Manifestanti a Hong Kong con una foto di LeBron James (foto LaPresse)

L'importanza di trovare gli esempi giusti per spiegare Hong Kong

Giulia Pompili

LeBron James e la Catalogna sono quelli sbagliati

Roma. LeBron James, la leggenda, il mito, quello che a differenza di altri parla di problemi razziali, e ce l’ha con la polizia americana, con l’odio e con il razzismo, ed è uno dei più influenti personaggi sportivi in America, pure lui, di fronte alla Cina, capitola. O forse capitola perché non ha capito niente, o forse perché il disastro di Hong Kong non è abbastanza mainstream per i suoi tifosi. Lunedì LeBron ha detto ai giornalisti che Daryl Morey, il general manager degli Houston Rockets, cioè l’uomo che ha scatenato la crisi tra il governo di Pechino e l’intera Nba americana, è stato stupido. E che non avrebbe mai dovuto fare quel tweet in favore dei manifestanti di Hong Kong. “Penso che non fosse davvero consapevole di quello che stava facendo. Tante persone si sono sentite ferite, non solo economicamente, ma fisicamente, spiritualmente”.

 

  

Poi ha aggiunto che Daryl Morey con quel cinguettio ha perfino messo in pericolo i colleghi americani che lavorano in Cina. Ma come, non eravamo per la libertà d’espressione? hanno scritto diversi commentatori online, e vari politici, soprattutto repubblicani, che ricordavano alcune dichiarazioni di LeBron in evidente contraddizione: “Io sarò in piedi durante l’inno nazionale, perché è quello che sono. Ma ciò non significa che non rispetti e non sia d’accordo con quello che sta facendo Colin Kaepernick”, aveva detto durante la polemica sull’ex giocatore di football che per protesta contro la presidenza di Donald Trump aveva iniziato a inginocchiarsi durante l’inno nazionale prima delle partite. “E’ giusto che possa esprimere la sua opinione, e difendere la sua opinione, e lo sta facendo nel modo più pacifico possibile”. E insomma va bene tutto, ma non se il tuo sponsor, la Nike, ha fortissimi interessi in Cina che rischiano di saltare. Oppure è davvero una questione di trattare le questioni seriamente, questioni di cui si conoscono le sfumature.

 

Nelle ultime settimane la propaganda di Pechino contro “i rivoltosi” di Hong Kong si è fatta più dura. Non solo contro i ragazzi che manifestano – basta aprire la versione inglese di un qualunque portale di informazioni cinese per notare le differenze di narrazione – ma anche contro chi esprime solidarietà all’estero. “C’è stato lo scandalo Blizzard, una compagnia americana di videogiochi che va forte sul mercato cinese”, ha scritto nella newsletter Silicio Eugenio Cau, “che ha bandito uno dei suoi gamer professionisti e gli ha tolto un premio in denaro che aveva appena vinto perché il ragazzo aveva sostenuto in pubblico la causa della democrazia a Hong Kong. E poi c’è Apple. L’azienda ha cancellato dall’App Store una app usata dai manifestanti di Hong Kong per tracciare dove si trovano gli assembramenti di polizia durante gli scontri raccogliendo dati da Telegram e da altre fonti aperte”.

 

Per superare la distanza che c’è tra la potenza mediatica cinese e quella di chi manifesta per non vedere erosa la poca autonomia che ancora è rimasta a Hong Kong, ultimamente si prova a ricorrere a esempi semplificatori. E su questo ha ragione LeBron: semplificare troppo vuol dire confondere, mettere tutto sullo stesso piano, credere che una manifestazione sia uguale all’altra. Quando sono iniziati gli scontri a Hong Kong, alcuni funzionari cinesi in Europa hanno evocato i gilet gialli: perché vi siete scagliati contro di loro, e ora sostenete i nostri? Ma in Francia non c’era una proposta di legge sull’estradizione che avrebbe potuto far arrivare il sistema legale cinese – gestito dal Partito unico comunista – fino all’ex colonia inglese. Oggi sempre più persone, anche in Italia, cercano il paragone tra la situazione in Catalogna e Hong Kong. Vuol dire non capire che cosa stanno cercando di fermare, a volte fin troppo violentemente, i ragazzi di Hong Kong: la lunga mano illiberale di Pechino sulla regione semiautonoma. La Catalogna vuole smarcarsi da un governo democratico che la sostiene economicamente, e che non esercita alcuna pressione culturale. Gli esempi sono importanti, vale pure per LeBron James.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.