La svolta americana
Trump ritira i soldati dalla Siria. Iran e Stato islamico festeggiano
Il presidente dice che “l’Isis è stato sconfitto”, ma conta ancora migliaia di uomini. I generali volevano l’opposto
New York. Il presidente Donald Trump mercoledì ha annunciato il ritiro delle truppe americane dalla Siria. “Abbiamo sconfitto lo Stato islamico in Siria, era la mia unica ragione per rimanere laggiù durante la presidenza Trump”, ha tuittato. Non si conoscono ancora i tempi, ma il ritiro sarà “completo e immediato”, anche se il Pentagono è contrario.
Le truppe americane in Siria sono poche, circa duemila sparse in alcune basi e aeroporti militari, ma sono la spina dorsale di quel dispositivo fatto di intelligence, raid di forze speciali, bombardamenti e appoggio agli alleati locali (le milizie curdo-arabe) che in tre anni ha spazzato via lo Stato islamico inteso come entità territoriale. E’ dalle basi in Siria che gli uomini della ETF, Expeditionary Targeting Force, partono per missioni veloci che sono cruciali per catturare o uccidere i leader dello Stato islamico – sempre con gli occhi puntati sul bersaglio più importante, Abu Bakr al Baghdadi. Sono le basi americane in Siria che a partire dall’ottobre 2015 hanno dato alle milizie curde le garanzie, la sicurezza e la sensazione di avere la necessaria copertura internazionale per dedicarsi in pieno alla guerra contro lo Stato islamico – un compito che hanno svolto egregiamente, considerato che hanno espugnato la capitale siriana del gruppo terrorista, Raqqa, e hanno liberato dai fanatici tutta la Siria orientale fino al confine con l’Iraq. L’ultima striscia di terra in mano allo Stato islamico attorno alla cittadina di Hajin è caduta una settimana fa.
Il contingente americano era partito con soli cinquanta uomini ma è presto aumentato fino a duemila perché non soltanto era essenziale nella campagna contro gli estremisti, ma con la sua presenza teneva a bada la Turchia – che considera insopportabile la presenza di un territorio amministrato da milizie curde al di là del confine – e sorvegliava le milizie filoiraniane, che nella parte di Siria controllata dal presidente Bashar el Assad sono fortissime e sono causa di continui piccoli episodi di guerra con Israele. Nessun altro paese avrebbe potuto impegnare un livello così avanzato di forza militare (trecentomila missioni aeree, per esempio).
Il ritiro delle truppe americane dalla Siria ordinato da Trump è un grande regalo allo Stato islamico. Siamo ai livelli della “mission accomplished” di Bush nel 2003 e del ritiro di Obama dall’Iraq nel 2011, due illusioni di vittoria che – viste con il senno di poi – erano molto premature e sono state il preludio di un peggioramento della situazione. Forse peggio. Lo Stato islamico anche se disperso conta ancora migliaia di uomini – fino a trentamila divisi fra Iraq e Siria secondo una stima del Pentagono pubblicata ad agosto – ed è pericoloso. Pur dopo tutte le recenti sconfitte è ancora agli stessi livelli dello Stato islamico in Iraq nel 2007-2009, quando gli estremisti controllavano di fatto alcune aree dell’Iraq e uccidevano decine di soldati americani ogni mese. E come abbiamo visto una settimana fa a Strasburgo ha ancora la capacità di ispirare volontari occidentali a uccidere in suo nome. In Siria c’era l’occasione di infliggergli danni forse definitivi e invece si apre una nuova fase, molto promettente per il gruppo terrorista.
E’ difficile conciliare questo ritiro americano con l’idea che questa Amministrazione voglia davvero, come ha detto molte volte, applicare la massima pressione per respingere l’influenza iraniana sulla regione.
E pensare che a metà settembre l’Amministrazione Trump aveva annunciato che i soldati sarebbero rimasti in Siria a tempo indefinito, per fare la guerra allo Stato islamico, sradicare le milizie iraniane dal paese e fare pressione per un cambio di governo a Damasco. Nel giro di tre mesi tutti, alleati e nemici, constatano che si trattava di parole vuote. L’America abbandona il campo.
L'editoriale dell'elefantino