In Siria serve un piano, now

Attentato contro i soldati americani in una piccola città nel nord del paese. Un mese fa Trump aveva sconfitto l’Isis (su Twitter)

Daniele Raineri

New York. Il diciannove dicembre il presidente americano Donald Trump ha scritto su Twitter: “We have defeated ISIS in Syria” e ha annunciato il ritiro immediato di tutti i duemila soldati americani impegnati in Siria come appoggio alle milizie curdo-arabe che fanno la guerra allo Stato islamico. Mercoledì 16 gennaio un attentatore suicida a piedi si è avvicinato a una pattuglia americana che assieme ad alcuni curdi sostava su un marciapiedi davanti a un ristorante di Manbij, una piccola città nel nord della Siria che da due anni fa da guarnigione per americani e curdi, si è fatto saltare in aria e ha ucciso quattro soldati americani (fonte Reuters) e almeno dieci persone del posto. Dal video dell’attacco ripreso da una telecamera di sicurezza in quella strada è chiaro che lo Stato islamico ha spostato un attentatore suicida a Manbij, lo ha equipaggiato con una bomba e lo ha mandato a colpire gli americani dove si sentivano più tranquilli proprio per mandare in meno di un mese un messaggio al presidente americano: non siamo ancora stati sconfitti. Il gruppo ha rivendicato l’attentato un’ora più tardi.

 

 

 

Se il numero dei morti sarà confermato, si tratta dell’attacco più grave al contingente americano fin dal suo arrivo nel nord della Siria nell’autunno 2015 – in tre anni il bilancio delle perdite si era fermato a quattro soldati morti, due in combattimento e altri due in incidenti stradali. In molti dopo l’annuncio del ritiro avevano avvertito il presidente che lo Stato islamico è stato distrutto come entità territoriale ma è ancora attivo come gruppo di guerriglieri e di terroristi (è una distinzione che Trump ha cominciato a fare nei tweet successivi).

 

L’annuncio del ritiro dalla Siria che secondo il presidente americano avrebbe dovuto completarsi entro il 18 gennaio, quindi entro venerdì, ha aperto una fase molto caotica. Il capo del Pentagono Jim Mattis si è dimesso due giorni dopo (non è stato ancora sostituito in via definitiva) e con lui Brett McGurk, il diplomatico americano che coordinava la Coalizione degli stati impegnati nella guerra allo Stato islamico. Si parla di un piano per rimpiazzare i soldati americani con un contingente militare della Turchia, che però se entrasse in territorio curdo sarebbe considerato come una forza d’occupazione. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e Trump parlano in pubblico di creare una zona cuscinetto di venti chilometri di profondità fra Turchia e Siria (in territorio siriano), in modo che le milizie curde ostili non stiano a ridosso del confine. Ma non si vede come questa operazione militare che in teoria è diretta contro lo Stato islamico potrebbe minacciare davvero lo Stato islamico, che opera da molto più in profondità, nella valle dell’Eufrate trecento chilometri più a sud. Il problema è che il presidente Trump ha annunciato il ritiro da un fronte complicato senza che ci fosse un piano già pronto e ora si procede a tentoni. Queste situazioni di incertezza sono l’habitat ideale per lo Stato islamico.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)