Un'esercitazione congiunta della Marina di Pechino e di quella di Mosca nel mar Cinese (foto LaPresse)

Guerra per acqua in Asia

Massimo Morello

Se l’America porta via i sottomarini dalla penisola coreana perde tutto il continente

Singapore. “Che cosa succederà nel Mar cinese meridionale?”, chiede Dang, giornalista vietnamita che segue il summit di Singapore, dopo la conferenza stampa finale di Trump (una “soap opera”, secondo alcuni, orchestrata dall’ufficio stampa della Casa Bianca). La domanda di Dang suona strana, anche se il Mar della Cina appare dalle vetrate dell’International Media Centre, affacciato sulla punta estrema dello stretto che separa l’Oceano Indiano dal Pacifico. Ma la Corea è lontana, una penisola che chiude il Mar Giallo, oltre il quale si apre il Mar della Cina dell’est, che lambisce le coste del Giappone e scende a sud sin quasi all’isola di Taiwan. Il Mar cinese meridionale, che tanto preoccupa il vietnamita Dang, con le sue isole contese e le sue dispute territoriali è più a sud. Ma per lui, come per il governo di Hanoi, non è un mare cinese, bensì il Bieng Dong, il mare dell’est.

 

E’ proprio la carta dell’Asia orientale coi suoi mari che compongono il Pacifico occidentale (a queste longitudini l’oriente è in America) a giustificare la domanda di Dang. Se la penisola coreana ricadesse sotto l’influenza cinese, il Mar Giallo sarebbe totalmente controllato dalla flotta dell’Esercito popolare (che ha da poco varato la sua seconda portaerei). Sarebbe una perfetta tessera nella strategia oceanica cinese che, come spiega Henry Kissinger nel saggio “Cina”, s’ispira alle regole del wei ch’i (noto col nome giapponese di go), gioco che non punta alla distruzione dell’avversario (come accade negli scacchi) bensì al suo accerchiamento, isolamento.

 

Da quella che diventerebbe un’immensa baia tra le coste cinesi e coreane, il controllo cinese si espanderebbe come le lunghe onde oceaniche che persistono in assenza di vento, generate da fenomeni anche lontanissimi, raggiungendo le rotte artiche a nord, che tanto interessano Pechino nei suoi progetti di vie della seta, e su quelle a sud, lungo il Mare cinese orientale sino al Mar cinese meridionale. Questo scenario – che sembra la trama di un romanzo di Tom Clancy – potrebbe verificarsi in conseguenza dello “storico” accordo stabilito a Singapore tra il presidente Trump e il leader nordcoreano Kim Jong-un.

 

“Un’eventuale riunificazione della Corea porterebbe alla ribalta le questioni navali, con una Corea più grande, la Cina e il Giappone in delicati equilibri tra il Mar del Giappone e il Mar Giallo”, ha scritto Robert D. Kaplan, autore che coniuga la geopolitica in tutte le sue declinazioni, nel saggio “Asia’s Cauldron: The South China Sea and the End of a Stable Pacific”. Un caso che, secondo Kaplan, porterebbe a un ulteriore impegno di Pechino sul Mar cinese meridionale.

 

Dopo il summit di Singapore siamo ancora molto lontani dalla riunificazione coreana, considerata un incubo socio-economico. Ma più vicini a un trattato di pace che sancisca la fine della guerra iniziata nel 1950 e conclusa tre anni dopo con un armistizio. Con la pace e la possibile fine delle sanzioni economiche nei confronti della Corea del nord (immediatamente sollecitate dal governo cinese dopo la conferenza stampa di Trump), la penisola coreana potrebbe ritrovarsi unita nelle scelte strategiche.

 

L’espansionismo cinese

“La penisola è il pivot”, ha detto il generale Paik Sun Yup, leggenda militare del sud e collaboratore del generale MacArthur durante la guerra. La citazione è riportata da Kaplan nel suo ultimo libro: “The Return of Marco Polo’s World. War, Strategy, and American Interests in the Twenty-First Century” e oggi quell’affermazione appare una profezia. Certo: il pivot, il perno, potrebbe far girare la Storia verso est, l’America. Questa, almeno, è l’idea di Trump, convinto di aver ammaliato il giovane Kim, avergli dimostrato che si può essere un distruttore o un costruttore. Ma Trump sembra aver dimenticato il convitato di pietra di questo summit (vien da pensare che il presidente americano rappresenti Don Giovanni), celato, ma non troppo, nel 747 della Air China concesso a Kim quale vettore personale. La Cina può rivelarsi molto più seducente, minacciosa e soprattutto affidabile rispetto a un sistema che può ridefinire il suo corso ogni quattro anni.

 

In questa dimensione oceanica, altro elemento che fa riflettere e intimorisce il vietnamita Dang è lo stop alle esercitazioni militari congiunte tra America e Corea del Sud. Proprio quando, dopo quasi cinquant’anni, una portaerei americana aveva attraccato a Danang, porto strategico vietnamita sul Bien Dong, potente simbolo di protezione. Certo, ancora una volta, la Corea è lontana e Trump ha solo annunciato la sospensione delle esercitazioni, non degli aiuti militari. Spiegando la sua decisione sia per i costi sia per non offendere la suscettibilità della Corea del nord. In realtà quelle esercitazioni erano una spina nel fianco per la Cina, soprattutto perché prevedevano l’impiego di sottomarini e portaerei nucleari.

 

“Il potere navale non significa il dominio sul mare”, scrive Kaplan: è una questione di presenza. Una strategia che l’America di Trump, almeno all’apparenza, non ha compreso. Gli ammiragli di Xi, invece, la studiano. Per questo Dang ha paura.

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