’azienda di un capo. Ritengo perciò che, con il passare del tempo, anche il presidente Trump si renderà conto che l’impegno all’estero può essere rimodulato ma non azzerato: se commettesse l’errore di pensare il contrario, le truppe americane sarebbero probabilmente costrette a tornare nella regione mediorientale in un contesto persino deteriorato”.

 

L’embargo delle armi contro la Turchia, membro Nato, “è la prova di un’alleanza in crisi. Si tratta, per giunta, di uno strumento inefficace perché la Turchia che ha agito unilateralmente può contare su arsenali strapieni”

Per Israele è una partita assai rilevante. “Se gli Usa, di cui siamo alleati, apparissero, agli occhi del mondo, più deboli, meno determinati a esercitare un ruolo o più propensi a isolarsi all’interno dei confini nazionali, i nostri nemici ne uscirebbero più forti. Diversi anni fa, nel corso di un negoziato con palestinesi, libanesi e giordani, il capo di stato maggiore delle forze armate siriane Hikmat Shihabi, militare di lungo corso, mi confidò che a quel tavolo la voce israeliana era particolarmente ascoltata in virtù dell’alleanza con gli americani”.

 

Erdogan ha ottenuto la “safe zone”, centoventi chilometri di estensione e trentadue di profondità. Le unità curde di protezione popolare, le milizie Ypg, devono smobilitare. “I curdi sono letteralmente terrorizzati dagli effetti imprevisti del nuovo accordo: temono, per esempio, che l’Arabia saudita possa decidere di intervenire approfittando del ritiro americano. Il principe Mohammad bin Salman ha manifestato, di recente, la volontà di avviare un dialogo con l’Iran per disinnescare le tensioni regionali”.

 

L’embargo delle armi contro la Turchia, membro Nato, che cosa ci dice dell’alleanza atlantica? “C’è un imbarazzo generale. Un embargo tra paesi formalmente alleati è la prova di un’alleanza in crisi. Si tratta, per giunta, di uno strumento inefficace perché la Turchia che ha agito unilateralmente può contare su arsenali strapieni. Il mondo civilizzato dovrebbe, anzi avrebbe dovuto, impedire qualunque atto di ostilità nei confronti dei civili e della popolazione innocente”.

 Erdogan ha ottenuto sei miliardi di euro dall’Unione europea per blindare la rotta balcanica. Dopo la minaccia turca di “aprire i cancelli” a 3,6 milioni di rifugiati siriani per inondare di profughi il Vecchio continente, l’Europa ha stanziato un ulteriore miliardo. “E’ un ricatto a tutti gli effetti – replica Yatom – Per accogliere nel proprio territorio i rifugiati siriani, la Turchia ha già ottenuto dei fondi, il suo comportamento è inaccettabile. Nato e Ue non devono chinare il capo ma esercitare pressione affinché Erdogan rispetti i patti”.

 

Lei è favorevole all’ingresso di Ankara nell’Ue? “Sì, la Turchia dovrebbe essere, a un tempo, ponte e barriera tra l’occidente e i paesi musulmani confinanti a est e a sud. La Turchia è un attore rilevante sul piano militare, può contare su velivoli, carri armati ed equipaggiamenti moderni. Mi sono occupato per anni di lotta al terrorismo, e quello che ho imparato è che sai come entri in guerra ma non come ne esci”.

 

I curdi hanno pagato un enorme tributo di sangue nella guerra contro Isis. “Hanno difeso la libertà loro e dell’occidente potendo contare essenzialmente sulla fanteria semplice: la sproporzione di capacità rispetto, per esempio, alle forze armate turche è flagrante. In molti non si rendono conto che la minaccia terroristica è attualissima, anche dopo la scomparsa di Abu bakr al-Baghdadi. Esistono oltre cento organizzazioni terroristiche, e Isis, dopo aver agito come un’organizzazione militare capace di creare un’entità pseudostatuale, è tornata a far esplodere le autobombe: l’obiettivo finale è fondare uno stato con un esercito vero e proprio. Nell’area siriana sotto controllo curdo si trovano venti prigioni con circa 17 mila terroristi detenuti che, in caso di disordini, potrebbero tornare a piede libero. Questa non è propaganda, i curdi lo hanno detto a chiare lettere: se dobbiamo combattere per la nostra sopravvivenza non saremo più in grado di garantire la sicurezza delle prigioni. I terroristi dietro le sbarre potrebbero ricostituire un esercito o tornare in Europa da foreign fighter; a costoro si aggiungono poi 30 mila persone che abitano nella zona e sono legate da vincoli di parentela”.

 

Ogni paese sembra guidato da un solo criterio, l’interesse individuale, senza considerare che un medio oriente in balia del caos è destinato a incrementare la pressione migratoria con una ricaduta di conseguenze negative per l’Europa

E’ trascorso più di un secolo dal maggio 1916 quando l’ufficiale britannico Mark Sykes e il diplomatico francese Georges Picot firmarono un accordo per spartirsi il regno ottomano. “L’origine della instabilità attuale risale a quel periodo. Francia e Gran Bretagna, all’epoca, esprimevano un potere imperiale che tracciava i confini con il righello, tenendo conto principalmente dei propri interessi e non dell’esistenza di identità etniche, di clan e tribù locali. Le guerre del passato erano guerre tra paesi confinanti. Oggi invece il medio oriente è il teatro di un conflitto, di portata globale, tra mondo cristiano, islamico ed ebraico. Lo scopo strategico dell’islam radicale, delle varie organizzazioni terroristiche musulmane, di matrice sia sunnita che sciita, è uno soltanto: ricostruire il Califfato. Non a caso, al Baghdadi, capo di Isis, si era autoassegnato l’appellativo di ‘califfo’, primo successore di Maometto”.

 

Nel deserto del Niger l’Italia è tra i paesi europei che partecipano alle esercitazioni congiunte con l’aviazione israeliana. Secondo lei, l’Europa può giocare un ruolo maggiore come garante della sicurezza nel Mediterraneo? “L’Europa può farlo, anzi è chiamata a farlo, innanzitutto per ragioni geografiche. La Nato, fondata settant’anni fa, è l’alleanza di maggiore successo mai realizzata nella storia del genere umano, perciò essa deve rappresentare la leva di qualunque intervento militare nella regione”.

 

L’Europa non ha una politica estera condivisa, né un esercito comune: i paesi si muovono in ordine sparso. “Tra i membri della Nato e dell’Ue coesistono diverse concezioni su quando e come intervenire ma l’Europa dovrebbe occuparsi del suo destino. Quando si parla di terrorismo si parla anche di immigrazione. Nel mondo contemporaneo ogni paese sembra guidato da un solo criterio, l’interesse individuale, senza considerare, per esempio, che un medio oriente in balia del caos è destinato a incrementare la pressione migratoria con una cascata di conseguenze negative per il continente europeo. I foreign fighter, provenienti dalla Siria, si spostano anche verso il nord Africa. In Libia, dove è in corso un processo di disgregazione dell’entità statuale, si sono già insediate alcune formazioni terroristiche. Non è l’unico caso: le primavere arabe si sono trasformate in rigidi inverni che rischiano di rivelarsi letali per la sopravvivenza della democrazia. Gli Stati uniti, insieme alla Nato, dovrebbero intervenire in nord Africa prima che sia troppo tardi”.

 

Veniamo alla politica nazionale. In Italia, il leader della Lega Matteo Salvini ha impresso una svolta pro Europa, ripresa dalla stampa estera: il partito s’impegnerà per modificare le regole europee ma la permanenza nell’Eurozona è fuori discussione. Il populismo è un pericolo in sé? “Non essendo un cittadino europeo, non mi permetto di dare istruzioni. E tuttavia voglio dire che sul punto Salvini ha ragione: l’Italia deve provare a cambiare le cose da dentro, senza mettere in discussione l’appartenenza europea. Questa posizione non è populista”.

 

In Israele, per la prima volta dopo dieci anni, un leader diverso da Benjamin Netanyahu sta tentando di raccogliere i 61 voti sui 120 della Knesset necessari al governo. Se Benny Gantz fallisse, i cittadini israeliani tornerebbero a votare per la terza volta in meno di un anno. “Israele è una democrazia funzionante da settantuno anni, e noi difendiamo le sue regole. Il panorama politico è in evoluzione: il procuratore generale deve decidere se mandare a processo Netanyahu per capi di imputazione che includono corruzione, frode e abuso d’ufficio. In caso affermativo, sarebbe la fine della sua carriera politica. In ogni caso, quale che sia l’esito, ritengo che, dopo la permanenza del leader del Likud al governo per tredici anni, Israele possa inaugurare una stagione nuova puntando su figure diverse”.

 

Veniamo alla sua vita da spia: come sono i rapporti tra Mossad e 007 stranieri? “Coltiviamo buone relazioni con gli apparati di intelligence di tutti i paesi democratici. E, in alcuni casi, anche di quelli quasi democratici, come il Kgb russo. Con la Cia e con gli omologhi europei collaboriamo a un livello impensabile fino a qualche tempo fa. Con loro, oltre allo scambio di informazioni, c’è talvolta la gestione condivisa di operazioni congiunte. In questo quadro, ogni struttura è autonoma e indipendente, schierata in difesa dell’interesse nazionale, senza rapporti di subordinazione. Come ho già detto, per combattere il terrorismo, il mondo deve agire come se fosse un’unica organizzazione mettendo insieme i propri apparati di sicurezza e intelligence”.

 

Tra il 2003 e il 2006, lei è stato membro della Knesset nelle file del Partito laburista: ha nostalgia di quell’esperienza? “Nient’affatto, alla fine decisi di dimettermi. Quel mestiere non faceva per me: eccesso di carta, e troppo tempo sprecato in discussioni interminabili e inconcludenti”.

Un agente del Mossad smette di essere una spia? “Israele è una piccola nazione circondata da numerosi elementi ostili: le minacce ai nostri interessi vitali sono quotidiane. Il senso comune tra i cittadini è che il fardello della sicurezza debba essere condiviso dalla collettività intera. Molti di coloro che hanno fatto parte per anni delle forze armate, del Mossad o della polizia continuano a contribuire su base volontaria per rafforzare la nostra sicurezza. Ci siamo conquistati la nostra indipendenza, adesso vogliamo difenderla”.

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