foto di TheAndrasBarta via Pixabay

Per un'Europa globale

Pier Carlo Padoan

I dati allarmanti sul commercio del Fmi dimostrano che senza multilateralismo economico non c’è crescita possibile

Si svolgono questa settimana gli incontri annuali di Fondo monetario internazionale e Banca mondiale. Alla testa del Fmi un nuovo managing director in sostituzione di Christine Lagarde, la bulgara Kristalina Georgieva, personaggio di primissimo piano e con un curriculum di tutto rispetto essendo stata tra l’altro commissario europeo (con delega al Bilancio dell’Unione) e numero due della Banca mondiale. L’aspetta un compito arduo e pieno di insidie: ridare fiato o meglio rafforzare il ruolo della sua istituzione in un contesto globale assai complesso, per almeno tre ragioni. L’economia globale mostra di nuovo segni di debolezza e rischi di una nuova recessione. La governance del sistema globale sembra allontanarsi da un quadro multilaterale e avviarsi verso un bilateralismo conflittuale, come dimostrano le tensioni in campo commerciale. Gli strumenti di politica economica rischiano di essere sempre più spuntati a cominciare dai limiti che sta incontrando la politica monetaria anche nelle sue versioni più eterodosse. 

 

Questi aspetti si intrecciano. La crescita si indebolisce soprattutto perché il commercio mondiale rallenta sotto i colpi del protezionismo, colpi diretti (a suon di tariffe) e indiretti (l’effetto sulle aspettative e l’incertezza). Le politiche monetarie avrebbero bisogno del sostegno di politiche fiscali e strutturali. Ma le prime sono frenate, in molti paesi, dall’assenza di “spazio di bilancio” o dalla resistenza a fare espansione per ragioni di principio. Le seconde sono meno attraenti per i policy maker perché danno benefici visibili solo nel medio periodo e non sono remunerative in termini di consenso. Ultimo ma non ultimo viene messo (spesso con ragione) in discussione il paradigma economico mainstream su cui il Fmi (e altre organizzazioni internazionali) ha basato strategie e raccomandazioni ai governi. Per queste (e altre) ragioni, che hanno accompagnato il ritorno di nazionalismo e populismo, siamo di fronte al rischio, non marginale, di una delegittimazione profonda del sistema multilaterale e l’affermazione, nei fatti prima che nelle dichiarazioni, di una preferenza per relazioni di tipo bilaterale. Il campo commerciale ne è l’esempio più evidente, ma anche in campo monetario e finanziario ci sono segnali analoghi. Il presidente Trump ha più volte diretto i suoi strali contro l’Unione europea mentre nei fatti ha usato il ruolo internazionale del dollaro per perseguire obiettivi di sicurezza (come nel caso dei rapporti con l’Iran). La Cina (e altri paesi emergenti) ha portato avanti con decisione la formazione di banche di sviluppo alternative, di fatto, a quelle esistenti (come la Banca asiatica per gli investimenti in infrastrutture). L’Europa invece continua a rimanere indietro. A occuparsi dei propri problemi interni tralasciando di costruire una strategia globale che l’euro le consentirebbe. A vent’anni dalla nascita della moneta unica nel Fmi gli europei continuano a parlare con voci separate, invece di adottare una rappresentanza unica nel board. Una rappresentanza unica sarebbe un contrappeso fondamentale al potere degli Stati Uniti, oltre che permettere una migliore distribuzione del potere di voto nel board. Molti paesi membri della zona euro continuano a opporsi alla promozione dell’euro come moneta globale. Alcuni paesi (come il nostro) ritengono più utile stringere rapporti bilaterali con la Cina, nella convinzione che andare da soli serva meglio gli interessi del paese. Ci sono infine, di fronte a Fmi e Banca mondiale, le sfide “epocali” come la transizione verso una finanza “verde” (cioè la costruzione e la gestione di strumenti di investimento in tecnologie e progetti sostenibili e lo sfruttamento, il più possibile inclusivo delle nuove tecnologie digitali) che implicano complessi problemi di tassazione del digitale e costruzione di piattaforme concorrenziali per evitare tra l’altro che le “Big Tech”,fra cui è difficile trovare imprese europee, continuino ad accrescere il loro potere.

Di più su questi argomenti: