Il primo ministro britannico Boris Johnson visita la fattoria di Shervington a Newport (Foto LaPresse)

Speculatore Boris

Giovanni Damele e Andrea Ruggeri*

Leggere l’ascesa del primo ministro inglese e la crisi dell’élite democratica con le lenti di Vilfredo Pareto

My chances of being PM are about as good as the chances of finding Elvis on Mars, or my being reincarnated as an olive

Boris Johnson, The Independent, 2004

 

Pareto divide il mondo tra rentier, che vivono di stabilità, e speculatori, che si giovano del caos. Johnson fa parte della seconda schiera

La resistibile ascesa al premierato di Boris Johnson – BoJo, come lo chiama la stampa inglese, tra il caustico e l’affettuoso – ha seguito un percorso simile a quella di Trump: inverosimile all’inizio, poi plausibile, infine inevitabile. Anche per questo motivo, è spesso paragonato a Trump. Come il presidente americano, BoJo è dirompente, benché più istrionico: apparentemente estraneo ai modi tradizionali della classe politica, è arrogante e talvolta apertamente, e volutamente, ignorante. Infine, come Trump incarna un paradosso: un membro dell’élite il cui successo politico deriva – anche – da un esibito distacco dall’élite. Nel suo caso, però, il paradosso è ancora più clamoroso. Perché se in Trump si può riconoscere, almeno, una certa estraneità rispetto alla classe politica di Washington, BoJo è invece un antielitista che più elitario non si può: un membro della più classica élite britannica.

 

Come praticamente tutti i premier della recente storia britannica, e come gran parte dei suoi ministri, BoJo ha studiato ad Oxford. E, come i due terzi dei membri del suo governo – contro il 7 per cento della popolazione britannica – ha frequentato le elitarie scuole private. Insomma, sembrerebbe che nella classista società britannica (e inglese, in particolare) persino l’antielitismo sia un affare riservato a pochi.

 

Pareto valuta la società in base all’equilibrio. Quando speculatori e populisti sono predominanti, ci sono tutti i sintomi di una crisi

Per provare a comprendere l’apparente paradosso di BoJo bisogna allargare il campo al panorama politico britannico. Negli ultimi anni, la minaccia più consistente all’élite conservatrice non è arrivata da un partito laburista in piena crisi d’identità, passato da un leader all’altro mentre Boris Johnson inanellava due mandati da sindaco di Londra (2008-2016). E’ arrivata, invece, da Nigel Farage e dal suo Ukip: un “single issue party” basato sull’unico tema dell’uscita dall’Unione europea. David Cameron, meno istrionico ma non meno spregiudicato del suo compagno di studi ad Oxford, aveva intuito che i tories avrebbero potuto perdere il controllo del loro elettorato. La risposta conservatrice, tuttavia, si fece ondivaga e incerta ed è in questa incertezza che si è inserito Johnson. Nel 2013, quando Michael Gove e Philip Hammond, entrambi ministri del governo Cameron, misero per primi sul tavolo il tema della Brexit, BoJo la liquidava, dalle pagine del conservatore Telegraph, come una questione non cruciale per il destino del paese. Poco dopo, sul Sunday Times, la Brexit diventava invece per lui la soluzione per il destino del Regno Unito. Arruolatosi – con i gradi di generale – nelle file dei Brexiters, condusse una spregiudicata campagna referendaria per il “leave”.

 

Una volta vinto il referendum e ottenuto il ministero degli esteri, ostentava sicurezza sulla possibilità di un ottimo accordo con l’Ue. Un anno dopo, lasciava l’incarico accusando Theresa May di aver tradito lo spirito originario della Brexit con la sua bozza di accordo. Nel maggio 2019, la strategia di BoJo era ormai diventata il “leave” a tutti i costi, con o senza accordo. Giunto alle soglie della consacrazione, dopo una lunga marcia per la conquista dei tories e per il collasso del governo May, insisteva infine sulla sua capacità di rimettere Nigel Farage al suo posto. Insomma, la risposta conservatrice di BoJo è stata sposare in tutto e per tutto l’agenda e i toni dell’Ukip. E’ come se l’élite, anziché cooptare membri esterni, ne avesse assimilato i modi e gli argomenti. Una curiosa versione della “circolazione delle élite” che avrebbe intrigato Vilfredo Pareto. Di fatto, letta attraverso le lenti del teorico delle élite, la scalata al potere di BoJo potrebbe suggerire un’interpretazione semplicistica: l’élite che non si rinnova, che non sa cooptare elementi esterni, che si chiude in se stessa è destinata alla decadenza. La qualità dei suoi membri peggiora di generazione in generazione, fino a consentire l’ascesa di elementi patologici. Ma questa lettura sarebbe, appunto, troppo semplicistica.

 

Per molto tempo, Pareto è stato considerato un Giano bifronte: una faccia rivolta al futuro – quella dell’economista – e una rivolta al passato – quella del sociologo autore di astrusi neologismi e di categorie artificiose, che nasconde le proprie pulsioni reazionarie dietro a una facciata di (pretesa) scientificità. In realtà, l’economista non può essere compreso senza leggere il sociologo. Ed entrambi ci aiutano a leggere il fenomeno BoJo.

 

L’élite che non si rinnova, che non sa cooptare elementi esterni, che si chiude in se stessa è destinata alla decadenza sicura

Pareto riteneva che l’economia dovesse essere studiata nel contesto degli altri fenomeni sociali, come un complesso dinamico in evoluzione e, si potrebbe dire, mosso da inquietudini interne. Anziché considerare l’economia come l’ambito d’azione di agenti strettamente razionali, tesi alla massimizzazione del profitto, Pareto dava importanza ai conflitti interni tra individui spinti da pulsioni irrazionali, che ne forgiano le diverse caratteristiche. Secondo Pareto, insomma, non esiste un unico modello di attore economico razionale, ma anzitutto due grandi tipi contrapposti: il rentier, la cui fortuna economica deriva da una rendita fissa, e lo speculatore. Questi due attori si trovano in uno stato di conflitto aperto o latente: gli uni devono le loro fortune economiche alle sfortune economiche degli altri. I rentier privilegiano la stabilità, gli speculatori l’instabilità. Fin qui, nulla di nuovo: entrambi, di fatto, agiscono per massimizzare i profitti. Pareto insisteva, però, sulle spinte irrazionali che danno origine a queste due tendenze. Con il suo vocabolario caratteristico, parlava di “residui” e “derivazioni”. I primi, sarebbero i motivi profondi e irrazionali delle azioni umane, le seconde, le “verniciature” logiche e razionali che le persone danno alle loro azioni.

 

Ad esempio, per Pareto le ideologie sarebbero derivazioni, in quanto razionalizzazioni di atti compiuti principalmente per pulsioni irrazionali. Alle due principali categorie di residui, Pareto assegnava poi i nomi di “persistenza degli aggregati” e “istinto delle combinazioni”. I primi, erano appunto, tipici dei rentier, tendenzialmente ostili alle novità, i secondi degli speculatori, propensi al cambiamento. Pareto ampliava poi lo sguardo a ogni ambito dell’agire umano e, in particolare, alla politica. Qui, la teoria dei residui incontrava l’idea della fondamentale e inevitabile contrapposizione sociale tra classe governante (l’élite) e classi governate. L’“istinto delle combinazioni” (tipico degli speculatori) è infatti, secondo Pareto, particolarmente diffuso tra i membri della classe governante, mentre la “permanenza degli aggregati” (tipica dei rentier) è predominante tra le classi governate. Politicamente parlando, i rentier si caratterizzano quindi per la fedeltà al passato, per la capacità di sopportazione, per la resistenza al cambiamento. Gli speculatori sono invece avventurieri affamati di novità in ogni ambito: non sono spaventati dal cambiamento perché si aspettano di trarne vantaggio. “Le opinioni loro – dice Pareto – sono sempre quelle che più loro giovano nel momento; ieri conservatori, oggi demagoghi, domani saranno anarchici, per poco che gli anarchici si avvicinino al potere”.

 

Frank Luntz , ex compagno di Johnson ad Oxford, ha scritto sul Financial Times: “Ricordo di aver ascoltato, poco più di un decennio fa, una conversazione tra diversi membri della cerchia di David Cameron che si lamentavano della prima candidatura a sindaco di Johnson: ‘Non è serio, distruggerà il nostro partito’, dicevano. Secondo loro, gli elettori non lo avrebbero mai accettato come loro leader. Johnson era troppo diverso, troppo intellettuale, troppo elitario. Quegli altri sono spariti, ma lui è ancora in giro”. BoJo è riuscito a cambiare volto: da londoner che va in bici ad arcinemico della Londra capitale della “élite metropolitana liberal”. Ha divorato i gelati degli “icecream van” come la working class che non vola verso le spiagge mediterranee e passa i sempre più afosi weekend estivi in patria. La sua campagna elettorale per la Brexit è stata punteggiata da pranzi a base di fish & chips e pork pie. E ora che è primo ministro, Il Times può titolare: “Boris Johnson prepara il terreno per le elezioni generali: popolo contro politici”.

 

Non ha puntato ad assimilare, ma ad assomigliare. E’ riuscito a far sopravvivere la sua élite, presentandosi come un antagonista

Dunque, come si sopravvive agli attacchi esterni di un gruppo che vuole soppiantare l’élite di governo? Pareto è lapidario: o lo si elimina o lo si assimila. Il colpo di creatività (forse addirittura di genio politico) di Johnson è stato il modo in cui ha declinato la strategia di assimilazione. Non ha cooptato le persone che lo sfidavano, ma i loro modi. Formatosi nelle migliori scuole del regno, sindaco per anni della capitale simbolo di quel cosmopolitismo spesso contrapposto all’identità british, si è fatto portavoce degli smarriti, di coloro che percepiscono la globalizzazione e la libertà di movimento in Europa come un pericolo, anziché come un’opportunità. Per farlo, lui stesso si è reinventato antielitista: un uomo del popolo. Non ha puntato ad assimilare, ma ad assomigliare. E’ riuscito a far sopravvivere la sua élite, presentandosi come un suo antagonista.

 

La lezione paretiana, però, non finisce qui. Uno dei sintomi che Pareto individuava nelle decadenti società liberali degli inizi del XX secolo era la marcata prevalenza, tra la classe di governo, di “speculatori”. Nella sociologia paretiana, tutto ruota intorno al concetto di equilibrio. Per la classe di governo, questo significa equilibrio tra rentier e speculatori. Un’élite troppo conservatrice, non si rinnova a sufficienza e si sclerotizza. Una in cui eccedono gli “speculatori” non si stabilizza. La netta prevalenza di uno dei due tipi di attori, insomma, porta a uno squilibrio. Una classe politica di soli speculatori, anziché proporre e imporre la propria agenda, sfrutta opportunisticamente la situazione: vale a dire – nel caso dei demagoghi – le pulsioni momentanee dell’elettorato. A tutto svantaggio della stabilità, necessaria non solo al paese, ma alla sopravvivenza della stessa élite. Il fenomeno BoJo può essere tratteggiato seguendo lo schema del politico speculatore di Pareto, ma è ormai uno speculatore tra gli speculatori: uno speculatore in un partito, i tories, che si è affidato a lui confidando nella sua abilità di annusare l’aria che tira. Considerata dal punto di vista di un grande partito, un progetto di questo tipo finisce per essere privo di solide fondamenta e, in ultima analisi, un altro sintomo di crisi. BoJo, oltre che capace speculatore, dovrà dimostrarsi leader, guidando il paese oltre Brexit. Dovrà pensare a strategie, anziché a tattiche. L’autunno britannico sarà molto più rigido del solito.

 

* Rispettivamente Universidade Nova de Lisboa e University of Oxford