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Il regalo dell'America all'Iran

Paola Peduzzi

Dire “grazie Trump” non si può, ma Teheran dovrebbe farlo: ci guadagna moltissimo dal ritiro americano

Milano. Dire grazie a Trump per la leadership iraniana sarebbe troppo disdicevole, dopo tutti i colpi presi poi sarebbe anche umiliante. Ma se potesse, se fosse ammissibile lanciare un messaggio che non sia d’odio contro il Grande Satana, ecco, oggi Teheran direbbe in coro: grazie Trump. Perché il ritiro americano dalla Siria è un regalo agli ayatollah che nella loro politica espansionistica ambiscono a un vassallaggio completo della terra siriana, mentre (ri)trasformano il sud del Libano in una piattaforma di lancio di missili contro Israele ed estendono la loro influenza sul governo iracheno. Per questo, al posto del grazie indicibile, circola un’immagine di vittoria in cui l’Iran è rappresentato da un enorme e fiero veliero che procede tronfio con la rivoluzione islamica in poppa, mentre l’America perde, si ritira, s’arrende (e Parigi brucia, il gilet giallo è ormai imprescindibile). 

   

L’Iran non se l’aspettava, questa svolta: non se l’aspettava nessuno, come dimostrano le ricostruzioni che raccontano di sorpresa e rabbia nell’entourage della Casa Bianca e anche se Trump sostiene che non si tratta di una svolta, lui questa cosa la dice da sempre, certo Teheran non ci sperava proprio. Se c’è stato un punto fermo nella terremotata politica trumpiana è proprio l’Iran e il suo contenimento. Donald Trump è uscito in modo unilaterale dall’accordo sul nucleare iraniano, ha introdotto nuove sanzioni contro l’Iran e contro chi fa affari con l’Iran, cioè gli europei, ha rafforzato l’alleanza con Israele spostando l’ambasciata a Gerusalemme, ha difeso il principe saudita Mohammed bin Salman dalle accuse dell’uccisione del giornalista Jamal Kashoggi, contrariamente a quanto dicono la Cia, il Senato e l’evidenza. Ogni calcolo trumpiano è stato fatto finora con una premessa chiara: non consentiremo all’Iran di espandersi né di prenderci in giro per anni sul suo programma nucleare. E la strategia anti iraniana ha fatto anche da collante in un’Amministrazione che fatica a trovare un terreno comune su qualsiasi questione e vive di liti e sgambetti orchestrati in pubblico, come vuole il reality trumpiano.

  


  Così Teheran celebra il ritiro americano dalla Siria annunciato mercoledì da Donald Trump


  

Poi il presidente ha annunciato il ritiro dalla Siria delle truppe americane con un tweet e tutto, in un attimo, si è rovesciato. Trump sostiene che l’Iran – con Russia e Siria – ha poco da festeggiare, perché ora toccherà alle sue forze combattere lo Stato islamico (che fino al tweet presidenziale di due giorni fa era sconfitto) e tenersi il territorio ripreso indietro grazie alla presenza americana. Trump non vuole fare il poliziotto del mondo e dice agli altri, amici e nemici insieme (far la differenza non è più così semplice): cavatevela, sintesi perfetta di un approccio realista e “America first” combinato assieme. Israele ha risposto gelido: prendiamo atto della decisione americana (il premier, Benjamin Netanyahu, aveva insistito moltissimo con Trump e con l’Amministrazione di evitare ogni ritiro), continueremo a difendere il nostro paese. Del resto se c’è una nazione che, in quella regione, se la deve cavare da sola, quella è Israele. Ma anche dalle analisi israeliane trapela sconcerto: in medio oriente ogni posto lasciato sguarnito non resta vuoto a lungo. E per gli iraniani che, secondo un report del dipartimento di stato americano di ottobre, hanno speso 16 miliardi di dollari dal 2012 per sostenere i conflitti in tutta la regione, compreso lo Yemen, questo vuoto è un ritorno sull’investimento irrinunciabile. Per questo le Guardie della Rivoluzione, che sembrano secondo alcune fonti già in movimento, puntano fameliche alla base di al Tanf, nell’est della Siria quasi al confine con l’Iraq, che i generali americani definiscono “speed bump”, un dosso per far rallentare l’avanzata non soltanto dello Stato islamico ma soprattutto delle forze iraniane: al Tanf è un intoppo alla costruzione dell’ambito corridoio che unirebbe Teheran a Baghdad, Damasco e Beirut. Non è un caso che da tempo i russi, alleati dell’Iran in difesa del regime siriano di Bashar el Assad, denunciano le attività degli americani ad al Tanf e nei “55 chilometri circostanti”: “C’è grande preoccupazione rispetto alle dubbie attività degli Stati Uniti e dei loro alleati in Siria – ha detto a metà dicembre il colonnello generale Mikhail Mizintsev – L’occupazione illegale dei 55 chilometri attorno alla base al Tanf continua a essere l’origine della destabilizzazione in quella parte di Siria”.

  

Senza il “bump” di al Tanf, l’Iran può recuperare terreno, riconquistando la parte orientale della Siria – dove ci sono tutte le risorse petrolifere e gasifere del paese – che è controllata dai principali alleati americani: i curdi. Se accendete la tv su canali americani che parlano della questione siriana vi capiterà di sentire urla e pianti: sono i familiari dei soldati curdi, che sanno fin troppo bene che cosa significa essere abbandonati dall’America.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi