Donald Trump e Kim Jong-un (foto LaPresse)

L'accordo di Trump è “weak” in confronto a quelli dei predecessori

Eugenio Cau

Clinton nel 1994 e Bush nel 2005 avevano già strappato a Pyongyang promesse migliori. Non ha funzionato niente

Roma. Kim Jong-un ha cercato di convincere Donald Trump che il loro incontro è materia di “film di fantascienza”, un evento così impensabile da costituire un unicum storico. E’ vero: è la prima volta che un presidente americano in carica stringe la mano a un dittatore nordcoreano della dinastia Kim – alcuni dei predecessori di Trump erano stati invitati a fare lo stesso, ma avevano rifiutato. Ma al di là del coreografico e del simbolico, i passi concreti fatti verso la denuclearizzazione sono un déjà-vu nella storia delle relazioni tra Stati Uniti e Corea del nord. Quello siglato da Trump e Kim non è il primo accordo di massima stipulato per disinnescare la minaccia nucleare nordcoreana: nel 1994 Bill Clinton firmò un accordo simile e nel 2005 George W. Bush fece lo stesso. Non solo: secondo molti esperti, tanto Clinton quanto Bush erano riusciti a ottenere concessioni più rilevanti dal regime di Pyongyang di quanto non abbia fatto l’artista del deal Donald Trump.

 

L’accordo siglato martedì a Singapore impegna la Corea del nord a “lavorare per raggiungere l’obiettivo della completa denuclearizzazione della penisola coreana”. L’aggettivo “completa” può sembrare forte, ma quello che lo precede – “lavorare per raggiungere” – indica che Kim non ha davvero promesso la denuclearizzazione: ci lavorerà e vedrà cosa si può fare. Inoltre, la definizione di “denuclearizzazione della penisola coreana è ambigua, ed è spesso stata usata da Pyongyang per pretendere l’eliminazione della presenza militare americana in Corea del sud – cosa che Trump, parlando in conferenza stampa con i giornalisti, non ha escluso. L’accordo, inoltre, non parla di verificare come questa denuclearizzazione sarà svolta, non cita i diritti umani né il programma missilistico nordcoreano – non c’è stato il tempo per i dettagli, ha detto Trump. Ancora il mese scorso, il dipartimento di stato americano diceva che la dottrina dell’Amministrazione sulla Corea del nord si riassumeva nell’acronimo CVID: “completa, verificabile, irreversibile denuclearizzazione”. Poco di questa durezza sembra essere rimasto nel vago documento di Singapore.

 

L’accordo stipulato con l’Amministrazione Clinton nel 1994 fu il risultato di un colpo di mano simile a quello degli scorsi mesi: i negoziati cominciati nel 1992 tra Stati Uniti e Corea del nord stavano per fallire, Clinton era sul punto di ordinare l’evacuazione di tutti i cittadini americani dall’intera penisola e stava preparando piani di guerra, quando l’ex presidente Jimmy Carter volò a Pyongyang quasi di sorpresa per incontrare Kim Il-sung, il nonno dell’attuale dittatore. L’accordo che ne derivò, il cosiddetto “Agreed Framework”, era piuttosto dettagliato: Pyongyang accettava di smantellare i propri reattori moderati a grafite e di far entrare gli ispettori internazionali nelle sue strutture; in cambio, gli Stati Uniti promisero di costruire per i coreani due reattori ad acqua leggera, molto meno pericolosi in termini di proliferazione, e di sostenere l’economia con spedizioni di petrolio. L’accordo fallì a causa della ritrosìa del Congresso, ma soprattutto perché Pyongyang, nonostante le promesse, non smise mai di lavorare segretamente alla Bomba.

 

Davanti a un precedente simile, quando nel 2003 ripresero i contatti per un nuovo tentativo di accordo, l’Amministrazione Bush ottenne, in quello che fu il comunicato finale dei cosiddetti Dialoghi a sei siglato nel 2005 (parteciparono anche Corea del sud, Cina, Giappone, Russia), concessioni del tipo: “La Corea del nord si impegna ad abbandonare tutte le armi nucleari e i programmi nucleari esistenti”. La denuclearizzazione doveva essere “verificabile”. Pyongyang si era impegnata a rientrare “nel Trattato di non proliferazione nucleare e sotto le tutele dell’Aiea”. L’accordo era stato pensato in modo che non ci fossero immediatamente concessioni esagerate, ma sulla base di un sistema di “promessa per promessa, azione per azione”. Insomma: nel 2005 Bush aveva ottenuto molto di più dalla sua controparte rispetto alle promesse fatte da Kim a Trump.

 

Eppure, anche questo accordo fallì, in parte per il sabotaggio dei falchi dell’Amministrazione (c’era John Bolton tra loro) e in parte perché Pyongyang non aveva mai avuto intenzione di chiudere il suo programma nucleare, e pochi mesi dopo la firma già testava nuovi missili balistici. Intorno a questi due capisaldi nei rapporti bilaterali (Clinton 1994 e Bush 2005), molti altri comunicati, dichiarazioni, deliberazioni hanno predicato la denuclearizzazione e sono falliti. E’ da trent’anni che gli Stati Uniti ricevono promesse da Pyongyang, e sono state tutte più dettagliate e vincolanti di quella ottenuta da Trump. Allora cosa rende il presidente americano così certo del suo successo? Si fida del dittatore nordcoreano. E se si sbagliasse?, ha chiesto un giornalista martedì in conferenza stampa. “Potrei sbagliarmi. Cioè, potrei trovarmi di fronte a voi tra sei mesi e dire, ‘Ehi, mi sbagliavo’”, ha detto Trump. “Ma non penso che lo ammetterò mai, farò in modo di trovare qualche scusa”.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.