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L'incognita della politica estera dei legastellati sull'accordo nucleare iraniano

Alberto Brambilla

L’ambiguità di fondo sull'accordo con l'Iran sta lasciando l’Italia sovranista ai margini di decisioni strategiche

Roma. Per l’opinione pubblica, alias “i cittadini”, la posizione del governo legastellato sull’accordo nucleare iraniano è un’incognita che solo l’incontro tra il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il presidente americano, Donald Trump, potrà chiarire.

 

La posizione americana è nota: cancellare l’accordo dell’Amministrazione Obama e isolare la ierocrazia degli ayatollah. Per farlo gli Stati Uniti intendono portare anche l’Unione europea a cancellare gli accordi economici finora stipulati minacciando ritorsioni, ovvero sanzioni per chiunque prosegua la collaborazione con l’Iran. La posizione italiana è invece confusa.

 

Dal maggio scorso, quando gli Stati Uniti hanno ritirato la firma, l’Italia non ha avuto un ruolo forte nel tentativo di proseguire una collaborazione con l’Iran nonostante l’assenza degli Stati Uniti. L’Italia, infatti, non è tra i paesi firmatari del deal a differenza di Francia, Germania, Regno Unito (insieme a Cina e Russia).

 

In sede europea l’Italia ha votato a favore riguardo ai due principali strumenti approntati da Bruxelles per rispondere alla strategia trumpiana che saranno operativi dal 6 agosto. Il primo è la riattivazione del “Regolamento di blocco” che di fatto impedisce alle imprese europee di adeguarsi alle sanzioni secondarie americane, per cui chi rinuncia ad accordi pregressi con l’Iran per evitare sanzioni da parte degli Stati Uniti può essere sanzionato a sua volta dal suo paese. Uno strumento invero simbolico perché le imprese possono svicolare e dire di rinunciare a fare business con l’Iran per una pluralità di motivi, diversi dalle minacce americane. Il secondo provvedimento, cui l’Italia ha dato parere favorevole, è stato l’estensione del mandato della Banca europea per gli investimenti (Bei) oltre i confini comunitari per cui potrà fornire garanzie sulle attività finanziarie con l’Iran e sostenere gli investimenti europei nel paese, delle piccole e medie imprese in particolare.

 

Per valutare la convenienza di sostenere la politica iraniana o quella americana è utile ricordare che l’interscambio con l’Iran vale 5 miliardi di euro mentre quello con gli Stati Uniti ne vale 50. In termini di accordi commerciali, nel 2016, durante il governo Renzi, ci sono stati accordi preliminari per 20 miliardi di euro che, in quanto preliminari, corrispondono a delle dichiarazioni di intenti. Venne poi dato mandato a Invitalia, agenzia per l’attrazione di investimenti, di garantire i crediti alle esportazioni con 5 miliardi di euro messi a disposizione per coprire i futuri contratti. L’Italia esporta soprattutto macchinari in Iran.

 

“Non è emersa nessuna posizione netta – dice Annalisa Perteghella, analista dell’Ispi esperta di Iran – Tuttavia si continua a dibattere dell’aspetto economico sottovalutando quello politico. Se in seguito al ritiro dell’accordo, l’Iran dovesse decidere di riprendere come prima il suo programma nucleare si tornerebbe a discutere di un intervento militare. La ratio era di scongiurare una nuova ondata di caos in medio oriente ed è questo ciò cui probabilmente andremmo incontro”.

 

Nella diarchia tra Lega e Movimento 5 stelle ci sono divergenze notevoli, e contraddizioni anche in seno alla Lega. Il consigliere per la politica estera di Matteo Salvini, Gugliemo Picchi, si fa portatore di una linea filo-israeliana e ritiene che la mossa di Trump sia giustificabile perché l’accordo non stava portando i progressi auspicati. “Non c’è teocrazia né interessi economici che ci possano far rinnegare i nostri valori. Troveremo il modo per rimanere vicini alla comunità internazionale e per non far soffrire le nostre aziende in Iran”, aveva detto. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, pezzo grosso della Lega, ritiene che economicamente l’Italia sia più vicina a Washington ma, in merito al deal, a febbraio durante una tavola rotonda organizzata da Ispi e Iai, due think tank di relazioni internazionali, aveva fatto intendere che l’accordo andrebbe in qualche modo preservato. Sul punto non si è ancora espresso Matteo Salvini, quindi la posizione leghista non è così nitida. Quella del Movimento 5 stelle è stata – almeno prima che venisse modificato, sbianchettandolo, il programma elettorale a a cavallo delle elezioni del 4 marzo – ideologicamente contraria alla Alleanza atlantica e filo-iraniana.

 

In questa maionese impazzita di politica estera l’ambiguità di fondo probabilmente rimarrà anche in seguito all’incontro tra Conte e Trump lasciando l’Italia sovranista ai margini di decisioni strategiche.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.