“We're America, bitch”. Se c'è un piano per distruggere l'occidente, Trump l'ha messo in atto

I profeti dell’apocalisse occidentale hanno immaginato o preconizzato il tramonto della civiltà costruita sui pilastri liberali. Ora sembra che l’esecutore materiale esista e abbia il volto arancione del presidente americano

New York. Da Oswald Spengler a James Burnham passando per Jonah Goldberg, che ha intitolato il suo ultimo libro Suicide of the West, come quello scritto dal cofondatore della National Review nel 1964, i profeti dell’apocalisse occidentale hanno immaginato o preconizzato il tramonto della civiltà costruita sui pilastri liberali nella forma dell’autodistruzione, del cupio dissolvi, del languore e del suicidio. Il racconto del processo di decomposizione non prevedeva un esecutore materiale del delitto perfetto. L’inimicizia a suon di dazi dichiarata agli alleati europei, culminata in un G7 che rimarrà nella storia per una foto che ritrae plasticamente la crepa nell’ordine mondiale e per la (postuma) escalation di insulti di Donald Trump al primo ministro canadese, Justin Trudeau, suggerisce invece che l’esecutore materiale esista e abbia il volto arancione del presidente americano, che in teoria dovrebbe essere il garante solenne dell’ordine in questione.

 

Trump coltiva davvero l’intento esplicito, cosciente di distruggere l’occidente così come lo conosciamo dal dopoguerra in poi? Gli osservatori più acuti hanno imparato tempo fa che tentare di distinguere gli intenti dagli istinti è inutile più che impossibile, ma sul New York Times David Leonhardt nota che i passi per tentare di scardinare l’impianto occidentale sono simili a quelli che sta facendo Trump, quale che sia la consapevolezza o la chiarezza strategica dell’interessato: “Se un presidente degli Stati Uniti dovesse delineare un piano segreto e dettagliato per distruggere l’alleanza Atlantica, sarebbe incredibilmente simile al comportamento di Trump”.

 

Il piano prevederebbe esibizioni di “esplicita ostilità nei confronti dei leader di Canada, Inghilterra, Francia, Germania e Giappone. Nello specifico, si tratterebbe di creare scontri su questioni artefatte, non per ottenere concessioni per l’America ma per creare un conflitto fine a se stesso”. Le inesistenti tariffe doganali sbandierate dal presidente per spacciarsi come vittima del disatteso principio di reciprocità sono il perfetto esempio in questione.

 

In seconda battuta si tratterebbe di “trovare nuovi alleati per rimpiazzare quelli estromessi”, e la Russia – che nel mentre rafforza il rapporto con la Cina – è l’approdo ovvio di un’America postatlantica. La nomina di Trump “impiegato dell’anno” del Cremlino è soltanto un pezzo di satira di Andy Borowitz, ma il geniale commentatore del New Yorker infonde le sue iperboli con brandelli di verità. L’ultima parte del piano prevede di “immischiarsi nella politica degli altri paesi per installare nuovi governi che a loro volta rifiutano la vecchia alleanza”. In questo senso l’abbraccio con Giuseppe Conte sul reintegro nella Russia nel G8 e la fotografia trionfante che ha immortalato i due, un gesto non da poco per un leader che ragiona esclusivamente per immagini, ha illustrato l’interesse per il reclutamento di democrazie che mettono discussione il paradigma occidentale. Il G7 in cui l’America si è anche smarcata dalla dichiarazione congiunta è stato una sintesi diplomatica del conflitto in corso.

 

David Frum sull’Atlantic ha notato anche che la guerra di Trump contro le democrazie è un conlfitto obliquo, indecifrabile, fatto di attacchi a scoppio ritardato. Il summit in Canada si è svolto con una tensione a bassa intensità, ma quando è salito sull’Air Force One qualcosa ha fatto scattare la rabbia del leader, che ha scatenato tutta la sua potenza di cinguettio contro Trudeau, le ingiustizie dei trattati commerciali, l’inutilità di "un altro G7 in cui gli altri paesi si aspettano che l’America sarà sempre la loro banca", come ha scritto il consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton. Che l’aereo presidenziale lo portasse a Singapore a incontrare, senza garanzie né precondizioni, il capo della dittatura più paranoica del pianeta rende ancora più velenosi i messaggi, che non sono indirizzati a questo o quel capo di stato, ma all’occidente intero.

 

Jeffrey Goldberg, direttore dell’Atlantic che con pazienza e intelligenza ha cercato per anni di definire la dottrina Obama in politica estera, si è imbarcato nello stesso progetto per afferrare quella del suo successore. Ha raccolto i risultati preliminari sotto tre slogan. Il primo è un motto isolazionista: “Nessun amico, nessuno nemico”; il secondo è un inno alla strategia della confusione: “La destabilizzazione permanente crea un vantaggio per l’America”. Ma è il terzo slogan, offerto da un anonimo consigliere della Casa Bianca, che spiega meglio di tutti con quale spirito Trump si muove spedito verso la distruzione del sistema di valori e alleanze che un tempo si chiamava occidente: “We’re America, bitch”.

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