La riforma delle pensioni e gli insulti sui social. Così s'incrina il putinismo
La trasformazione di un presidente cui venivano attribuiti poteri da Babbo Natale in un comune politico populista ha prodotto uno choc. La Russia è stanca della guerra
"Caro papà, torna da noi, a cosa ti serve questa guerra, a casa si sta così bene!”. Sasha piangeva mentre scriveva nel quaderno queste righe. Alla madre, Olga Fedorchenko, ha spiegato che il compito a casa dato dalla maestra era di scrivere una lettera al padre andato in guerra. Il giorno dopo, del tema sul “papà al fronte” si parlava in rete e anche in televisione, perfino sui canali statali: molti genitori si sono rifiutati di far eseguire ai propri figli il compito che li faceva singhiozzare, o hanno scritto la “lettera” al posto loro.
Un episodio minore di ordinaria idiozia propagandistica, di quelli che ogni giorni balenano nei social russi, che si è distinto però per due caratteristiche: l’insolita diffusione nei media e la rabbia quasi unanime: “Ci stiamo preparando a entrare in guerra?”. Il manuale per le elementari che contiene il compito è uscito nel 2015, approvato dal ministero dell’Istruzione, e microscandali sul tema, con bambini in lacrime, erano già stati segnalati in varie città russe. Insieme a tanti altri casi, come le “lettere al soldato” che i ragazzi scrivevano in classe ai militari russi in Siria, alle culle per neonati a forma di carro armato, alle uniformi dell’Armata Rossa per bambini vendute nelle succursali russe dell’Auchan. Ma all’epoca scandalizzavano soltanto i soliti blogger liberali.
Il premier Medvedev tuitta in difesa del venezuelano Maduro e ottiene centinaia di commenti del tipo “te la stai facendo sotto?”
Qualcosa è cambiato, e nei primi giorni dell’anno il film “Prazdnik” (“Festa”), contro il quale i deputati della Duma avevano fatto partire la solita campagna per la messa al bando per “sacrilegio dei caduti”, è stato messo dal regista Alexey Krasovsky in rete e ha raccolto un milione e mezzo di visualizzazioni su YouTube e si è quasi ripagato i costi grazie al crowdfunding degli spettatori. Si tratta di una commedia da camera ambientata in una famiglia della nomenclatura il 31 dicembre 1941, nella Leningrado assediata, e pur giocando abilmente con gli stereotipi del cinema d’epoca, grazie anche alla bravura degli attori, non è un capolavoro, o perlomeno non raggiunge i livelli che ci si potrebbe aspettare dalla premessa (si può vedere con i sottotitoli in italiano su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=npERkyInJss). Ma il parallelo, fin troppo esplicito, tra la famiglia di privilegiati che cerca di nascondere la sua inspiegabile ricchezza alle inattese “persone comuni” arrivate da una città dove si muore di fame, e le dacie, le limousine e gli yacht dei ministri e dei governatori putiniani, è stato letto e recepito, e la campagna contro “Prazdnik” non ha attecchito.
Il film “Prazdnik” (“Festa”) del regista Alexey Krasovskycontro contro il quale la Duma ha fatto partire una campagna per la messa al bando
La Seconda guerra mondiale – Grande guerra patriottica, come la chiamano in Russia – è il caposaldo dell’identità nazionale, un argomento intoccabile, spiega Gian Piero Piretto, uno dei più profondi studiosi del continente russo, che ha da poco pubblicato “Quando c’era l'Urss. 70 anni di storia culturale sovietica” (Raffaello Cortina Editore), una biografia intelligente, appassionata e equilibrata nello stesso tempo, del periodo comunista. La gloria della vittoria giustifica una storia terribile, e legittima le pretese odierne di Mosca, e i sacrifici patiti rendono irrilevanti le difficoltà di oggi.
Solo un paio d’anni fa la tv indipendente Dozhd quasi naufragò in seguito a una campagna ben orchestrata partita da un sondaggio un po’ azzardato sulla guerra, ma oggi sembra che a schiacciare sui soliti tasti della propaganda non si ottenga più quell’effetto che sembrava ormai automatico. Quando il premier Dmitri Medvedev decide di lanciare un paio di tweet in difesa del venezuelano Maduro, ottiene centinaia di commenti del tipo “arriverà anche il tuo turno”, “te la stai facendo sotto?” e “anche noi presto scenderemo in piazza”, e nessun (sic) commento positivo, nemmeno dai troll della famigerata “fabbrica” di Pietroburgo. I social in generale stanno diventando un campo minato per il governo: a Capodanno dai siti dei canali televisivi nazionali era sparito il messaggio di auguri di Vladimir Putin, un “disguido tecnico” dovuto a centinaia di commenti critici quando non apertamente offensivi.
Potrebbe essere solo una guerra di qualche migliaio di troll sui social, ma anche nelle platee reali gli spettatori di Comedy Club muoiono dalle risate guardando la gag di “Putin in farmacia”. La comicità è comprensibile in pieno solo ai russi: il presidente, impersonato dal bravissimo imitatore Dmitri Graciov, si presenta in una comune farmacia a informarsi sulla disponibilità delle medicine e i prezzi praticati per i pensionati, e non viene riconosciuto da nessuno. La macchina dello spin continua regolarmente a offrire photo opportunity del presidente che cambia scenografia e vestito come Barbie (o come Salvini), tra mostre di armi, chiese, ospedali, riunioni, monumenti e partite di hockey in piazza Rossa, mentre consiglia ai russi di prevenire l’influenza praticando più sport e gli annuncia “il miglior regalo per l’anno nuovo”, un nuovo missile nucleare. Ma non suscita più entusiasmo, e il suo gelido carisma appare all’improvviso appannato. Il centro demoscopico VZIOM segnala un crollo verticale dei consensi al presidente, sceso sotto il 33 per cento. Più della metà dei russi vorrebbe mandare a casa il governo, il 70 chiede un disgelo con l’occidente, e quasi la metà si dice disposta a scendere in piazza, dopo anni in cui un’assoluta maggioranza considerava le proteste un passatempo da fannulloni e provocatori.
La battaglia che a Mosca viene definita come “lo scontro del frigorifero con il televisore” si è conclusa con la vittoria del primo
Il Cremlino ha perso quattro elezioni regionali di fila, e a Vladivostok il risultato elettorale è stato annullato dopo le proteste contro i brogli a favore del candidato putiniano. Il brillante e divertente libro “Nulla è vero, tutto è possibile”, la discesa del britannico Peter Pomerantsev, uno dei massimi esperti di fake news russe, nei gironi luccicanti della televisione di Mosca – in un mondo surreale che confeziona la realtà virtuale “in una sintesi di controllo sovietico e intrattenimento occidentale” – è stato appena tradotto da Minimum Fax, ma si legge già come una storia passata, insieme all’esultanza per l’annessione della Crimea e il petrolio a 100 dollari a barile. Nella Mosca di oggi Margarita Simonian, la direttrice di Russia Today che proponeva di dare al nuovo missile il nome di Putin, viene avvicinata al semaforo da un altro guidatore, che le fa cenno di abbassare il finestrino e le sputa in faccia.
L’interrogativo cruciale della politologia e dell’economia non è se un sistema inefficiente crolla, ma quando. Nel caso russo il momento si conosce con assoluta precisione: il 14 giugno 2018, un’ora prima del calcio d’inizio dei Mondiali. Il momento considerato dal Cremlino più propizio per annunciare a sorpresa l’aumento dell’età della pensione e dell’Iva, interrompendo 18 anni di luna di miele dei russi con Putin. Non solo perché la riforma stravolge un modello di vita durato quasi 90 anni, rompendo un patto sociale paternalista, e nemmeno perché preferisce ovviare alla crisi demografica introducendo un sistema in cui buona parte dei maschi semplicemente non vivrà abbastanza a lungo per godersi la pensione, invece di modificare la flat tax al 13 per cento o tagliare le enormi spese per l’esercito e la polizia, ma anche perché non era mai stata discussa se non in una ristretta cerchia di esperti, e Putin aveva giurato pubblicamente che non l’avrebbe mai attuata.
La trasformazione di un presidente cui venivano attribuiti poteri da Babbo Natale in un comune politico populista ha prodotto uno choc: in due mesi in decine di migliaia sono scesi in piazza, e dai sondaggi risulta che la domanda di miglioramento economico e pugno di ferro viene sostituita da richieste di “rispetto dei cittadini e uguaglianza di fronte alla legge, libertà e pace”, dicono gli autori della ricerca Mikhail Dmitriev e Serghey Belanovsky, molto seguiti nella community di esperti per aver predetto le proteste liberali del 2011-12. Il leader ideale deve “sapere riconoscere gli errori, non ricorrere a doppi standard e costruire buone relazioni con l’estero”. Tutto il contrario di quello che propone Putin, che nell’ultimo mandato ha sostituito definitivamente la politica interna con la sua sfida internazionale.
All’improvviso quello che l’opinione pubblica sapeva, intuiva o sospettava – la ricchezza sfacciata della burocrazia, la corruzione, il fallimento in Ucraina e ora in Siria, da dove Trump si ritira e i russi no, le controsanzioni che hanno sostituito nei supermercati il formaggio con surrogati a base di olio di palma, i tagli alla sanità (la foto dell’ospedale di Penza dove i malati vengono adagiati su travi poggiate tra due sedie ha fatto il giro della Russia), i 22 milioni di poveri e i 50 milioni che spendono tutto quello che guadagnano in cibo, il collasso del Venezuela che deve alla Russia 17 miliardi di dollari di aiuti e armi, i poliziotti picchiatori e i servizi segreti che arrestano rapper per “istigazione al consumo di droga” e ragazzini per post su Facebook – si cristallizza in una soluzione satura. Non è ancora chiaro se si tratta di un risveglio, uno smaltimento della sbornia, una fase di maturazione postcomunista, un intermezzo contraddittorio o solo della ricerca di un nuovo sogno: le elezioni perse dai candidati putiniani sono state vinte da avversari, perlopiù comunisti, che promettevano il pragmatico paternalismo tipico un tempo del padrone del Cremlino. Intanto la battaglia che a Mosca viene definita come “lo scontro del frigorifero con il televisore”, dopo anni di prevalenza del secondo, si è conclusa con l’inevitabile vittoria del primo.
Il raffreddamento sembra reciproco. Alexandr Baunov, direttore di Carnegie.ru, scrive che “non solo un popolo può deludersi del suo leader, succede anche l’opposto”. L’empatia che tanto conquistava gli elettori è stata sostituita da un distacco quasi annoiato, che confina con il fastidio. All’ultima conferenza stampa Putin aveva polemizzato con chi denunciava corruzione e malgoverno, schierandosi con l’élite sempre più odiata, con quei deputati, ministri e funzionari che finiscono al centro di polemiche per frasi memorabili come “il governo non vi ha chiesto di mettere al mondo dei figli”, “gli insegnanti scontenti di 150 euro di stipendio hanno pretese esagerate” e perfino “i russi mangiano troppo”.
Nel 2012 il Cremlino, deluso dalla neonata classe media urbana che, appena saziati gli appetiti primari ha scalato la piramide di Maslow chiedendo libertà ed elezioni oneste, ha scommesso sul popolo: pensionati, dipendenti pubblici, militari, contadini, gli orfani dell’Urss che hanno applaudito la svolta conservatrice, il nazionalismo e le ambizioni imperiali. Ma il popolo “desidera consumi capitalisti e lavoro e distribuzione socialista”, non ha voluto mobilitarsi nel Donbass (dove sono stati inviati soldati sotto copertura) e nemmeno su Internet (la cui gestione è stata affidata ai troll). La paura e l’esaltazione prodotti dalla propaganda non possono durare in eterno, e “il popolo passivo va bene per farsi rinnovare il mandato, ma è inadatto a una transizione”, come quella dell’ultimo mandato putiniano, che segna anche un cambiamento generazionale nel rapporto ventennale tra il leader e il suo elettorato.
Nel 2012 il Cremlino, deluso dalla neonata classe media urbana, ha scommesso sul popolo. Ma ora ha riformato le pensioni
“Teoricamente il regime di Putin ha gli strumenti per restare al potere anche con il 10 per cento dei voti”, dice il sociologo del web Igor Eidman, ma ha un problema: è incapace di governare in mancanza di consenso monolitico, di dialogare, mediare, convincere, il suo personaggio sovrumano non tollera la dimensione del ridicolo. Più che creare una narrativa aveva attinto dal subconscio collettivo postsovietico, del quale faceva pienamente parte, e per 19 anni ha governato quasi in totale sintonia con il suo popolo, fino al glorioso 86 per cento dopo l’annessione della Crimea.
E la guerra gli ha sempre portato fortuna: dalla Cecenia, con il famoso “ammazzeremo i terroristi anche al cesso” che aveva trasformato un anonimo funzionario di Pietroburgo nell’idolo nazionale, alla Georgia, all’Ucraina e alla Siria, la sua popolarità schizzava in alto ogni volta che muoveva i carri armati, “il suo progetto nazionale è la guerra”, dice Eidman. Ma, come cantava il guru del rock russo Boris Grebenshikov nei primi anni della perestroika, “ci avevano insegnato che la vita è una battaglia, ma è venuto il tempo di tornare a casa”. Il paradigma “ci ha resi benestanti e grandi”, dopo la Crimea è diventato “siamo poveri, ma ancora più grandi”, e infine è stato tradotto dal premier Medvedev nella mitica frase rivolta ai pensionati della penisola annessa: “Non abbiamo soldi, ma voi tenete duro”.
Al nuovo scontento che chiede pace, rispetto e giustizia il governo per ora ha risposto con il progetto di legge che punisce con multe e arresti la “critica infondata di rappresentanti delle autorità” e la “diffusione di notizie non verificate”, e ipotesi di staccare l’Internet russo dalla rete mondiale. Il web brucia sempre di più sotto i piedi dei putiniani: dopo la pubblicazione su YouTube dell’inchiesta di Alexey Navalny sulle ville a Como e la Maybach dell’anchorman ultrapatriottico Vladimir Soloviov la Mercedes ha tolto dal suo sito russo la foto nella quale fa da testimonial, insieme a chilometri di insulti nei commenti.
Non è più il Cremlino a forgiare narrative e vocabolari: a battere il ritmo è oggi il blogger che Putin non nomina mai per nome, e i suoi meme e tormentoni – dal “partito dei ladri e dei cialtroni” al “qui il potere siamo noi”, all’anatroccolo giallo che allude alle megaresidenze con stagni e boschi del premier e che appare nelle piazze e sulle cover degli iPhone – entrano nel lessico perfino di chi lo accusa di essere un agente al servizio dei clan avversari nel governo. I suoi video che colpiscono e affondano gli uomini del regime raccolgono più visualizzazioni di settimana in settimana. Ha 25 anni in meno di Putin, quel poco che ricorda dell’Urss non gli fa provare nessuna nostalgia, parla del futuro e non del passato e parla il linguaggio del russo comune esattamente come lo parlava quattro presidenze fa Vladimir Vladimirovich. Che deve trascorrere al Cremlino ancora cinque anni. Prepariamo i popcorn. La crisi non è solo sui social. Nelle platee gli spettatori di Comedy Club muoiono dalle risate guardando la gag di “Putin in farmacia”.
tra debito e crescita