La morte della diplomazia

Matteo Matzuzzi

Non è più tempo dei negoziati condotti con perseveranza e discrezione. Nell’età dell’impazienza e della meschinità, ai tradizionali canali diplomatici i nuovi leader preferiscono le bordate sui social. Perché il mito farlocco della trasparenza mette a rischio la democrazia. Un’inchiesta

Era il 21 gennaio del 2013 quando Roger Cohen, sul New York Times, scriveva lapidario che “la diplomazia è morta”. Quantomeno, diceva, è morta quella diplomazia “veramente incisiva” che consentiva a Richard Nixon (grazie ai propedeutici viaggi segretissimi del principe del realismo politico Henry Kissinger) di bere tè con il vecchio Mao e di mangiare frattaglie fritte bagnate da bicchieri di maotai – il liquore che il presidente americano definirà più tardi “benzina pura” – con il plenipotenziario cinese Zhou Enlai, ridacchiando di Leonid Breznev e della decrepita Unione Sovietica insuperabile ormai solo nell’organizzazione di pompose parate sulla Piazza Rossa. E’ morta la diplomazia dell’America vero unico grande Impero che decideva come e quando terminare – vincendo – la Guerra fredda. O anche, ma forse qui Cohen si era già lasciato un po’ andare con i voli pindarici, con l’accordo di Dayton che pose più o meno fine al massacro dei Balcani. Però la tesi di fondo era chiara: a essere stata sotterrata era quella diplomazia che per secoli fu arte richiedente pazienza, perseveranza, empatia e discrezione. E che presupponeva anche audacia e disponibilità a dialogare con il nemico. Chiunque esso fosse. Vis a vis, nel chiuso di qualche albergo, al riparo da occhi, orecchi e obiettivi indiscreti. Cosa che oggi fanno in pochi, qualche anima pia che sfida le logiche del tempo e che allontana dalla propria mente pregiudizi o schematismi controproducenti. Una diplomazia da gentiluomini insomma, ben diversa dagli avvelenamenti al nervino contemporanei, dai leak diffusi a cadenza programmata per scardinare questo o quel governo e per cercare, chissà, di far aumentare lo spread in Borsa. Una diplomazia lontana dall’impazzimento twittarolo di presidenti americani innamorati dei social network e di dittatori trentenni che anziché rispondere al messaggio provocatorio diffuso su Facebook radunano centinaia di impettiti militari mostrando loro simulazioni di attacchi atomici su Los Angeles. A sostegno della sua tesi, Cohen citava la Siria. Già allora, scriveva, era chiaro quale fosse il viale che era stato imboccato: un pasticcio dietro l’altro, linee rosse da non oltrepassare annunciate a mezzo stampa, e poi superate senza che ci fossero conseguenze, giochi delle grandi potenze, caos, bombardamenti dimostrativi, esodi di massa, frequentatissimi vertici fallimentari il cui momento più interessante risultava essere la lettura del menù elegantemente poggiato sul tavolo e il commento sui vini serviti alla mensa bruxellese o ginevrina. Lo si è constatato in queste settimane, con le grandi punizioni annunciate e inflitte, rendendo più veritiero che mai quanto scriveva qualche giorno fa sul Corriere della Sera Angelo Panebianco: “Non c’è nulla come le crisi internazionali che abbia la capacità di mostrare ai vari paesi di quale pasta siano fatti”.

 

I negoziati incisivi che portarono Nixon a mangiare frattaglie fritte con Zhou Enlai, il plenipotenziario di Mao

E’ lì, tra Damasco e Aleppo che giace il corpaccione esanime dell’arte diplomatica. Almeno così è per il glorioso New York Times. Siamo immersi nella “età dell’impazienza, della meschinità e della riluttanza a parlare con i cattivi”, notava ancora Cohen. Certo, per fortuna i diritti umani – almeno a parole – sono ancora di moda, ma più di un ventennio dopo la pace bosniaca, abbiamo fatto passi indietro notevoli: “La realpolitik di Richard Holbrooke non era cosa per gli schizzinosi”. E’ questo “un mondo di nessuno, dove gli Stati Uniti hanno perso la loro posizione dominante senza che nessun’altra nazione ne prendesse il posto. Un mondo in cui l’America agisce come un capo prudente, incoraggiando ora l’uno ora l’altro partner a prendere l’iniziativa”. Una grossa perdita di tempo.

 

Non sarà la fine della diplomazia, ma di sicuro siamo immersi nell’èra della disintermediazione, del superamento dei tradizionali canali che oltre a negoziare avevano anche il compito di calmare le acque, di temporeggiare e far decantare situazioni considerate esplosive e capaci di mettere a rischio la pax (americana) conquistata sul campo dopo la Seconda guerra mondiale. “Mi sembra che il processo sia in corso da parecchio tempo e che le cause siano comprensibili e visibili”, dice al Foglio Sergio Romano, una vita spesa tra ambasciate e rappresentanze in giro per il mondo. “La diplomazia tradizionale è in crisi per almeno due motivi. Intanto le nuove tecnologie hanno enormemente ridotto le distanze e i tempi tra chi dà le istruzioni (il ministro degli Esteri, ad esempio) e chi le riceve (gli ambasciatori). Non c’è quindi più molto tempo perché un diplomatico sia costretto a prendere decisioni da solo. La seconda ragione, forse la più importante, è che la diplomazia ha sempre vissuto di segretezza. Era efficace perché operava nel segreto e nella confidenzialità e lo poteva fare perché ciò era universalmente accettato”, spiega Romano. Insomma, “era del tutto comprensibile che la diplomazia potesse agire senza dare conto di cosa stesse facendo se non in particolari momenti e circostanze”. Il segreto era necessario, era la normalità. “Ciò accadeva perché il corpo diplomatico era d’élite, per ragioni di censo, di famiglia, di (per così dire) sangue blu. Godevano di una loro certa autonomia”.

 

I leader politici, dice l’ambasciatore Stefano Stefanini, senior advisor all’Ispi, tra il 2007 e il 2010 consigliere diplomatico dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e poi – tra le altre cose –rappresentante permanente d’Italia presso la Nato a Bruxelles, “non hanno più quella facoltà che avevano prima di fermare l’orologio e consultarsi. Molto spesso devono rispondere subito, ancora prima di pensare bene a quello che faranno poi. Un esempio recentissimo è dato dal comportamento di Donald Trump sulla Siria: dopo l’attacco del regime con le armi chimiche, la prima risposta del presidente americano è stata un monito chiaro: la Siria pagherà le conseguenze. Ha insomma ventilato una risposta e una punizione estremamente pesanti. Poi, evidentemente dopo consultazioni con i suoi collaboratori (primo fra tutti il segretario alla Difesa James Mattis) e con gli anglo-francesi, ha di fatto ridimensionato la risposta. La punizione c’è stata, ma chirurgica e con obiettivi selezionati. Attenta a evitare un’escalation che coinvolgesse l’Iran e soprattutto la Russia. E’ un caso lampante in cui i tempi reali della politica internazionale e della politica di casa che richiedono una risposta immediata poi confliggono con la necessità di stabilire bene il corso dell’azione conseguente. Ma non è che venga meno il corso della diplomazia”, dice Stefanini: “Semplicemente i tempi non permettono più quella sequenza sistematica che si aveva in passato”.

 

Ma c’è un altro problema che Sergio Romano mette in rilievo: “La democrazia, che ha reso ogni avvenimento diplomatico materia di dibattito pubblico”. In sostanza, “il leader politico ha un interesse in gioco ed è costretto ad assumersi la responsabilità della condotta della politica estera del proprio paese. Finisce ogni giorno nelle cucine delle case, e nelle cucine delle case si vota. Per cui è costretto ad assumersi delle responsabilità, perché ha bisogno di voti per governare”. E’ il cosiddetto “tasso di pubblicità”, che è cresciuto enormemente negli ultimi decenni. “Ma il diplomatico – aggiunge Romano – non dovrebbe guardare alla redditività elettorale, perché non è il suo mestiere”. Il buon diplomatico, diceva uno che la diplomazia la conosce come pochi altri, il cardinale Jean-Louis Tauran, attuale presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, “è quello che sa tacere in tante lingue”. Oggi la diplomazia vecchio stile che meglio funziona è proprio quella vaticana, che lavora sottotraccia – il lungo ma a quanto pare proficuo negoziato con la Cina insegna, così come il contributo fondamentale dato nel riavvicinare la Cuba castrista al nemico storico, l’America – e spesso ottiene risultati. Poche chiacchiere, tante missioni, diplomatici di carriera selezionatissimi ai quali si richiede sempre la medesima cosa, e cioè di “riconoscere all’avversario una parte di verità, continuando a dialogare anche quando le porte si chiudono”, osservava ancora Tauran, che proprio in questi giorni ha condotto una missione in Arabia Saudita, primo alto esponente della Santa Sede a recarsi a Riad parlando di piena cittadinanza per tutti, libertà religiosa e ricordando che nessun leader spirituale mai può giustificare un episodio di terrorismo.

 

E però la riservatezza d’oltretevere è un caso isolato. Nel resto del mondo si urla, si mette in piazza il più possibile, ammiccando alle masse e cercando di aggiudicarsi il favore delle folle. Però dire che questa “pubblicità” non ci sia mai stata non corrisponde al vero, dice il professor Antonio Varsori, tra i massimi storici dell’integrazione europea, cattedra Jean Monnet e ordinario di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Padova. “Certo, le forme odierne di comunicazione sono molto più rapide che in passato, hanno assunto connotati che potrei anche definire ‘invasivi’. Sostenere però che i mezzi di comunicazione non abbiano mai influenzato in passato o addirittura determinato le scelte in politica internazionale non è esatto. Lo hanno fatto, soprattutto dal Settecento-Ottocento in poi. Prima la stampa, poi la radio, poi la televisione. Pensiamo a quest’ultima, che negli anni Sessanta del secolo scorso ebbe un ruolo decisivo nel formare la posizione dell’opinione pubblica americana, convinta dal mezzo televisivo che l’offensiva del Têt fosse una sconfitta. Quel che è cambiato oggi è l’allargamento del pubblico. Nell’Ottocento chi leggeva i giornali era parte di un’opinione, chi guardava la televisione negli Stati Uniti e in Europa faceva parte di un pubblico vastissimo. Internet ha reso tutto ancora più veloce, ampliando ulteriormente la platea”. Non è però solo una questione di “tempi”, dice Stefanini: “Il cambiamento è dovuto anche al fatto che ciò che accade nel mondo è sotto gli occhi di tutti. Un gesto sbagliato di un leader, una parola inopportuna, nell’arco di pochissimo tempo è vista da milioni di persone. E’ l’allargamento a dismisura dell’audience”.

 

Se la diplomazia allora non è morta come sentenziò Cohen, ma ha cambiato modo di esprimersi, bisogna domandarsi come sia mutata. E soprattutto, a quando risalgano i primi segnali della disintermediazione, cioè la messa in disparte dei “filtri” che avevano anche il compito e il potere di smussare le spigolosità della politica. Per Varsori, con l’avvento della società di massa. “Pensiamo ai regimi totalitari, al fascismo, al nazismo e allo stalinismo. Il leader si rivolge direttamente alle masse. La democrazia, invece, ha altre forme di mediazione: governo, parlamento, un processo decisionale diverso in cui è evidente che la diplomazia ha giocato un suo ruolo. Il rapporto tra il potere politico e le masse è evidente nel periodo tra le due guerre mondiali del Novecento, che poi il popolo fosse costretto a partecipare ai raduni è un altro discorso, ma l’intermediazione lì non c’era”.

 

E’ lì, tra Damasco e Aleppo che giace il corpaccione esanime dell’arte diplomatica. Il nostro “è un mondo di nessuno”

Il fatto è che “il mondo è diventato davvero complicato”, ha scritto Aaron David Miller, negoziatore americano di lungo corso impegnato nei colloqui di Oslo e Camp David, direttore del programma sul Medio oriente al Woodrow Wilson Center e orgoglioso di poter ricordare che lui ha collaborato attivamente con amministrazioni democratiche e repubblicane. Certo, Winston Churchill, disperato – chissà se in modo sincero – perché non vedeva grandi uomini all’orizzonte dopo di lui, sospirava pensando ai “meravigliosi giganti del passato”. E’ però “sempre pericoloso idealizzare il passato, anche se guardando agli ultimi sessant’anni bisogna davvero chiedersi se il meglio della diplomazia e della politica estera americane siano ormai alle spalle”, continuava Miller. E in effetti il conto appare chiaro: Piano Marshall, nascita della Nato, diplomazia arabo-israeliana più o meno efficace, distensione con i russi, apertura alla Cina, ruolo americano decisivo nella gestione e conclusione della Guerra fredda e della prima Guerra del Golfo. Il cambiamento è iniziato a metà degli anni Novanta. “Da allora, di fronte al terrorismo, alla proliferazione nucleare e ai conflitti regionali, la diplomazia convenzionale o non è stata messa alla prova o quando ciò è accaduto non ha avuto molto successo. L’immagine del segretario di stato che anticipa le crisi o le sfrutta per negoziare accordi, perseguendo ostinatamente la pace in Medio oriente, raggiungendo traguardi impensabili con una spettacolare diplomazia segreta, sembra un mondo lontano”. Con l’avvento dell’èra Trump, poi, tutto si è complicato, tant’è che già si parla di un rinascimento della diplomazia americana una volta che l’attuale presidente avrà lasciato la Casa Bianca. Ne ha scritto sul New York Times Nicholas Kralev, direttore esecutivo della Washington International Diplomatic Acadamy, che nell’arrivo di John Bolton a Pennsylvania Avenue non vede nulla di buono: “Non è un fan della diplomazia o dei diplomatici”.

 

Attenzione però anche a idealizzare l’epoca della segretezza, degli accordi sottobanco al riparo da taccuini e osservatori del tutto interessati a far trapelare all’esterno quel che si decideva in austeri salotti popolati da maestri della diplomazia. “I leak ci sono sempre stati, così come la diffusione di documenti segreti. Accadeva solo più raramente”, osserva Sergio Romano. Il Patto di Londra, che portò l’Italia a entrare in guerra nel maggio del 1915 con la promessa di ottenere un bel po’ di territori al di là della propria storica cornice storica, geografica e culturale, “finì sui giornali nell’ottobre del 1917, quando i bolscevichi andati al potere in Russia pubblicarono tutti i trattati negoziati prima della Grande guerra. Ovviamente l’avevano fatto perché rientrava nel loro interesse, ma ciò non toglie che l’avessero fatto. Poi cambiarono strategia, visto che anche loro avevano qualche segreto da conservare. Agirono con maggiore prudenza. Insomma, il segreto lo si mantiene finché conviene”, chiosa.

 

In qualche modo, però, Wikileaks ha segnato uno spartiacque. “Ha reso pubbliche le modalità di comunicare della diplomazia”, spiega l’ambasciatore Stefanini, precisando tuttavia che “se si analizza il 95 per cento di quello che c’è in Wikileaks non si scopriranno grandi segreti. Il problema è un altro: uno scambio di idee, una conversazione, un commento fatto con la confidenza e la garanzia della riservatezza appaiono in maniera ben diversa quando finiscono sui giornali, pubblicati. E’ un po’ come per le intercettazioni. Cambia il senso, la percezione collettiva di un dato messaggio. E’ come quando leggiamo tramite Wikileaks che un interlocutore presente a un vertice è definito distratto o poco informato. Sono cose che succedono, non c’è nulla di strano. Direi che l’effetto di Wikileaks è stato quello di aprire all’opinione pubblica un mondo di comunicazioni, idee e impressioni che erano sempre state avvolte da una cortina fumogena”. C’è poi un effetto di ritorno, non trascurabile, ed è il fatto che “ora l’opinione pubblica è al corrente di giudizi, conversazioni, di questo sistema di comunicazioni. E i leader, oggi, non possono non tenere conto dell’opinione pubblica. Non solo quelli “democratici”, ma neppure nei sistemi autocratici. “Pensiamo a Erdogan e all’impegno che mette per ottenere il consenso popolare ai referendum o alle consultazioni elettorali. Oppure guardiamo lo sforzo fatto da Vladimir Putin per far sì che l’affluenza alle recenti presidenziali fosse alta. In una certa misura – dice l’ambasciatore – è sempre stato così nella storia. Il dittatore, l’imperatore, il re non potevano governare senza una base che li sostenesse. La differenza è che con l’epoca moderna questa base si è enormemente allargata. Si può affermare con una certa sicurezza che oggi il novanta per cento della popolazione mondiale è coinvolto nell’esercizio del potere”. Nei secoli scorsi la situazione non è che fosse poi troppo diversa, se è vero che “il re, compreso Luigi XIV, il simbolo dell’assolutismo monarchico, aveva bisogno comunque di un consenso. Allora si trattava della cerchia aristocratica, ma una base era sempre necessaria. Tanti cambiamenti o rivoluzioni (anche pacifiche) si sono avuti per la rottura di questo consenso. Ciò è accaduto per la fine dell’Unione Sovietica, dove lo si vide sia nel rapporto tra la popolazione e il Partito comunista, sia in quello tra le repubbliche sovietiche e l’Unione nel suo complesso”.

 

Siamo tornati all’Ottocento: le grandi potenze hanno ricominciato a utilizzare tutti gli strumenti tradizionali della politica di potenza. Compreso lo strumento militare

La diplomazia mantiene comunque il suo ruolo, anche se il mondo – per dirla con Miller – è radicalmente cambiato. “Ha ancora il potere di smussare le spigolosità della politica”, dice il prof. Varsori, che aggiunge: “Il sistema internazionale degli ultimi anni è tornato a essere multipolare, con una serie di attori di assoluto rilievo. Nell’Ottocento questo sistema era su base europea, mentre oggi è su base mondiale. Ma le grandi potenze hanno ricominciato a utilizzare tutti gli strumenti tradizionali della politica di potenza”. Conclusa la Guerra fredda all’inizio degli anni Novanta, quando si pensava che la storia fosse finita, per citare Francis Fukuyama, si ritenne che fosse possibile realizzare un nuovo ordine internazionale, con un ruolo sempre più centrale per le Nazioni Unite e anche per l’Unione europea. “Oggi siamo tornati al modello che c’era prima. Prendiamo la Russia, il caso più ovvio e banale. Ma si potrebbero citare anche la Cina e perfino gli Stati Uniti, seppure entro certi limiti. Usano gli strumenti propri della politica, dell’economia e anche lo strumento militare. Mosca, appunto, è il caso emblematico. Poi però quando si deve cercare una composizione, si torna comunque e sempre alla diplomazia”. Con una sottolineatura importante che Varsori aggiunge: “Non è detto che siano i diplomatici a farlo, perché alla fine decidono sempre i politici. E’ sempre andata così, dopotutto: la Pace di Tilsit l’hanno firmata direttamente Napoleone, Alessandro di Russia e Federico Guglielmo III di Prussia. I diplomatici aiutano, ma sono dei tecnici”.

 

Anche perché sempre più numerosi sono gli “esterni” che vengono chiamati per gestire dossier delicati sui quali poi sarà la politica a prendere le decisioni ultime. Anche l’Italia ne sa qualcosa, con Carlo Calenda, la cui nomina a rappresentante presso l’Unione europea creò nel 2016 più di uno smottamento alla Farnesina, con dimissioni, proteste e musi lunghi per la messa in disparte del personale ministeriale di carriera. “Il diplomatico non di carriera è un segno del cambiamento”, nota Romano. “Il caso del diplomatico diventato per così dire ‘cugino’ della politica, entrato nella famiglia di questo o quel partito, si spiega anche con l’enorme dilatazione dell’attività diplomatica. All’inizio del Novecento, le ambasciate dei grandi paesi si componevano di sei, sette persone. Oggi, spesso per ragioni non motivate, ce ne sono centinaia. Ciò è accaduto perché nell’attività diplomatica sono finite tante materie che prima non riguardavano i rapporti tra gli stati. Pensiamo alla salute o all’ambiente, solo per citarne due. Allora è necessario inserire altre figure che ampliano enormemente la dimensione del corpo”. Il diplomatico oggi fa cose diverse, non è più il tempo dei Quaroni e dei Tarchiani, che dalla sede di Washington quasi poteva decidere se entrare o no nel Patto Atlantico, osserva lo storico delle Relazioni internazionali, Varsori. “Il diplomatico oggi ha molti meno margini di autonomia. Nell’Ottocento, un ambasciatore accreditato in un paese lontano poteva contare su spazi d’azione ben maggiori. D’altronde, non si poteva sempre aspettare la risposta via piroscafo del governo. Oggi basta una mail o una chiamata al cellulare. Però, quando si tratta di organizzare un G7, G8 o G20, la preparazione minuziosa fatta da quelli che sono gli sherpa è indispensabile”, aggiunge. Senza dimenticare che “poi ci sono altre strutture dello stato impegnate. Prendiamo il caso italiano: chi fa la politica estera? La presidenza del Consiglio o il ministro degli Esteri? Molto spesso la fa il premier, che comunque ha il suo consigliere diplomatico”. Figura che è aumentata di numero in maniera esponenziale: “Perfino qualche presidente di regione ha un proprio consigliere diplomatico, oggigiorno. Comunque, a parte tre-quattro sedi dove i diplomatici ancora contribuiscono a prendere decisioni (penso all’Unione europea, alla Nato, forse Berlino e Washington, un po’ meno Parigi e Londra), oggi si fa tanta diplomazia economico-commerciale, promozione dell’export italiano. Rapporti con gli imprenditori e le autorità locali. L’altro compito, spesso trascurato per mancanza di fondi, è la diplomazia culturale: vendere l’immagine dell’Italia, la cultura italiana nel mondo. E’ una linea di tendenza che si è rafforzata negli ultimi decenni”.
Ma è quindi più difficile fare il diplomatico oggi rispetto a un tempo? “Non è che fosse proprio facile fare il diplomatico in passato”, sorride Stefano Stefanini. “Oggi è più impegnativo perché bisogna avere una capacità di reazione molto più rapida. Un diplomatico, ai giorni nostri, poi, deve essere pronto ad avere un arco assai ampio di interlocutori con cui comunicare e ricevere informazioni. Oggi è impensabile che un diplomatico attivo a Washington e impegnato ad esempio sui dossier medio orientali si possa accontentare di parlare con il capoufficio della sezione Medio oriente. Deve allargare la rete dei suoi contatti il più possibile e deve essere in grado di comprendere che ciò che avviene in quella regione del globo impatta sulla psicologia e sulla politica interna. Ecco, direi che dobbiamo diventare tutti più attenti alla sfera della politica interna, perché in ultima analisi le decisioni di politica estera hanno effetti sempre più crescenti sulla politica di casa propria”.

 

Il caso Wikileaks ha aperto all’opinione pubblica un mondo di comunicazioni, idee e impressioni che erano sempre state avvolte da una cortina fumogena

E l’ambasciatore cita un esempio che più calzante non si potrebbe: “Nel 2013 il premier britannico David Cameron era pronto a intervenire in Siria con gli Stati Uniti, ma la Camera dei comuni disse no. In passato questo non sarebbe mai accaduto. Perché di fronte all’uso delle armi chimiche, il Parlamento non avrebbe esitato. E poi il primo ministro non si sarebbe di certo sentito le mani legate dall’esigenza di saggiare l’opinione pubblica”. Dopotutto, come ha scritto di recente Wang Feng, vicepresidente della China Foreign Affairs University: “La diplomazia di un paese è l’estensione della sua politica interna”. Né più, né meno. Ed è proprio sulla Cina che oggi si punta lo sguardo di chi ambisce a capire come andrà il mondo, quale sarà il destino delle relazioni internazionali. “I risultati del XIX Congresso del Partito comunista cinese hanno spinto alcuni osservatori internazionali a suggerire che la Cina diventerà espansionista e potrebbe cercare di guidare il mondo”, notava ancora Wang. “Ma dovrebbero stare tranquilli, la diplomazia cinese non diventerà mai radicale o avventurosa”, ma “continuerà ad aprirsi al mondo e piuttosto che diventare un paese più aggressivo a livello globale, cercherà di trovare il giusto equilibrio tra la politica interna e quella estera”. In cosa si declinerà poi questo “equilibrio” rappresenta un enigma, soprattutto se si considera l’interventismo economico di Pechino che di certo non fa passare tranquille notti all’occidente. “La Cina promuoverà la pace mondiale affrontando le questioni-chiave dello sviluppo umano globale attraverso accordi diplomatici multilivello”. Uno schema che – aggiungeva il vicepresidente della China Foreign Affairs University – smentirà “la falsa tesi secondo cui un potere in ascesa è destinato a scontrarsi con uno stabilito, che un paese forte sarà necessariamente prepotente con uno più piccolo”. La missione, da qui ai prossimi anni, è di sviluppare una “cooperazione vincente con la comunità internazionale”, provando a “tracciare una strada diversa da quella dei poteri tradizionali”. Pechino ha voglia di contare sempre di più, e di farlo in fretta.

 

Si torna così alla frenesia dei tempi correnti, all’accelerazione che ha toccato anche la tradizionale camera di decantazione della diplomazia, a quell’“iperattivismo fuorviato” che per Aaron Miller è diventato un marchio nefasto per gli Stati Uniti: “L’impulso per l’America di risolvere ogni problema, in qualsiasi parte del mondo, è nobile e stimolante, e spesso è stato una forza positiva. Ma il più delle volte ha prodotto disastri”. La colpa è della disintermediazione, dell’uomo solo al comando e della tanto analizzata deriva leaderistica, o c’è dell’altro? “Apparentemente è vero che è l’uomo politico che prende le decisioni, ma dietro c’è una struttura che sopravvive. Siamo in presenza di una personalizzazione della politica estera, ma ciò accade anche perché è più semplice presentare all’opinione pubblica una decisione presa dal leader”, dice Varsori, convinto che comunque la segretezza resista, che “un conto è ciò che si vede, un altro è ciò che non viene fatto vedere. L’opinione pubblica vede la superficie. Xi Jinping decide sì per ultimo, è lui che appare. Ma dietro cosa c’è? Una struttura vasta che non si vede, ma che esiste e lavora”. E molto meglio di quanto possa apparire all’onnipresente e sempre più decisiva opinione pubblica.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.