L'America abdica da superalleato
Trump ordina il ritiro contro l’Isis in Siria e dimezza i soldati contro i talebani in Afghanistan
New York. Stephen Miller è uno dei consiglieri e degli yesman del presidente americano, Donald Trump, e negli ultimi due giorni è stato mandato in tv a difendere la decisione improvvisa di ritirare i soldati dalla Siria. “Lo Stato islamico è il nemico di altri paesi”, ha detto. “Lo Stato islamico è il nemico della Russia. Lo Stato islamico è il nemico della Turchia. Lo Stato islamico è il nemico di Assad”. Il messaggio era chiaro: non dobbiamo occuparcene noi. L’idea che il mondo sia nel bene e nel male un posto molto interconnesso dove alcuni estremisti reclutati in Germania possono incontrarsi in una fattoria vicino Kandahar in Afghanistan per pianificare l’attacco a New York dell’11 settembre 2001 o che altri estremisti possano organizzare da Raqqa in Siria gli attacchi più recenti contro Parigi e Bruxelles da questa settimana è respinta ufficialmente dall’Amministrazione Trump. E i suoi portavoce usano parole che se fossero pronunciate da un presidente liberal scatenerebbero da parte dei conservatori accuse di tradimento.
L’America sceglie la strada dell’isolazionismo e abdica dal ruolo di potenza globale che fino a oggi aveva sempre approvato e garantito la continuità delle missioni militari contro gli estremisti islamici.
Nel giro di trenta ore l’Amministrazione Trump ha prima ordinato il ritiro di tutti i duemila soldati americani impegnati nella Siria orientale contro i resti dello Stato islamico e poi il ritiro “nei prossimi mesi” di settemila soldati – su un totale di quattordicimila – dall’Afghanistan che sta perdendo contro i talebani. In mezzo agli annunci dei due ritiri il capo del Pentagono, l’ex generale dei marines John Mattis, è andato alla Casa Bianca con una lettera di dimissioni in tasca per provare a convincere il presidente Donald Trump a cambiare idea e a non spingere il paese sulla strada dell’isolazionismo spinto. Dopo che il tentativo è andato a vuoto, Mattis ha rassegnato le dimissioni – che saranno effettive dalla fine di febbraio, ha deciso lui la data e non il presidente – è tornato al Pentagono e ha fatto stampare cinquanta copie della lettera perché fossero distribuite in tutto l’edificio. In Iraq il suo nome in codice era “Chaos”, ma nell’Amministrazione era considerato un elemento di stabilità, che calmava gli impulsi del presidente. Di certo non era un guerrafondaio: fu lui a ignorare l’ordine di Trump di uccidere il rais siriano Bashar el Assad nell’aprile 2017. Nel testo senza precedenti il generale spiega che di essere d’accordo sul fatto che gli Stati Uniti non debbano essere il poliziotto del pianeta, ma che è essenziale che mantengano in vita la rete di alleanze in giro per il mondo che garantisce la sicurezza della nazione – e che Trump sta distruggendo, sottinteso – e anche che abbiano chiaro chi sono i nemici pericolosi e i rivali strategici – di nuovo sottinteso: Trump si rifiuta di vedere le minacce. Mentre Mattis lasciava il presidente perché dice che è necessario essere “cleareyed”, vedere con chiarezza chi sono i nemici, il presidente russo Vladimir Putin si congratulava con Trump per la scelta di abbandonare il campo. Non ci poteva essere rappresentazione migliore di quello che sta succedendo.
La missione militare in Siria era straordinariamente vantaggiosa per gli americani. Duemila soldati contro i 170 mila mandati in Iraq da George W. Bush, quasi zero perdite (quattro morti in tre anni di cui due in incidenti stradali, in pratica era più sicura che vivere nelle caserme americane), tutto il lavoro pesante affidato agli alleati locali, minimo impegno e massimo risultato contro i nemici dell’America: Stato islamico quasi distrutto, Iran tenuto a bada, il presidente siriano Bashar el Assad sotto pressione e la Russia costretta a negoziare. Nessuno si aspettava che la missione fosse di durata infinita ma tutti, anche i commentatori più trumpiani, si aspettavano che il presidente americano avrebbe chiesto qualcosa di sostanzioso in cambio del ritiro. A settembre il consigliere per la sicurezza nazionale russo (anche ex capo dei servizi segreti e architetto dell’intervento russo in Siria nel 2015), Nikolai Patrushev, aveva proposto uno scambio: Iran fuori dalla Siria se anche l’America avesse fatto altrettanto. Ora quella carta negoziale non ci sarà più perché Trump ha deciso di bruciarla.
A vedere i video che lo Stato islamico ha pubblicato dalla Siria orientale negli ultimi mesi si nota una costante: i terroristi prendono l’iniziativa contro le milizie curde sempre quando c’è cattivo tempo, perché i jet americani non possono volare. Da questa settimana per quelle milizie è come se ci fosse sempre cattivo tempo. Lo stesso panico dei curdi siriani abbandonati giovedì sera è arrivato anche tra gli afghani del governo, che da due anni vedono i talebani fare progressi straordinari nel tentativo di riprendersi il paese come negli anni Novanta. Distretto dopo distretto gli estremisti stanno infliggendo perdite spaventose ai soldati afghani e stanno prendendo il controllo di parti sempre più ampie del territorio. Il generale dei marines Kenneth McKenzie Jr, nuovo capo del Comando centrale e anche lui all’oscuro come tutti della svolta che stava per arrivare, pochi giorni fa ha spiegato al Congresso che senza l’appoggio americano l’esercito afghano si dissolverebbe. Dal corridoio dell’Eufrate in Siria alle montagne afghane i jihadisti sentono che il nemico più pericoloso, l’America, ha deciso di lasciare vuoti grandi spazi e che loro possono tornare a riempirli.
l'editoriale dell'elefantino