Immagini composite di Europa, Asia e Africa di notte prese da un nuovo satellite Nasa (NASA Earth Observatory)

Nè con Salvini né con Saviano

Giulio Meotti

Accogliere senza freni è una pazzia. Ma trasformare l’Europa in una fortezza non funziona. Con il grande esodo, serve un nuovo protettorato in Africa. Il gran saggio dello studioso progressista che sussurra a Macron

Roma. “Siamo di fronte a un fenomeno migratorio senza precedenti” ha detto Emmanuel Macron qualche settimana fa nell’intervista con Edwy Plenel. Un fenomeno che secondo il presidente francese è “descritto tremendamente bene” da Stephen Smith nel suo libro appena pubblicato da Grasset, La Ruée vers l’Europe. Sottotitolo: “La giovane Africa sulla strada per il Vecchio continente”. In copertina, la notte buia del continente africano e quella illuminata dell’Eldorado europeo. Già analista per le Nazioni Unite e l’International Crisis Group, Smith è stato a lungo l’africanista di Libération e le Monde e adesso insegna in America alla Duke University.

   

Nel suo romanzo del 1972 “Il campo dei santi”, Jean Raspail immaginava l’immigrazione che travolgeva l’Europa. La scelta, scrisse lo scrittore reazionario e monarchico, era fra “scatenare un massacro per salvare una civiltà o perdere quella civiltà”. “C’è chi ha paura di perdere l'‘anima’, altri vogliono dimostrare di averne una” scrive Smith, che vuole invece “demoralizzare” il dibattito sull’immigrazione. “Non si tratta di scegliere tra il bene e il male, ma di governare la città nell’interesse dei cittadini”. Il nazionalismo per lui fa il paio con l’“uomo senza qualità” propugnato dall’“irenismo umanitario”. Spiega che “la giovane Africa correrà verso il Vecchio continente, è inscritto nell’ordine delle cose, così come lo fu, alla fine del XIX secolo, la corsa dell’Europa verso l’Africa”. L’Africa di Smith “non è un paese da cartolina dappertutto arretrato. E’ un continente povero, certamente, ma penetrato dalla modernità e da luoghi che funzionano come un palcoscenico, prima tappa del grande esodo”. Qui Smith sfata un mito di sinistra: non partono perché poveri, partono perché stanno emergendo da quella povertà. “I più poveri non possono permettersi di emigrare, non ci pensano nemmeno, impegnati a sbarcare il lunario”.

   

L’Africa è a un punto di svolta e le due principali condizioni dell’esodo verso l’Europa sono soddisfatte. “La prima è l’attraversamento di una soglia di prosperità minima per una massa critica di africani in un contesto di persistente diseguaglianza tra l’Africa e l’Europa; il secondo è l’esistenza di comunità diasporiche che costituiscono le teste di ponte dall’altra parte del Mediterraneo”.

  

Gli aiuti occidentali all’Africa? “Un premio per la migrazione. Così facendo, i paesi ricchi si sparano sui piedi”. “Nel 1900, un quarto della popolazione mondiale era europea” scrive Smith. Nel 2050, tale quota sarà il 7 per cento, “con quasi un terzo che avrà più di 65 anni”. Oggi vivono nell’Unione europea 510 milioni di persone, a fronte di 1,3 miliardi di africani. “In trentacinque anni ci saranno 450 milioni di europei per 2,5 miliardi di africani, cinque volte di più”, prevede Smith. Lo “choc migratorio” è inevitabile. Che fare, si chiedeva Lenin?

  

“Il Maghreb sta stabilizzando la demografia e completando la trasformazione” scrive Stephen Smith nel suo libro La Ruée vers l’Europe. “Non l’Africa subsahariana. Ieri erano senza mezzi per emigrare, ora le sue masse sulla soglia della prosperità sono sulla strada per il ‘paradiso’ dell’Europa”.

  

E’ la partenza a cascata. “Li porterà dal villaggio alla città più vicina, dalla città di provincia alla capitale, dalla capitale nazionale alla metropoli regionale e, infine, all’estero, oltre i mari, in Europa. Questo movimento è il cuore pulsante della gioventù africana che va sempre oltre. Per citare Aimé Césaire, ‘la gioventù nera volta le spalle alla tribù dei vecchi’. Fece questa osservazione nel 1935, quando l’Africa - dal punto di vista demografico - iniziò a partire”.

  

Per l’Europa, scrive Smith, è impensabile continuare ad accogliere senza freni. “Tra il 1975 e il 2010, venti milioni di messicani sono entrati negli Stati Uniti; con i loro figli, ora rappresentano il dieci per cento della popolazione americana. Se la migrazione africana seguisse il modello messicano, ci troveremo in questo ordine di grandezza: da 150 a 200 milioni di afro-europei entro il 2050”. Il guadagno in termini di contributi pensionistici non compenserebbe i costi dell’immigrazione in termini di coesione, cultura, sicurezza. “Certo, i migranti adulti entrerebbero nella forza lavoro e contribuirebbero a finanziare il sistema pensionistico, ma, date le loro famiglie, che sono, in media, più numerose, il guadagno sarebbe compensato dal costo per educare, formare e prendersi cura dei bambini”. Sarebbe la fine dello stato sociale. “Sarebbe la guerra di tutti contro tutti in una società senza un minimo di codice comune”. Questo è lo scenario che Smith chiama “Eurafrica”. Inaccettabile. Poi c’è l’alternativa della “Fortezza Europa”, anche questo irrealistica, anche “se ha più possibilità di successo”. “Ma le dighe che possono essere erette non saranno sufficienti a fermare le molte onde che ci attendono”. C’è la terza opzione.

  

Il “ritorno al protettorato”. Rifarsi carico dell’Africa, come pagare i governanti africani per fermare le migrazioni e chiudere un occhio sulle violazioni e conseguenze interne, che quasi sempre non superano l’esame del nostro umanitarismo, che ne uscirà comunque suicida o sconfitto.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.