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Deal che non lo erano

Giulia Pompili

Il presidente Trump dice che i negoziati con la Corea del nord vanno alla grande, e replica il “fire and fury” con l’Iran. Ma le cose non stanno proprio così

L’attacco lanciato via Twitter dal presidente americano Donald Trump nei confronti dell’Iran del presidente Hassan Rohani (“Mai, mai minacciare gli Stati Uniti o pagherete conseguenze che pochi nella storia hanno sofferto prima. Non siamo più un paese che sopporta le vostre parole dementi di violenza e morte. State attenti!”) ha interessato molto anche gli esperti e gli analisti di affari nordcoreani. I toni accesi usati da Trump sembrano simili a quelli usati lo scorso anno nei confronti del regime di Pyongyang. Lo ricorderete: era l’8 agosto dello scorso anno, quando il presidente americano, a braccia conserte, parlando dal suo golf club di Bedminster, nel New Jersey, si era fatto serissimo: “La Corea del nord farebbe bene a smetterla di minacciare gli Stati Uniti. Altrimenti incontrerà il fuoco e la furia che il mondo non ha mai visto”. Fire and Fury, appunto, una frase che è diventata un mantra della presidenza Trump. Il commento era arrivato all’indomani di uno scoop del Washington Post, che aveva messo le mani su un report della Defense Intelligence Agency dove si ammetteva che la Corea del nord era riuscita con successo a miniaturizzare le testate nucleari, e che quindi era pronta a lanciare missili balistici intercontinentali. Il report non ha mai avuto conferme ufficiali, e anche se molti esperti sono ancora scettici sulle reali capacità di miniaturizzazione delle testate atomiche di Pyongyang, la maggior parte degli analisti crede che finora – soprattutto negli ultimi dieci anni – abbiamo sottovalutato la Corea del nord. E a giudicare dai fatti, viene da pensare che abbiano ragione questi ultimi.

 

I toni accesi usati da Trump contro l’Iran sono simili a quelli usati lo scorso anno nei confronti del regime di Pyongyang

“Il programma nucleare nordcoreano non è in discussione”. Le concessioni fatte finora all’America sono strategiche

Lunedì scorso 38th North, uno dei siti più attenti soprattutto all’analisi delle immagini satellitari della Corea del nord, ha pubblicato un lungo articolo dell’analista Joseph S. Bermudez Jr. Le immagini fotografate a luglio sulla stazione di lancio satelliti di Sohae sembrano suggerire l’inizio dello smantellamento del sito, che fino a oggi è stato uno dei più importanti centri per lo studio dell’ingegneria spaziale nordcoreana. Subito dopo il summit di Singapore – quell’incredibile evento mediatico che si è svolto il 12 giugno scorso nella piccola città stato asiatica tra Donald Trump e il leader Kim Jong-un – Trump aveva detto alla stampa: “Ci hanno assicurato che si fermeranno con i test nucleare e missilistici. Ci hanno assicurato che chiuderanno il sito per i test nucleari, e che distruggeranno il sito di test motore missilistici”. E in effetti un gruppo di giornalisti era stato invitato a fine maggio a vedere l’inizio della demolizione del complesso di Punggye-ri, il luogo di tunnel sotterranei dove sono avvenuti tutti i test atomici nordcoreani. Un luogo, però, dove secondo gli analisti non sarebbero potuti continuare gli esperimenti, perché già fuori uso a causa delle sollecitazioni pregresse. L’inizio dei lavori al sito di Sohae è stato salutato come un successo alla Casa Bianca, ma molti indizi ci fanno capire che la Corea del nord ha già pronto un piano B, nel caso in cui l’America non concedesse immediatamente quanto richiesto, ovvero: l’allentamento delle sanzioni internazionali e l’inizio dei colloqui per trasformare l’armistizio del 1953 in un trattato di Pace – con conseguenze anche sulla permanenza dei soldati americani nell’intera penisola e, in generale, nel Pacifico (un gran bel colpo per la Cina).

 

“Se il successo si definisce nei termini dell’avvio di un processo negoziale ad alto livello, allora il vertice Trump-Kim è stato un successo. Ma se deve essere definito secondo i contenuti, allora è stato un fallimento, perché non ci ha dato nessuna garanzia in più degli accordi precedenti”, ha scritto Beyza Unal, Senior Research Fellow a Chatham House. “Trump ha detto che la Corea del nord distruggerà un sito di test sui motori missilistici – e ha già distrutto quello atomico. Ma non è necessariamente l’indice di un cambiamento politico a lungo termine. Nessuno dei due leader si è impegnato pubblicamente perché la Corea del nord fermi il suo programma: un segnale incoraggiante sarebbe stata la consegna da parte di Kim Jong-un di un inventario dell’arsenale nucleare della Corea del nord. E’ importante sottolineare che la parola ‘denuclearizzazione’ è stata lasciata indefinita. Mentre gli Stati Uniti interpretano la denuclearizzazione nella Corea del nord che rinuncia al suo programma di armi nucleari, Pyongyang la interpreta come ‘denuclearizzazione della penisola coreana’”. Ma c’è di più: il summit con Trump non solo non ha definito i termini di una negoziazione, ma ha consegnato legittimità al leader Kim, in patria e inconsapevolmente anche all’estero, perfino in occidente. Non solo la delegazione delle cheerleader nordcoreane è stata la più fotografata delle Olimpiadi invernali, non solo la sorella di Kim, Kim Yo-jong, è stata definita la “Ivanka Trump” nordcoreana. Quella sera a Singapore, quando Kim è uscito per una passeggiata e la gente urlava eccitata al suo passaggio, quando si è prestato a un selfie con il ministro degli Esteri di Singapore, si è definitivamente compiuta la trasformazione del rocket man, del bizzarro leader nemico numero uno dell’occidente (niente di più vicino agli ayatollah) in un magnetico statista capace di attirare su di sé le folle. Un leader sorridente incapace di ordinare la morte del fratellastro, di rinchiudere i dissidenti politici, di mandare nei campi di lavoro i suoi avversari.

 

Soltanto nel 2017 il regime guidato dal giovane Kim Jong-un ha effettuato ventitré test missilistici, tre dei quali hanno capovolto la retorica che finora si era fatta della Corea del nord, ovvero quella dello stato canaglia mai realmente minaccioso per il resto del mondo e soprattutto per il nemico di sempre, l’America. Sulla base di questa illusione si era costruita la politica di “pazienza strategica” durante la presidenza di Barack Obama. Su un punto, forse, Trump aveva ragione: la pazienza strategica aveva fallito. Il 4 luglio del 2017 e poi, di nuovo, il 20 luglio, Kim Jong-un ha firmato l’ordine di testare il Hwasong-14, gioiello della balistica nordcoreana, un tipo di missile che – secondo quanto ripetevano ai giornalisti sia il governo giapponese sia quello americano – Pyongyang non sarebbe mai riuscita ad avere se non “tra molto, molto tempo”. Il 29 novembre, cioè soltanto otto mesi fa, Kim Jong-un ha assistito personalmente al lancio di un nuovo modello di missile balistico, il Hwasong-15, la cui gittata operativa è stimata intorno ai 13 mila chilometri. Il missile più potente a disposizione del regime dei Kim, che secondo i dati a disposizione degli analisti sarebbe capace di “raggiungere il territorio americano”. Il test è stato effettuato dalla zona di Pyongsong – un’area costruita praticamente da zero a 32 chilometri a nord est dalla capitale nordcoreana – promossa sul sito internet del turismo nordcoreano come la “Silicon Valley” del regime socialista. “Pyonsong fu formalmente istituita nel dicembre del 1969”, si legge. “Oggi ha una popolazione di 285.000 persone. Oltre alle sue funzioni amministrative, Pyongsong è un centro scientifico e culturale. Considerata la Silicon Valley del paese, le ricerche si concentrano soprattutto nel campo spaziale. Numerosi e autorevoli centri di ricerca nazionali sono di base a Pyongsong, come lo Space Science Research Institute, lo State Academy of Sciences, e il Pyongsong’s Atomic Energy Research Center”. Qui hanno sede non solo i centri di comando per la ricerca nucleare, ma anche quelli per la ricerca spaziale, spesso usata come copertura per lo studio dell’ingegneria missilistica. “A Pyongsong la Corea del nord ha costruito una struttura che associamo alla produzione o alla modifica dei lanciatori per gli Hwasong-15. Kim Jong-un ha promesso di smettere di testare gli Icbm, ma non ha promesso di smettere di costruirli – o di costruire i massicci veicoli che li trasportano”, scrive Jeffrey Lewis sul suo blog Arms Control Wonk. Qui, spiega Lewis, c’è sempre molta attività, e “sembra che stia continuando l’espansione dell’arsenale di missili balistici. Magari i nordcoreani ci stanno solo prendendo in giro. Di sicuro è così che ci sentiamo certe volte. Kim Jong-un dà, Kim Jong-un toglie”.

 

Le immagini fotografate a luglio sulla stazione di lancio satelliti di Sohae sembrano suggerire l’inizio dello smantellamento del sito

Kim ha dimostrato di essere un abilissimo diplomatico, e la geografia, in questi casi, è perfetta: il summit sul 38° e quelli a Pechino

Alla fine del 2011, mentre gli alleati occidentali si aspettavano un vuoto di potere dopo la morte di Kim Jong-il, e quindi il collasso della struttura sociale nordcoreana – incapace, secondo le analisi delle agenzie di intelligence, di reggere la sostituzione del leader – Kim Jong-un in realtà saliva al potere e lentamente, passo dopo passo, riusciva a trasformare il paese in una potenza nucleare. E a tenere sotto scacco i leader internazionali, portandoli al suo tavolo e distribuendo lui le carte.

 

All’inizio del 2018, nel tradizionale messaggio di Capodanno, dopo aver mostrato agli scettici di cosa era stata capace la Corea del nord attraverso i test missilistici e un test nucleare (avvenuto il 3 settembre), il leader Kim Jong-un ha cambiato narrativa e toni. Durante il discorso, Kim si è riferito più volte alle sanzioni internazionali – all’inizio di agosto perfino Russia e Cina, che di solito si erano schierate contro, avevano votato per introdurre nuove sanzioni contro Pyongyang al Consiglio di sicurezza dell’Onu – e ha rinnovato l’impegno a portare avanti parallelamente lo sviluppo degli arsenali missilistici e nucleari e l’economia. Come ha scritto l’economista Rüdiger Frank su 38th North in quei giorni, nel discorso “Kim si presenta come un leader forte e sicuro di sé, che ha il pieno controllo della situazione. Le uniche osservazioni personali riguardano il bottone sulla sua scrivania (quello “nucleare”) e le minacce contro di lui e contro il suo paese”. E poi: “Ancora una volta Kim Jong-un ha sottolineato che il programma nucleare nordcoreano non può essere negoziato in nessuna circostanza. Dati i costi umani estremamente alti in caso di qualsiasi opzione militare, l’occidente deve adesso esplorare più attivamente le opzioni per mettere almeno un limite al programma nucleare raggiungendone il congelamento”. E infatti, proprio in quell’occasione, è arrivato anche il ramoscello di ulivo che ha portato alla partecipazione della Corea del nord alle Olimpiadi invernali di Pyeongchang, in Corea del sud, e al Summit intercoreano del 27 aprile di quest’anno, suggellato dall’abbraccio tra Kim e il presidente sudcoreano Moon Jae-in, uno dei massimi sponsor del riavvicinamento tra le due Coree. Kim ha dimostrato di essere un abilissimo diplomatico, e la geografia, in questi casi, è perfetta: il leader ha voluto incontrare Moon sul confine tra i due paesi, lì dove nel 1953 è stato firmato l’armistizio. Ma per dialogare con il suo tradizionale alleato, il presidente cinese Xi Jinping, è stato lui a muoversi e ad arrivare fino a Pechino per ben due volte, e una volta a Dalian. Il presidente americano, invece, si è dovuto spostare per incontrarlo, e arrivare a Singapore. Così come il segretario di stato Mike Pompeo, che è già stato nella capitale nordcoreana due volte e l’ultima volta, dopo il Summit Trump-Kim, le cose non sono andate affatto bene. Il giorno dopo la partenza di Pompeo da Pyongyang la Corea del nord ha fatto saltare i colloqui previsti con i funzionari americani sul confine con la Corea del sud. Del resto il segretario di stato era tornato a Washington senza nessuno di quei dettagli che gli analisti vorrebbero vedere prima di credere a un accordo realistico tra America e Corea del nord. “Per adesso, le attività in corso a Sohae avranno un valore sia diplomatico sia politico”, scrive Ankit Panda sul Diplomat. “Probabilmente forniranno abbastanza slancio per proseguire nei colloqui di implementazione post-Singapore e gruppi di lavoro tra Stati Uniti e Corea del nord. Per Pompeo e Trump, questa concessione servirà anche come prova che la Corea del nord si sta sottoponendo a un processo di ‘denuclearizzazione’”. Uno spot elettorale per la Casa Bianca di Trump, che adesso, come un pattern, vorrebbe replicare il fire and fury anche con l’Iran, e magari tra un mese offrire un hamburger a Rohani. Ma come abbiamo visto, i nemici dell’America sanno benissimo come trarre vantaggio dal narcisismo del presidente americano. Nel frattempo, l’altro ieri Pompeo ha chiesto alle Nazioni Unite di continuare con la strategia di “massima pressione” contro la Corea del nord. Per la pace c’è tempo.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.