Il tavolo negoziale tra Corea del nord e Stati Uniti a Singapore (foto LaPresse)

Trump si vuole fidare di Kim ma l'accordo tra i due è tutto sbilanciato

Giulia Pompili

L’America riconosce ufficialmente la Corea del nord e legittima il giovane dittatore. Poco o nulla in cambio

Roma. Pochi minuti dopo le 9 del mattino di martedì, la stretta di mano tra il leader nordcoreano Kim Jong-un e il presidente americano Donald Trump al Capella Resort di Sentosa, a Singapore, ha dato il via allo show mediatico “più importante del secolo”. Almeno così ha titolato Arirang, la principale emittente sudcoreana, che ha dato l’evento in diretta a differenza del Nord, che è arrivato con un bel po’ di ore di ritardo. Per la prima volta un presidente in carica e il leader di una nazione che da sessant’anni fonda la sua politica estera sulla retorica antiamericana si sono incontrati, dopo un anno – il 2017 – in cui le tensioni fra Trump e Kim erano arrivate ai massimi livelli. Si sono stretti la mano e si sono capiti subito, a sentir parlare Trump. Il “little rocket man” e il “vecchio rimbambito”, come si erano soprannominati, di persona si sono scambiati sorrisi, chiacchiere sul maiale in agrodolce (niente hamburger, come auspicato dal tycoon tempo fa), pacche sulle spalle osservando The Beast, l’auto del presidente che ha affascinato Kim. I due sono stati 45 minuti da soli, accompagnati esclusivamente dagli interpreti, riunione seguita dal meeting con lo staff, un pranzo di lavoro, e un’altra passeggiata amichevole nel resort, di nuovo da soli. Al momento del primo incontro, però, tra il pubblico non si è avvertita la stessa emozione dell’altro incontro storico di un mese e mezzo fa, quello sul 38° parallelo, tra Kim Jong-un e il presidente sudcoreano Moon Jae-in. E uno dei motivi è che martedì la Casa Bianca ha deciso, contraddicendo decenni di teoria diplomatica e di relazioni internazionali, di riconoscere formalmente la Corea del nord come stato sovrano: Trump e Kim si sono stretti la mano davanti alle bandiere americane e nordcoreane, messe vicine come prevede il cerimoniale di un incontro bilaterale con qualunque altro capo di stato. Il problema è che la Corea del nord è lo stesso paese che sei mesi fa Trump aveva fatto reinserire nella lista degli stati sponsor del terrorismo, e le giravolte del presidente sul dossier hanno reso meno definitiva la stretta di mano, almeno agli occhi della comunità occidentale. Da nemico pubblico numero uno, sembra che nel giro di una mattinata il dittatore della Corea del nord si sia trasformato nel migliore amico dell’America, quello di cui fidarsi. Un anno fa lo stesso Trump minacciava tremenda vendetta dopo la morte misteriosa dello studente americano Otto Warmbier, che era stato arrestato a Pyongyang.

 

La dichiarazione congiunta finale dei due leader non è molto diversa da quelle firmate in passato tra Washington e Pyongyang – dichiarazioni poi puntualmente disattese. Oggi però le cose sono diverse, ed è su questi fattori che Trump sta scommettendo: la Cina, che sostiene Pyongyang, è la seconda economia del mondo e quindi molto influente, in Corea del sud Moon si è impegnato a costruire un dialogo distensivo, Kim Jong-un è molto più simile a suo nonno Kim Il-sung piuttosto che a suo padre Kim Jong-il. Eppure una domanda resta in sospeso: dobbiamo fidarci? Finora chi ha guadagnato di più dalla giornata di martedì è la Corea del nord. Ha avuto la legittimazione internazionale nonostante si sia trasformata, negli ultimi anni, in una potenza nucleare. E proprio sul tema cruciale della denuclearizzazione i risultati sono vaghi. Trump ha detto che servirà tempo, eppure quando abbiamo discusso il deal iraniano, l’immediatezza e la verifica erano alla base delle trattative: alla Corea del nord non le abbiamo nemmeno chieste. Finita la cerimonia mediatica fatta di fotografie storiche e mani tese, di frasi propositive e di video da reality show – come quello mostrato sull’iPad da Trump a Kim, su un futuro radioso della Corea del nord denuclearizzata senza sanzioni economiche e in pieno progresso tecnologico – di spiagge bellissime piene di alberghi costruiti da Trump. Finito lo show, non restano che i dettagli, dove di solito il diavolo nasconde la sua coda.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.