La manifestazione dei nazionalisti bianchi a Charlottesville nell’agosto del 2014 (foto Reuters)

Gli antisemiti e il fischietto per cani

Daniele Raineri

Le frequenze su cui viaggia l’odio per gli ebrei, nell’America del 2018

New York. Un fanatico è entrato in una sinagoga di Pittsburgh con un fucile e tre pistole e ha ucciso undici ebrei. In America c’è un’espressione politica sempre più frequente che è “the dog whistle”, “il fischietto per cani”. Se ne parla molto, è il concetto centrale che ha portato alla strage di sabato ed è il modo di dire che si usa per indicare quando un politico nasconde messaggi che eccitano i razzisti, i nazisti e i suprematisti bianchi dentro un discorso apparentemente normale. Per esempio, il politico dal podio dice che i globalisti vogliono aprire le frontiere così i migranti potranno invadere il paese e minacciare lo stile di vita dei cittadini rispettosi della legge e i nazisti sentono “globalisti” uguale “gli ebrei” e “cittadini rispettosi della legge” uguale “i bianchi” e nella loro testa traducono “gli ebrei vogliono aprire le frontiere così i migranti spazzeranno via i bianchi”. Così finisce che in una nazione armata come l’America un fanatico prende il fucile e va in sinagoga a sparare e poi dice agli agenti di polizia che lo catturano: “Volevo uccidere solo gli ebrei perché loro vogliono il genocidio dei bianchi”. Questo concetto si chiama dog whistle perché funziona come i fischietti per i cani, che emettono frequenze che noi non sentiamo ma i cani sì. In una puntata della vecchia serie televisiva “The West Wing” la leader di un gruppo di fanatici religiosi cristiani dice a due consiglieri della Casa Bianca: “Il vostro umorismo da newyorchesi non mi piace” e quelli la sgamano subito: “Intendeva dire: il nostro umorismo da ebrei?”. A ripensarci oggi era un esempio molto leggero.

 

Negli ultimi anni questo fischietto è stato usato molto. Nell’ottobre 2016 durante la campagna elettorale Donald Trump accusò Hillary Clinton “di incontrarsi in segreto con banchieri internazionali per pianificare la distruzione della sovranità americana e arricchire i poteri finanziari globali”. Che ne fosse consapevole oppure no, stava citando uno dei motivi ricorrenti della destra estrema americana: c’è un complotto ebraico mondiale per distruggere l’America bianca e va avanti grazie al fatto che gli ebrei controllano il governo, i media e le banche. Una settimana fa durante un comizio elettorale per le elezioni di metà mandato Trump ha rivendicato di essere un “nazionalista”. Dal punto di vista formale è ineccepibile. Il presidente degli Stati Uniti è per definizione un nazionalista, protegge e cura gli interessi della nazione americana. Ma è una definizione ambigua perché ammette anche altri significati molto meno neutrali. In America con nazionalismo si può intendere anche la dottrina che vuole la maggioranza bianca in lotta contro le minoranze per non cedere la sua supremazia. Nessuno dice “sono un nazionalista americano” a Harlem, il quartiere nero di New York, o a Little Havana, il quartiere cubano di Miami. Esiste il nazionalismo bianco, che vuole uno stato etnico bianco e il ritorno del paese allo status precedente il Civil Rights Act del 1964 e il Nationality Act del 1965.

 

Il primo dei due Act appena citati pose fine alla segregazione razziale – per esempio i bus divisi in due parti, bianchi davanti e neri dietro, negli stati del sud – e vietò la discriminazione basate sulla razza nelle assunzioni sul lavoro. Il secondo cambiò il sistema che regolava l’arrivo degli stranieri in America e stabilì che i ricongiungimenti familiari potevano superare le quote di arrivi prestabilite per nazionalità: in pratica, se prima per ipotesi l’America decideva di accettare l’arrivo soltanto di cento tedeschi e di cento messicani ogni anno, dopo cominciò ad accettare che arrivassero più tedeschi e più messicani se il motivo era il ricongiungimento familiare. Ovvio che la legge favoriva le ondate migratorie più recenti: i tedeschi non vanno più in America dall’Ottocento, i messicani invece sì e chiamano mogli e figli. I nazionalisti guardano con nostalgia a quell’epoca come se fosse l’età dell’oro e sognano che l’America torni com’era a quel punto. Make America Great Again.

 

Se la consideriamo in questo contesto, “nazionalismo” è una parola passepartout e quindi si presta bene al gioco. Da una parte ispira commozione patriottica nei “normies”, i normali, quelli che non percepiscono il fischio, dall’altra solletica quelli che vogliono uno stato etnico. Il dog whistle ti permette di dire quello che non puoi dire in modo esplicito, permette ai gruppi dell’estrema destra di pensare “questo è un messaggio rivolto a noi” e lascia tutti gli altri in uno stato di sospensione dubbiosa: “Avrà pronunciato quelle parole in modo innocuo oppure stava lanciando un messaggio che io non colgo?”. Ti permette persino di dire cose che non pensavi di dire. La settimana scorsa il candidato governatore della Florida, il nero Andrew Gillum, in un dibattito tv ha fulminato così l’avversario Ron De Santis, con una definizione che resterà nei manuali: “Io non sto dicendo che sei un razzista, sto semplicemente dicendo che i razzisti pensano che tu sia un razzista”.

  

Trump è il re del fischietto per cani. Intendiamoci: sarebbe folle dire che il presidente americano fa propaganda esplicita per i neonazisti. Suo genero Jared marito della figlia prediletta Ivanka è un ebreo osservante educato in una yeshiva. Il suo grande sponsor alle elezioni è il mogul ebreo dei casinò di Las Vegas, Sheldon Adelson. La sua decisione di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme è stata applaudita dal governo israeliano. Il suo staff alla Casa Bianca è pieno di consiglieri che hanno lavorato e che lavoreranno di nuovo per Goldman Sachs, la regina di quelle banche d’affari internazionali che secondo i fanatici dovrebbero essere in combutta con i Clinton. Eppure quello che il presidente dice e quello che fa eccitano in modo dimostrabile la destra estrema. Secondo l’Anti Defamation League, l’organizzazione che monitora gli atti di antisemitismo in America, tra il 2016 e il 2017 c’è stato un aumento del 57 per cento degli atti di antisemitismo. Dalla loro fondazione nel 1979 non avevano mai visto nulla del genere. Tra il 2015 e il 2016 c’era già stato un aumento del 35 per cento e il sospetto è che fosse legato al clima politico della campagna elettorale – la stessa in cui ottocento giornalisti americani ricevettero 19 mila messaggi e minacce antisemiti. Ricordate il meme che circolava e mostrava un Trump trionfale che chiude dentro un forno crematorio questo o quell’avversario politico? Non era molto sottile, diciamo.

 

A ottobre Trump ha deliberatamente trasformato una non-notizia, la carovana di migranti partita dall’Honduras per raggiungere il confine meridionale degli Stati Uniti, nella notizia che ha dominato i media americani per due settimane. Il corteo non è niente di speciale, ce ne sono stati altri prima e non hanno creato alcun panico, si muove a piedi e di questo passo potrebbe metterci due mesi prima di arrivare al confine. E se anche succedesse? I partecipanti non sono migranti illegali, nel senso che hanno diritto di fare domanda di asilo. Chi ne ha diritto sarà preso e gli altri saranno rispediti via, come succederebbe sotto qualsiasi Amministrazione, repubblicana o democratica. Ma tra una settimana ci sono le elezioni di metà mandato, i democratici sono in vantaggio sui repubblicani nei sondaggi e Trump ha trasformato il nulla in uno show.

 

Ha twittato che fra i migranti in marcia si nascondono “mideasterners”, persone del medio oriente, una bufala talmente artificiale che persino lui se l’è rimangiata, ha autorizzato lo spostamento di truppe sul confine – prima ottocento, poi cinquemila, il Pentagono per ora studia la faccenda ma intanto i media ci fanno i titoli–, ha fatto spargere la voce di un ordine esecutivo pronto per bloccare tutte le richieste d’asilo al confine, ha dipinto la carovana come un tentativo di sfondamento imminente invece che per quello che è nei fatti, un problema gestibile che potrebbe come non potrebbe presentarsi entro la fine dell’anno. La copertura data dai media è stata l’elemento scatenante per Robert Bowers, un camionista solitario che abita a sud di Pittsburgh. Bowers pensa che Trump sia troppo sottomesso agli ebrei, anzi ai “kike” come li chiama lui. “Non ho mai votato per Trump, non ho mai avuto un berretto Maga”, scriveva su una piattaforma social di destra estrema. Quattro giorni prima di attaccare aveva pubblicato una vignetta molto eloquente: un uomo indeciso davanti al bivio della politica non sa se andare a destra oppure a sinistra ma non vede che è una falsa scelta, è un’illusione, entrambe le direzioni portano infine allo Zog, che è la sigla del “governo di occupazione sionista”.

 

“Kike” è un termine gergale per insultare gli ebrei e la sua origine non è chiara. Una versione dice che è dovuto alla sillaba finale “ky” così comune nei nomi dell’est Europa, da dove provenivano molti degli ebrei arrivati in America. Un’altra dice che kike era il nome (storpiato) del cerchietto tracciato sui registri dagli ebrei che sbarcavano a Ellis Island perché non sapevano scrivere in caratteri latini e perché non volevano mettere una X, troppo simile a una croce cristiana. Lo stragista Bowers è pazzo furioso con le organizzazioni di volontari che aiutano i migranti e tra quelle una è la HIAS, la Hebrew Immigrant Aid Society, creata nel 1861 per aiutare i rifugiati ebrei in America e poi diventata una ong che aiuta tutti senza distinzioni. “Alla HIAS piace importare gli invasori che uccidono la nostra gente. Non posso starmene seduto da una parte mentre la mia gente è massacrata. Fanculo alle apparenze, io entro in azione”, scrive sul social. Fanculo alle apparenze è una mia traduzione approssimativa di “screw your optics”, che in inglese suona molto più preciso: “Fanculo al modo in cui voi vedete le cose”. E’ la caratteristica dominante dei gruppi dell’estremismo razzista. Credono di avere un punto di vista unico e privilegiato e censurato dai media: “Voi non avete ancora capito, noi invece abbiamo capito cosa sta succedendo”. Bowers esce a uccidere ebrei perché a quel punto nella sua mente sparare a una donna di 97 anni che il sabato mattina prega in una sinagoga equivale a frenare l’emergenza immigrazione che secondo lui minaccia i bianchi americani.

 

“‘Complotto pluto-giudaico-massonico’ era troppo lungo, per questo nell’era dei social si è imposto il bisillabo ‘Soros’”, hanno scritto a inizio 2017 quelli della Wu Ming Foundation (che di solito non sono citati molto sul Foglio, ma in tempi di neonazismo stragista si recupera tutto). E’ una definizione perfetta. George Soros è un magnate ungherese ebreo di medio livello sfuggito a nazismo e comunismo che dona soldi a progetti di beneficenza ispirati all’opera del filosofo tedesco Karl Popper, che predicava trasparenza e tolleranza. Da qualche anno la propaganda lo ha trasformato in una figura d’odio, il grande burattinaio ebreo. In questi giorni per esempio sui social media trovate una falsa foto di una SS nazista, dicono che sia Soros ma in realtà lui durante la Seconda guerra mondiale aveva nove anni e la foto è di un tale Oskar Groening. Il bisillabo “Soros” evita alla destra radicale americana e anche a molti sovranisti in Italia l’incomodo di dire “ebrei”, ma evoca l’idea sempre seducente di un grande complotto finanziario ed elitista. Hai un avversario che non sai come liquidare? Si tratta di certo di qualcuno “pagato da Soros”. La gente scende in piazza contro di te e la tua linea politica? “Sono manifestanti pagati da Soros”.

 

Il fischietto per cani funziona anche per omissione. Nell’agosto 2016 i gruppi di estrema destra organizzarono una marcia a Charlottesville in Virginia per protestare contro la rimozione di una statua in memoria di un generale della Confederazione (che quindi combatteva per il lato schiavista). I temi erano quelli del nazionalismo bianco: uno degli slogan cantato dai portatori di fiaccola era “You won’t replace us”, non ci sostituirete – che era ovviamente rivolto dai bianchi alle “altre etnie”. A un certo punto lo slogan si trasformò per facile assonanza in “Jews won’t replace us”, gli ebrei non ci sostituiranno. Un altro slogan usato era “Blood and soil”, traduzione inglese di Blut und boten, sangue e suolo, una formula giuridica tedesca per indicare i criteri che definiscono la nazionalità tedesca che fu poi usata così tanto dai nazisti da diventare un loro motto. A Charlottesville in quei due giorni arrivarono anche molti manifestanti che protestavano contro la presenza così aperta dell’estrema destra. Il giorno dopo un fanatico appartenente ai gruppi nazionalisti lanciò la sua macchina a tutta velocità contro un corteo di persone che manifestavano contro, uccise una donna e ferì molti altri. Trump disse che “there were fine people on both sides”, “c’erano brave persone da entrambi i lati”.

 

Una volta che il discorso pubblico è inquinato così, è difficile scampare. Tutto è un’allusione, tutto rimanda a uno schema per iniziati, tutto fa brodo nel calderone. A metà 2016 risale la diffusione dell’uso delle tre parentesi nella propaganda della destra estrema. Le tre parentesi erano utilizzate per racchiudere i nomi degli ebrei e quindi sottolineare il fatto che prima di tutto fossero ebrei. Per esempio se i fanatici dovevano scrivere che il regista Steven Spielberg aveva incontrato l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg scrivevano (((Spielberg))) e (((Bloomberg))). Qualcuno programmò persino un’estensione di Google (le estensioni sono software che personalizzano software già esistenti) per mettere sempre le tre parentesi in automatico attorno ai nomi ebrei. Leggevi un qualsiasi pezzo su internet e il computer ti metteva le tre parentesi attorno ai nomi ebrei. In quel modo qualsiasi articolo sui soggetti più svariati – gossip di Hollywood, finanza, politica – che menzionasse un nome ebreo prendeva subito un colore complottista: vedete? Sono dappertutto. Google rimosse quell’estensione ma il concetto c’entra molto con quello che stiamo dicendo sul fischietto per cani. Quando credi nei complotti anche un articolo sul cinema del New York Times, il giornale dei liberal newyorchesi, può diventare antisemita. Figuriamoci quando i testi sono scritti apposta per spargere allusioni antisemite, in quella galassia di siti e contrositi che ha fiancheggiato l’ascesa di Donald Trump alla Casa Bianca.

 

C’è un problema ulteriore ed è che di recente i fischietti per cani sono stati sostituiti da megafoni. Giovedì, due giorni prima della strage, Fox news ha invitato un ospite (Chris Farrell) a parlare della carovana dei migranti e quello ha citato il “Soros occupied State Department”: “il dipartimento di Stato occupato da Soros”, che assomiglia molto al Zog che abbiamo già incontrato, il “governo di occupazione sionista”. Non c’è ovviamente alcun fondamento per dire che un dipartimento del governo americano guidato da Trump sia controllato per qualche motivo da George Soros. Fox ha trasmesso una replica della trasmissione anche sabato, ma ieri ha realizzato l’errore e si è scusata.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)