Foto LaPresse

Perché lo Sri Lanka ha chiuso i social dopo gli attacchi di domenica

Giulia Pompili

Il governo ha bloccato l'accesso a Facebook e Twitter prima che potessero scatenare una guerra d’odio. Come siamo passati dalla nuova libertà donataci dai social media alla necessità di chiuderli dopo le stragi

Roma. Subito dopo l’attacco di domenica scorsa, una delle prime misure precauzionali decise dal governo di Colombo è stata quella di bloccare l’accesso a quasi tutti i social network, tra cui Facebook, WhatsApp, YouTube, Instagram, Viber. La decisione è stata presa per evitare il diffondersi di fake news che avrebbero potuto alimentare l’odio etnico e religioso, e provocare ancora più violenza e morti. Otto anni fa i social network, nati per agevolare le comunicazioni via internet, si erano trasformati in uno strumento fondamentale per le rivolte nel nord Africa e medio oriente. Negli anni successivi, dei social che erano serviti per coordinare le piazze abbiamo parlato molto, soprattutto in occidente, a proposito della nuova libertà digitale donataci da Facebook e Twitter, veicoli di democrazia. Poi però sono arrivati gli eserciti di troll, e la “polarizzazione dell’informazione” che influenza le elezioni, il caso Cambridge Analytica. Non solo: in Asia già da anni si discute sul tema. Internet è considerato uno degli strumenti con cui lo Sri Lanka ha avuto accesso alle informazioni che hanno portato alla fine della guerra civile nel 2009. Ma già nel 2012 – contestualmente con la diffusione nel sud-est asiatico di internet e smartphone – l’India è stato il primo paese a bloccare l’accesso alle informazioni via social per motivi di ordine pubblico, e ogni volta che una falsa notizia arriva a provocare violenza il governo chiude i social (con conseguenti proteste dei gruppi per la difesa della libertà di espressione). Domenica, spiegava sul New York Times Max Fisher, la decisione del governo dello Sri Lanka – unita a quella del coprifuoco dalle 8 di sera alle 4 del mattino – è stata del tutto preventiva: sappiamo che succederà, e allora fermiamo il diffondersi di pericolose fake news prima che succeda.

 

Dopo gli attentati di Christchurch del 15 marzo scorso, quando un uomo ha ucciso cinquanta persone in due diverse moschee in Nuova Zelanda riprendendosi con una telecamera e mostrando tutto in diretta via Facebook, si è di nuovo tornati a parlare anche in occidente del cortocircuito che esiste tra i gestori dei social network – che rappresentano il senso della libertà d’espressione online, cioè il motivo per cui sono state create le piattaforme di comunicazioni online – e la loro responsabilità nella diffusione dei messaggi d’odio. E l’hate speech è uno dei problemi fondamentali di Facebook nel sud-est asiatico. Monitorarli non è facile, e non è facile nemmeno capire quanto ci sia di democratico e non manipolato nelle notizie che si diffondono velocemente e in modo esponenziale. Parliamo naturalmente di paesi democratici, o di democrazie giovani e più autoritarie (in Cina e in Corea del nord Facebook è bandito sempre, non solo in caso di necessità).

 

La rivoluzione digitale nel sud-est asiatico ha coinciso con la diffusione dei social network, e in un famoso libro sul potere dei media in Indonesia Ross Tapsell, dell’Australian National University, spiega che per molti utenti in questa parte di mondo internet non è altro che Facebook. E’ qui che si informano, è qui che vivono la loro vita virtuale. La guerra delle fake news, spiega Tapsell, è stata determinante anche nelle ultime elezioni in Indonesia – il terzo mercato del mondo per Facebook, con più di cento milioni di account – così come il ruolo dei fact checker. In Myanmar, secondo un’indagine dell’Onu, la diffusione di notizie online è stata una delle principali cause della diffusione d’odio contro i rifugiati rohingya: “E’ doloroso vedere che Facebook si è trasformato in una bestia, ma non è stato inventato per questo”, ha detto Yanghee Lee, relatore speciale dell’Onu per i diritti umani in Myanmar. I social network sono veicolo di tensioni soprattutto nei territori in cui esistono conflitti etnici e religiosi: “In Sri Lanka, dove sono diffusi soprattutto Facebook e WhatsApp, lo scorso anno Facebook è stato usato per mobilitare la violenza anti-islamica”, ha detto ieri al New Yorker Amarnath Amarasingam, senior research fellow all’Institute for Strategic Dialogue, uno dei massimi esperti di estremismo in Sri Lanka: “C’è stata molta disinformazione, teorie complottiste, che hanno portato alla violenza nella vita reale. Facebook ha fatto un passo avanti e ha riconosciuto quel che è successo in Sri Lanka e in Myanmar, si sono presi delle responsabilità e hanno detto che avrebbero preso provvedimenti. So che sono in contatto con diverse ong sul campo per monitorare la situazione e assicurarsi che non avvenga di nuovo. Staremo a vedere”.

Di più su questi argomenti:
  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.