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Per un'Europa senza tutori

Alessandro Maran

Accelerare, visto il disimpegno americano, il decollo della difesa comune. Diventare motore della globalizzazione. Occasioni per riprendere in mano il proprio destino (copyright Merkel)

Il mondo è sempre stato un posto pericoloso e la condizione di vulnerabilità dell’Italia (verso l’esterno, a causa della continua instabilità dei due versanti obbligati della politica estera italiana, i Balcani e la sponda Sud del Mediterraneo, e verso l’interno, a causa delle nostre debolezze politiche e istituzionali) è una costante storica. Infatti, l’ancoraggio a sistemi di alleanza con attori più forti, in grado di colmare il deficit di sicurezza internazionale e interno del paese, è stata la risposta a questa condizione. Oggi però l’America non ha più la scala, la forza e neppure il consenso interno per agire come Atlante che regge sulle spalle il mondo, fungendo contemporaneamente da locomotiva economica e da garante della sicurezza militare. Inoltre, una crisi di coesione ancora più preoccupante continua a gravare sull’Europa, l’architrave stessa dell’opzione multilaterale dell’Italia.

 

L’America, si sa, ha avuto un ruolo centrale nella creazione dell’ordine mondiale liberale in cui viviamo dal 1945 e al quale l’Italia ha preso parte con le altre nazioni europee. Ma quell’ordine, che ha garantito un periodo di pace, prosperità e libertà senza precedenti, non è stato un fenomeno naturale, il frutto dell’inevitabile evoluzione del genere umano. Gli ultimi settant’anni di commercio relativamente libero, di crescente rispetto dei diritti individuali, e di cooperazione relativamente pacifica tra le nazioni (gli elementi fondamentali dell’ordine liberale) sono stati, come sostiene Bob Kagan, una “historical aberration”, una deviazione, un’anomalia che ha rappresentato un “atto di sfida alla storia e persino alla natura umana”.


La vulnerabilità dell’Italia è una costante storica. L’ancoraggio a sistemi di alleanza con attori più forti è stata la risposta a questa condizione 


Fino al 1945 la storia dell’umanità è stata una lunga storia di guerra, di sopraffazione e miseria. I momenti di pace sono stati fugaci, la democrazia così rara da sembrare quasi casuale e il benessere il lusso dei pochi potenti. Va da sé che la nostra epoca non si è fatta mancare orrori, genocidi e vessazioni, ma dal punto di vista storico, è una sorta di paradiso. Quell’ordine, ovviamente, gli americani non lo hanno costruito da soli, hanno collaborato con gli altri. Ma è stata l’abilità degli Stati Uniti, dopo la Seconda guerra mondiale, a mettere fine ai conflitti nelle due zone più critiche del mondo: l’Europa e l’Asia orientale. Erano gli unici in grado di poterlo fare. La loro posizione geografica, la loro ricchezza, il fatto di non doversi preoccupare degli attacchi dei vicini gli hanno permesso di dispiegare in modo permanente le loro truppe all’estero. Ed è stato questo sforzo a creare le condizioni che hanno permesso si realizzasse l’ordine “anomalo” nel quale siamo vissuti.

Non sarebbe ora di affrontare il negoziato transatlantico su commercio e investimenti con piena coscienza della posta in gioco?

 

 

Sfortunatamente, gli Stati Uniti si stanno allontanando sempre di più da quello che finora era stato l’obiettivo tradizionale della loro politica estera. Colpa di Trump? Sì, certo. La sua politica estera, ha scritto il Washington Post, è “il trionfo della pancia sul cervello” e il tradimento dei curdi è una macchia nella coscienza dell’America e forse l’epitaffio della sua presidenza. Ma questo problema non ha a che fare solo con Trump. E’ da un pezzo che gli americani vogliono tornare alla “normalità” e che, una dopo l’altra, le amministrazioni Usa fanno a gara per rassicurare gli americani che baderanno alla politica interna, occupandosi di politica estera il meno possibile. Specie dopo i fallimenti in Afghanistan e in Iraq. Che gli Stati Uniti non siano disposti a “mandare una nuova generazione di americani oltremare per combattere e morire per un altro decennio sul suolo straniero”, Obama, tanto per capirci, lo ha ripetuto fino alla noia. Infatti, nella famosa intervista di Jeffrey Goldberg sull’Atlantic, il presidente Barack Obama aveva sostenuto che quella che molti opinionisti considerano una delle pagine peggiori della sua presidenza (la decisione di non bombardare la Siria nell’estate del 2013 dopo che Bashar al-Assad aveva violato la “red line” sull’uso delle armi chimiche) sia stata invece uno dei suoi momenti migliori: la presa di distanza più risoluta da quello che Obama ha definito il “Washington playbook”. “C’è un manuale a Washington che si suppone che i presidenti debbano seguire – aveva spiegato Obama – e il manuale prescrive le risposte alle diverse situazioni, e queste risposte tendono a essere risposte militari. Laddove l’America è direttamente minacciata, il manuale funziona. Ma il manuale può anche rivelarsi una trappola e condurre a pessime decisioni”. Per Obama, racconta Goldberg, quel giorno è “il giorno della liberazione, il giorno in cui ha sconfitto non solo l’establishment della politica estera e il loro manuale fatto di missili Cruise, ma anche le richieste degli alleati (deludenti e costosi da mantenere) dell’America nel medio oriente”.


Da un pezzo le amministrazioni Usa fanno a gara per rassicurare gli americani che si occuperanno di politica estera il meno possibile 


Naturalmente, quell’intervista ha suscitato una valanga di critiche che hanno preso di mira quella combinazione di avversione al rischio e di parole ispirate che molti considerano una caratteristica (negativa) della presidenza Obama. Resta però il fatto che (anche sorvolando sulle uscite di Trump o sulle posizioni di Bernie Sanders o di Elisabeth Warren) ormai c’è un ampio consenso attorno all’idea che la “Grand Strategy” di impegno globale che gli Stati Uniti hanno perseguito dal crollo della potenza sovietica non sia “necessaria” e sia anzi “controproducente, costosa e inefficiente”. Lo ha spiegato in un libro Barry Posen, professore di Scienze politiche al Mit. Posen auspica un diverso approccio; e il titolo del libro, “Restraint”, esprime in modo stringato la sua esortazione. L’America, egli sostiene, deve smetterla di cercare di fare sempre di più, deve, invece, fare meno (anche perché “gli sforzi per difendere tutto finiscono per non difendere nulla”) e raccomanda perciò di investire in quello che gli Stati Uniti sanno fare meglio, e cioè nel controllo dei beni comuni globali attraverso la forza aerea e marittima (e il dominio dello spazio), riducendo le forze militari sul terreno; e immagina una riduzione nella spesa per la difesa fino al 2.5 per cento del pil, la maggior parte della quale ottenuta riducendo l’esercito e l’ampia presenza americana oltremare.

 

Dunque, è improbabile che le cose possano cambiare se, dopo Trump, alla Casa Bianca dovesse arrivare, come ormai ci auguriamo tutti, un presidente democratico: basta guardare i dibattiti televisivi fra i candidati democratici alle presidenziali del 2020. Per almeno quattro ragioni.

 

Primo. Gli Stati Uniti sono diventati, per dirla con Michael Mandelbaum, una “Frugal Superpower”. Anche il governo degli Stati Uniti è alle prese con l’invecchiamento della popolazione, un debito enorme, sanità, pensioni e diritti crescenti intestati a baby boomers incanutiti. Entro vent’anni il servizio al debito pubblico, tanto per fare un esempio, supererà l’intero budget della difesa. Il risultato è una leadership con mezzi molto limitati.

 

Secondo. “Il futuro della politica sarà deciso in Asia, non in Afghanistan o in Iraq”, aveva detto Hillary Clinton annunciando la strategia asiatica americana sancita dal “pivot to Asia”, e in Asia è in atto una corsa agli armamenti. Laggiù la situazione oggi è più instabile e molto più complessa degli anni successivi alla Seconda guerra mondiale. I cinesi stanno costruendo basi per i sommergibili nell’isola di Hainan e sviluppando missili antinave. Gli americani hanno rifornito Taiwan di missili per la difesa aerea e sistemi avanzati di comunicazione militare. Giapponesi e sudcoreani sono impegnati nell’ammodernamento delle loro flotte – in particolare dei sommergibili. E l’India sta costruendo una flotta d’alto mare considerevole. Sono tutte misure per cercare di aggiustare a proprio vantaggio i rapporti di forza ed è questo il mondo che attende gli Usa quando se ne saranno andati dall’Iraq e dall’Afghanistan.

 

Terzo. L’America non è più un’isola, protetta dall’Atlantico e dal Pacifico. A ricondurla più vicino al resto del mondo non è solo la tecnologia, ma la pressione della demografia messicana e centroamericana. E, per gli Usa, sistemare il Messico è più importante che riordinare l’Afghanistan. Solo l’offensiva contro i signori della droga è costata migliaia di morti.

 

Quarto. L’estrazione di idrocarburi non convenzionali (shale gas e shale oil) sta portando a un cambiamento decisivo nei mercati energetici globali e può darsi che una politica centrata sulla riduzione della dipendenza nazionale dal petrolio estero riesca a fare per l’America e per il mondo odierni quel che fece il contenimento dell’Unione Sovietica nel XX secolo.

 

Tutto questo, ovviamente, ci riguarda da vicino. Perché, se così stanno le cose, quando il mondo lamenta “Qualcuno deve fare qualcosa!”, la reazione più immediata e disinteressata non verrà più da Washington e anche altre politiche di interesse internazionale (come appunto l’accesso globale al petrolio), possono soffrirne. Ma se così stanno le cose, non sarebbe ora che gli europei smettessero di eludere il problema delle politiche di difesa? Non sarebbe ora di affrontare il negoziato transatlantico su commercio e investimenti con piena coscienza della posta in gioco? E quel che dovrebbe farsi strada è proprio la consapevolezza che in assenza di una nazione democratica sufficientemente forte da essere un punto di riferimento e contrastare le potenze emergenti del capitalismo autoritario, allora un nuovo centro capace di esercitare una funzione ordinatrice può emergere soltanto come alleanza globale tra democrazie, cementata da un mercato comune. Altro che zucchine e lenticchie! E ancora: se il mondo sta andando verso la formazione di blocchi regionali, se strutture continentali come l’America, la Cina e forse l’India e il Brasile hanno già raggiunto la massa critica, vogliamo accelerare la transizione dell’Europa al rango di unità regionale, sì o no? Come si fa, ad esempio, a prendere sul serio la posizione europea sulla Siria? In apparenza l’Europa ritiene che una presenza militare occidentale sul terreno nel nord della Siria sia necessaria per la propria sicurezza. Ma non è disponibile a schierare (e non sarebbe neppure in grado di farlo) le proprie forze armate. Eppure la Turchia e la Siria sono vicine all’Europa, non agli Stati Uniti, e se le violenze dovessero intensificarsi di nuovo, sarà l’Europa a subirne le conseguenze e non gli Stati Uniti. Insomma, per una volta, non si può rimproverare Trump quando sostiene che gli europei devono assumersi maggiori responsabilità. L’America, certo, assisterà l’Europa attraverso la Nato in caso di attacco al nostro territorio. Ma dalla fine della Guerra fredda, gli Stati Uniti hanno segnalato più e più volte che tocca agli europei far fronte ai problemi relativi alla sicurezza nello spazio europeo. Gli Stati Uniti non lo faranno al nostro posto. Finora, si sa, abbiamo fatto orecchie da mercante, convinti che in fondo non è così urgente rafforzare le nostre capacità difensive perché tanto, qualunque cosa succeda, la cavalleria degli Stati Uniti arriverà a toglierci dai guai.

Dobbiamo accompagnare la necessaria forza di intimidazione con la capacità di ispirare gli altri. Senza apertura non c’è crescita

 

Ma ora che gli americani appaiono sempre di meno come tutori affidabili dell’ordine internazionale, saremo costretti, con le buone o con le cattive, a badare sempre di più a noi stessi. Per l’Europa è l’occasione per accelerare il decollo della difesa comune. Ma dobbiamo accompagnare la necessaria forza di intimidazione con la capacità di ispirare gli altri. In una fase in cui il sistema internazionale si avvia a diventare un sistema globale multipolare e il divario di potenza tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo sarà sempre più contenuto, l’Europa, come ha suggerito Claudio Cerasa, deve diventare il motore dell’apertura, della globalizzazione (e della sua civilizzazione) “dall’alto della sua unica e straordinaria way of life: rispetto dell’economia aperta, tutela dello stato di diritto, rispetto per la democrazia”. Proprio perché abbiamo imparato che senza multilateralismo, senza apertura, non c’è crescita e che come sosteneva Frédéric Bastiat, dove passano le merci, non passano gli eserciti. Per dirla con Angela Merkel, “i tempi in cui potevamo fidarci completamente degli altri sono passati da un pezzo. Noi europei dobbiamo veramente prendere il nostro destino nelle nostre mani”.

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