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Ci stiamo giocando Schengen per un'emergenza che non c'è

Paola Peduzzi e Daniele Raineri

Se non chiediamo nuove regole sui migranti agli altri paesi europei, torneranno le file alla dogana per tutti

Roma. Stiamo per smontare il sistema di libera circolazione di Schengen per colpa di una “emergenza immigrazione” che ha avuto il suo picco nel 2015 e 2016 e che ora non c’è più, come si vede dai dati che riportiamo più avanti. Se il governo italiano continua su questa linea dura di contrapposizione che sarebbe evitabile molto facilmente e senza danni, i confini interni tra paesi europei che ci eravamo abituati a ignorare dovranno essere rimessi in funzione. Il bello del passaporto europeo era poter andare dal Portogallo alla Polonia e dalla Norvegia alla Sicilia quasi senza accorgersi del passaggio da stato a stato, ma questa facilità potrebbe diventare una cosa del passato.

   

Primo punto: non siamo di fronte a un’emergenza. Secondo i dati del Viminale aggiornati a oggi, nel 2018 sono arrivati 16.228 migranti, di cui 11.288 provenienti dalla Libia. Nello stesso periodo del 2016, ne arrivarono 52.329 (-71,19 per cento), nel 2017 ne arrivarono 71.218 (-77,44 per cento). Per quanto riguarda la quota di migranti provenienti dalla Libia, il calo di arrivi è ancora più consistente: -79,96 rispetto al 2016, -83,67 per cento rispetto al 2017. Secondo i dati Eurostat aggiornati al marzo del 2018, in tutta Europa c’è stato un calo del 46 per cento di domande di richiesta asilo tra il 2016 e il 2017 (si è passati da 1.206.220 richieste a 649.855): nella Germania dell’accoglienza, nel 2016 ci sono state 722.265 richieste di asilo, nel 2017 il 73 per cento in meno (198.255 richieste di asilo). In Italia questo calo non c’è stato: tutti i migranti che arrivano di fatto chiedono protezione. Ma Eurostat mette in prospettiva questo numero con il totale della popolazione, calcolando l’impatto sociale dell’integrazione in percentuale sul numero di abitanti di ogni paese: in Italia ci sono 2.089 richieste ogni milione di abitanti; in Grecia, che nel 2017 ha avuto 57 mila richieste d’asilo, in aumento del 14 per cento rispetto all’anno precedente, la proporzione è più che doppia: 5.295 richieste per ogni milione di abitante. Anche per la Germania la proporzione è più alta di quella italiana – 2.400 richieste per ogni milione di abitanti – e la Germania guida la classifica delle richieste d’asilo: ne assorbe il 30 per cento, a livello europeo, l’Italia il 19,5 per cento (la Francia il 14). Gli alleati privilegiati dell’Italia sono quelli in cui le richieste sono poche in percentuale: l’Ungheria ha registrato un calo dell’89 per cento di richieste (318 per ogni milione di abitante) e contribuisce per lo 0,05 per cento alle richieste dell’Ue.

   

L’Italia gialloverde non ha voluto percorrere la strada delle quote obbligatorie. Nel 2015, è entrato in funzione il meccanismo di ricollocazione, che esprime il principio di solidarietà introdotto nel dibattito europeo sull’immigrazione: non possono essere soltanto i paesi di primo approdo a farsi carico della gestione dei migranti.

   

La ricollocazione riguardava circa 160 mila richiedenti asilo provenienti da Italia e Grecia: la Germania, secondo i dati della Commissione europea, ne ha presi più di 10 mila, la Francia circa 5 mila (in gran parte dalla Grecia, soltanto 635 dall’Italia), la Finlandia quasi 2.000, l’Irlanda circa 1.000 (solo dalla Grecia) come il Belgio, gli altri poco o niente. Ungheria e Danimarca detengono il record di assenza di solidarietà: zero dall’Italia e zero dalla Grecia. Il sistema delle quote obbligatorie era stato approvato al Parlamento europeo alla fine del 2017 in una bozza (bocciata dal M5s e dalla Lega) che poi è passata al Consiglio europeo, dove è stata bloccata dai paesi dell’est, guidati dall’Ungheria, partner privilegiato di Matteo Salvini.

  

La questione degli alleati è rilevante in questo momento: se si vuole aiuto dall’Europa è bene parlare con chi questo aiuto può fornirlo. Matteo Salvini in Germania guarda a Horst Seehofer, ministro dell’Interno e della Csu, che fa molta pressione su Angela Merkel affinché stabilisca una regola potenzialmente molto dannosa per l’Italia: i migranti sparsi in giro per l’Europa devono tornare al paese in cui sono stati registrati per la prima volta. Poiché l’Italia è ovviamente un paese di primo approdo e la Germania no, vuol dire che la polizia tedesca potrebbe rispedire verso l’Italia una quota di migranti e sbarrare loro il passaggio tra Italia e Germania. Se arrivi in Italia, stai in Italia. La Corte europea in realtà dice che non si possono fare respingimenti automatici alle frontiere intraeuropee, ma nessuno la ascolta e soprattutto non la ascolta Seehofer, che a ottobre ha le elezioni in Baviera e vuole fare punteggio con la lotta ai migranti. Per esempio, oggi la Welt ha scoperto che gonfia il numero delle richieste di asilo contando anche i migranti che hanno detto di volerla fare ma che non l’hanno mai effettivamente fatta. Questo gli consente di mascherare il fatto che a maggio per la prima volta dal picco del 2015/2016 le domande di richiesta d’asilo in Germania sono calate sotto la soglia psicologica delle diecimila. Ma Seehofer preferisce tenere il numero più alto, a 13 mila circa, e dice che “dopo l’estate potrebbe aumentare”. E’ evidente che la via che vuole percorrere il ministro tedesco non ha punti di convergenza con le esigenze italiane, e se si iniziasse a percorrerla il rischio della chiusura delle frontiere interne diventerebbe molto alto: ma l’Italia non ci guadagna granché se saltano le regole di Schengen, al contrario.

   

Sulle frontiere esterne invece sembra che ci sia molto più margine di manovra. Tra le proposte italiane condivise a livello europeo c’è il maggiore investimento sulla guardia costiera europea. Uno sviluppo di Frontex – in termini di uomini e di fondi – permetterebbe un lavoro comunitario sulle migrazioni via mare e anche il contenimento del “problema” delle navi nordiche delle ong che ancora oggi hanno fatto infuriare il ministro dell’Interno, che ha detto alla ong Lifeline, con a bordo 224 migranti salvati in mare, di “fare il giro lungo” e di portare il suo “carico umano” in Olanda. Secondo il ministro delle infrastrutture, Danilo Toninelli, la ong non ha collaborato con la guardia costiera libica e ha voluto salvare i migranti, con l’obiettivo di portarli – come prevede la convenzione di Amburgo del 1979 – nel “porto sicuro” più vicino – per sicuro si intende il porto in cui si può gestire lo sbarco e c’è un rispetto dei diritti umani. Questa ingerenza delle ong nelle operazioni di soccorso è per Salvini inaccettabile: “Nessuna nave delle ong sbarcherà mai più nei porti italiani”, ha detto oggi. Poi però i migranti sono arrivati in Italia: l’Olanda ha detto che Lifeline batte bandiera olandese in modo illegale e non è riconosciuta dalla marina olandese, così il ministro Toninelli ha annunciato che lo sbarco sarà fatto in Italia e che la nave sarà messa sotto sequestro.

  

Le operazioni delle ong hanno causato molte diatribe anche per i governi precedenti a quello attuale, ma una delle accuse principali, cioè che esista una collaborazione tra le ong e i trafficanti di uomini (il reato indagato è di associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina), è stata smentita dalla procura di Palermo due giorni fa, che ha deciso l’archiviazione di un’indagine contro ignoti aperta nel maggio del 2017. L’iniziativa delle ong, che preferiscono traghettare migranti naufragati nei porti europei piuttosto che in quelli libici per evidenti ragioni di sicurezza, deriva anche da un vuoto legislativo che riguarda la Libia, che non ha una propria zona di salvataggio (search and rescue, la cosiddetta Sar) riconosciuta a livello internazionale. Questo ha un impatto diretto anche sulle attività della guardia costiera europea e sulle sue operazioni di salvataggio al largo della Libia: al momento le regole di ingaggio di Frontex prevedono che i migranti salvati in mare siano trasportati nei porti più sicuri e più vicini, ed è il motivo per cui l’investimento su Frontex di per sé non è mai stato visto di buon occhio dall’Italia: significa maggiore responsabilità per i paesi di primo approdo.

  

E’ per questo che Frontex senza gli hotspot non ha molta attrattività. Mettere in piedi un apparato di sorveglianza dei mari da diecimila uomini – la guardia costiera Ue – non ha senso in questo contesto di scontro tra governi europei se non ci sono centri di raccolta fuori dai confini dove portare i migranti che tentano la traversata. Altrimenti tanto valeva lasciare le ong a fare il loro lavoro di soccorso in mare e lasciare che portassero i migranti verso i porti italiani. Ma creare questi cosiddetti hotspot non è una faccenda banale. Chi propone di farli in Libia dovrebbe considerare che è un paese molto instabile. Chi propone di farli in Tunisia, Egitto o Kosovo dovrebbe prima essere sicuro che quei paesi accetterebbero, e non è affatto sicuro. L’unico modello funzionante finora è quello dei campi per i profughi siriani in Turchia, ma in molti casi i siriani sono a meno di cento chilometri dalle loro case in Siria, sono in una situazione diversa rispetto alla babele di migranti che s’affaccia sulla costa del mediterraneo. Inoltre il governo Erdogan è molto organizzato.

  

La strada intrapresa dall’Italia, per un’emergenza che non c’è, porta a due conseguenze: la prima è il pericolo che, minacciando azioni unilaterali, salti Schengen. La seconda è che il continente si avvii sulla strada dei respingimenti.

  

I “respingimenti assistiti” comparivano nel programma della coalizione di centro-destra presentato per le elezioni del 4 marzo, al capitolo “Sicurezza”, e prevedono di fatto che le navi militari italiane e le flotte di Frontex consegnino i migranti soccorsi in mare alla guardia costiera libica che li riporterebbe in Libia, dove le agenzie dell’Onu si occuperebbero del rimpatrio nei paesi d’origine (cosa che già fanno). In questo modo, i porti italiani ed europei sarebbero di fatto chiusi ai migranti. A oggi i respingimenti sono illegali, sempre perché il salvataggio in mare prevede che il riaccompagnamento sia fatto in porti giudicati sicuri, e questa garanzia non c’è nella grande maggioranza di porti extraeuropei. Secondo il piano italiano, la creazione di hotspot monitorati da istituzioni internazionali oltre che dall’Europa permetterebbe di risolvere la questione sicurezza, sulla falsariga di quel che è accaduto con il contestatissimo accordo con la Turchia. Devono però anche cambiare le regole di ingaggio di Frontex: il negoziato sulla guardia costiera europea non si limita al riconoscimento, che vuole l’Italia, del confine italiano come confine europeo, ma alla creazione di un nuovo sistema di accoglienza extraeuropeo. Sarebbe la nostra versione del modello australiano, che come si è detto molte volte è di difficile applicazione nel Mediterraneo perché è necessario stringere accordi con i paesi in cui vengono riportate le navi intercettate (o i migranti salvati) e costruire dei centri in cui ci sia personale qualificato a fare i controlli, valutare le richieste di protezione ed eseguire i rimpatri. C’è poi una questione di costi: l’Australia ha un flusso immigratorio molto inferiore a quello europeo, ma il Parlamento, dal 2013 quando è stato introdotto il modello, ha stanziato 400 milioni di dollari l’anno per la gestione di recuperi e salvataggi in mare, mentre il costo complessivo – compresi i costi di gestione dei centri di riconoscimento e controlli – s’aggira attorno a due miliardi ogni anno. L’Italia vuole “cambiare il paradigma” delle relazioni con l’Europa e della gestione dell’immigrazione, ma per farlo serve un negoziato, altrimenti ci si vede tutti alla dogana, e rispettate la fila.

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