Borsi Johnson (foto LaPresse)

Cosa può fare ora Boris Johnson?

Paola Peduzzi

A Londra il premier britannico scopre che il decisionismo non basta, ferma il Parlamento, rivaluta idee del governo precedente e non spinge più per il “no deal”

Milano. Il governo inglese di Boris Johnson ha infine deciso di sospendere i lavori del Parlamento fino al 15 ottobre: è l’unico modo per il premier e il suo team di avere il più ampio margine di manovra sulla Brexit. Da quando la sospensione è stata annunciata all’inizio del mese, il Parlamento ha messo a punto la sua tattica di ribellione come mai era riuscito prima e lo Speaker, l’appassionato e indispensabile John Bercow, ha annunciato che lascerà l’incarico a fine ottobre.

 

In questo momento c’è una legge che impedisce al governo di fare un “no deal” (o c’è un nuovo accordo o si chiede una nuova proroga) e non c’è la maggioranza necessaria per indire nuove elezioni prima della scadenza dell’ultimo rinvio della Brexit, il 31 ottobre. In altre parole: Johnson deve negoziare un nuovo accordo con l’Unione europea o chiedere l’estensione dell’articolo 50 oltre la fine di ottobre. Non è pronto per nessuno delle due, ma dovendo scegliere preferisce la prima opzione, ed è per questo che ieri, in visita a Dublino, Johnson ha detto che un “no deal” sarebbe “un fallimento” – fino a qualche giorno fa il “no deal” era l’esito inevitabile e a tratti persino ottimale per un governo che si comportava come se avesse pieni poteri e, nonostante le richieste e le pressioni, non aveva fatto alcuna nuova proposta all’Europa sulla Brexit.

 

Come molti prima di lui, Johnson ha pensato che con un po’ di decisionismo e toni roboanti fosse possibile siglare il divorzio con l’Ue in breve tempo, non ha nemmeno pensato di elaborare un piano B, e il gruppo di lavoro sulla Brexit si è spopolato e ha lasciato spazio agli incontri quotidiani di gestione del “no deal”. Ora invece il premier potrebbe rimpiangere di non aver dato retta a Theresa May che, sconfitta in Parlamento, aveva tentato di intestarsi il fallimento sulla Brexit dando al Regno l’unico accordo finora trovato – il migliore possibile? – e consegnandosi ai successori come capro espiatorio. 

 

Nelle ultime settimane del governo May ci chiedevamo tutti: perché la premier insiste? Forse la risposta è visibile oggi: non potendo più salvare se stessa, la May provava a salvare il suo partito ed evitare il “no deal”. Era convinta – come tanti altri – che non ci fosse alternativa al suo bistrattato accordo: non è un caso che in questi giorni si parli della possibilità di rimettere ai voti del Parlamento per la quarta volta proprio quel testo già ampiamente bocciato (due volte su tre anche dallo stesso Johnson). E non è un caso che abbia ripreso quota anche una proposta che la May era stata costretta a scartare perché la maggioranza in Parlamento dipendeva dal partito nordirlandese Dup: una frontiera non tra Irlanda e Irlanda del nord, ma nel canale che divide l’isola irlandese da quella inglese.

 

Oggi il governo Johnson non dipende più da nessuna maggioranza – non ce l’ha e basta – e per evitare il backstop sul confine tra Irlanda e Irlanda del nord, che suona agli occhi dei brexiteers come una resa inaccettabile, potrebbe scegliere una variante che era già stata della May. C’è chi vede in questo rincorrersi di vicende già viste una vendetta postuma del passato, ma è più una fissazione dei commentatori inglesi che altro, il percorso della Brexit, già parecchio accidentato, ora sembra riservare soltanto ulteriori strappi, al punto che il New York Times di recente si è chiesto se non siamo di fronte a un caso unico e inedito: la democrazia non può gestire un affare come la Brexit.

 

In realtà, senza farla troppo grossa, bastava dare seguito e credito alle alternative fattibili invece che alle ideologie e alle lotte di potere, ma intanto le alternative a oggi valutabili dal governo inglese sono: non applicare la legge appena approvata dal Parlamento rischiando conseguenze giuridiche pesanti; scrivere la lettera di rinvio all’Ue chiedendo ai paesi europei di non accettarla: dopo che la Francia ha fatto sapere che una proroga senza giustificazioni chiare (vedi elezioni o referendum) non dovrebbe essere accettata, il team Johnson ha pensato di poter far leva sulle divisioni dell’Ue esausta; chiedere una mozione di sfiducia contro se stesso, in modo da rendere le elezioni non soltanto inevitabili ma anche urgenti; dimettersi. Nulla di cui gioire troppo, insomma: restano soltanto i sondaggi che ancora danno il Partito conservatore vincitore anche se i margini diminuiscono e non tutte le proiezioni sono concordanti. Mica poco, se non fosse che anche questa è una vicenda già vista e conferma che il problema, con la Brexit, non era la May: è la Brexit stessa.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi