Foto LaPresse

Trade war a Shenzhen

Eugenio Cau

L’America colpisce il colosso Zte con sanzioni molto dure e prepara l’attacco alla Silicon Valley cinese, distretto economico fenomenale dove si fa solo una cosa: si produce

Shenzhen. Negli ultimi anni, l’occidente ha sviluppato due grandi scuole di pensiero sulla Cina. La prima è quella della “delusione cinese”, la scuola trumpiana, che ritiene che Pechino sia ormai un avversario, spesso ostile, nella grande corsa per il predominio mondiale, e come tale vada trattato: atteggiamento duro a livello internazionale, guerra commerciale e poi chissà. La seconda scuola è quella dei “Panda huggers”, gli abbracciatori di panda, i fiduciosi che sperano che l’integrazione nel sistema internazionale e l’apertura ai commerci possa trasformare la Cina se non in un alleato democratico (questo ormai non lo sperano nemmeno i più pazzi) quanto meno in un partner responsabile, nell’economia come nel mantenimento del sistema. I sostenitori della linea dura – i trumpiani, potremmo dire – stanno vincendo. Parte dell’establishment di molti paesi occidentali – specialmente negli Stati Uniti, ma anche in Germania, a giudicare dai retroscena riportati negli ultimi mesi dai giornali tedeschi – inizia a vedere nella capitale politica Pechino l’emanazione di un potere ostile, e nella capitale economica Shanghai il motore di una strategia prevaricatrice.

  

Per i prossimi sette anni nessuna azienda americana potrà fare business con Zte, multinazionale delle telecomunicazioni

Shenzhen, terza città più popolosa della Cina, è sempre stata al di sopra di queste dispute. Shenzhen produce. La città, nata quasi dal nulla a partire dal 1980 e trasformata in una gigametropoli da oltre 20 milioni di abitanti (il conteggio è variabile), è chiamata la fabbrica del mondo e la Silicon Valley cinese, un distretto economico fenomenale che da solo genera un pil superiore a quello di paesi come l’Irlanda o il Portogallo (più di 287 miliardi di euro nel 2017). Tutte le imprese innovative e tecnologicamente più avanzate del paese hanno sede a Shenzhen, con poche eccezioni: Tencent, Baidu, Zte, Huawei, Oppo. Il telefono cellulare che avete in tasca è stato assemblato a Shenzhen con componenti prodotti a Shenzhen – qui le eccezioni sono quasi zero. La città è un conglomerato brulicante di grattacieli, drogata di crescita, che tra gli anni Ottanta e Novanta aveva raggiunto tassi del 40 per cento. Shenzhen è una città di ingegneri, programmatori e assemblatori di iPhone, lontana tanto dagli arcani di palazzo di Pechino quanto dall’alta finanza di Shanghai. Mentre la Cina asseriva il suo dominio sul mar Cinese meridionale, scatenando dispute geopolitiche con Washington e i suoi alleati asiatici, Shenzhen produceva. Quando il presidente Xi Jinping annunciava il suo grande piano per la nuova Via della seta, mix sapiente di commercio e soft power, Shenzhen produceva.    

    


  

  La città di Shenzhen. Foto LaPresse

 


  

Il luogo migliore per apprezzare la produttività impassibile di Shenzhen è forse Huaqiangbei, uno dei tanti mercati tecnologici della città. Per un paio di chilometri lungo un vialone fiorito, una serie di palazzi a più piani ospita migliaia di micronegozi da un paio di metri quadrati, in cui due o tre persone per volta mangiano, trascorrono il tempo e vendono ogni tipo di componente. Dagli iPhone – originali o no poco importa – ai banchi di memoria ram agli schermi degli smartwatch alle più minuscole viti per apparecchi elettrici, tutto è prodotto e tutto può essere acquistato, in qualunque quantità. Shenzhen smonta, rimonta e vende, e a vederla da fuori sembra che non abbia interesse per nient’altro.

  

Ci sono voluti anni, ma alla fine la politica di potenza è arrivata a lambire anche questo distretto produttivo. Le dispute commerciali e le logiche della strategia internazionale hanno investito in pieno Shenzhen soltanto negli ultimi tempi, e la città di ingegneri, programmatori e assemblatori di iPhone, nel frattempo diventati manager di multinazionali con fatturati plurimiliardari, ha da poco iniziato ad assorbire l’onda d’urto.

  

Il caso di Zte, multinazionale cinese delle telecomunicazioni, è esemplare. L’azienda, seconda in Cina in termini di quote di mercato dopo Huawei, ha come core business la costruzione di infrastrutture per il 5G, vende smartphone in tutto il mondo e fa ricerca sulle reti e sull’intelligenza artificiale. Il Foglio ha visitato in questi giorni il suo quartier generale di Shenzhen, dove sono sviluppate soluzioni legate al 5G, alle smart city e ai prodotti lato consumer.

  

L’azienda cinese ha un piano di espansione globale molto ambizioso. Ha basi solide in Asia, Africa e America latina, e ha scelto l’Italia come base operativa per fare il gran salto nelle economie sviluppate. Ha promesso 500 milioni di euro di investimenti in Italia, ha siglato una partnership strategica con Wind-Tre sul 5G, suo fiore all’occhiello, ha aperto un centro di formazione in collaborazione con l’Università Tor Vergata e un centro di ricerca all’Aquila. “Intendiamo diventare i leader mondiali nella fornitura di strumenti per le telecomunicazioni e l’IT”, ha detto al Foglio, in una conferenza stampa insieme con altri giornalisti, Fan Xiaobing, vicepresidente senior della compagnia. “Più del 50 per cento del nostro fatturato proviene dall’estero”, ha aggiunto.

  

Lo scontro si concentra sulle telecomunicazioni per la centralità delle reti 5G, il cui controllo garantisce un vantaggio enorme 

Lunedì lo slancio di Zte è stato distrutto da un annuncio del dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. L’Amministrazione Trump ha ordinato a tutte le compagnie americane di interrompere i propri affari con Zte, citando ragioni di sicurezza nazionale e la violazione di un accordo giudiziario. Poco più di un anno fa, nel marzo 2017, un tribunale texano aveva accusato Zte di aver violato l’embargo economico con l’Iran. Dopo un’indagine di cinque anni, i federali avevano provato che l’azienda aveva venduto alla Repubblica islamica prodotti che contenevano tecnologia sensibile americana, e aveva adottato misure sofisticate per eludere le sanzioni. Inoltre, era stata collegata a 283 spedizioni di attrezzature per le comunicazioni alla Corea del nord. Zte si era dichiarata colpevole, aveva accettato di pagare 892 milioni di dollari come penale e di punire i dirigenti legati alla violazione, licenziandone quattro e applicando ad altri 35 misure sanzionatorie come la riduzione dei bonus. Di recente, il dipartimento del Commercio è venuto a sapere che Zte aveva sì licenziato i quattro manager ma, per sua stessa ammissione, non aveva sanzionato gli altri 35. Da qui il divieto: per sette anni, nessuna azienda americana potrà essere fornitore di Zte.

  

Contestualmente, in una mossa che molto probabilmente è stata orchestrata, il National cyber security center del Regno Unito, l’ente statale deputato alla cybersicurezza, ha inviato una lettera ai principali provider di telecomunicazioni inglesi consigliando loro di non firmare contratti con l’azienda cinese. Secondo il Financial Times, che ha ottenuto copia della lettera, il governo britannico sostiene che “l’uso di attrezzature di Zte costituisce un rischio per la sicurezza nazionale”.

  

Tanto l’agenzia Reuters quanto il Financial Times hanno definito il doppio colpo anglosassone “devastante” e “catastrofico”. Secondo stime americane, i prodotti di Zte utilizzano tra il 25 e il 30 per cento di componenti prodotti da aziende degli Stati Uniti, e questo significa soltanto una cosa. O Zte risolve la situazione con Washington mediante un appello che potrebbe richiedere mesi, o trova in fretta altri fornitori, oppure la situazione si mette molto male. Ieri il titolo della compagnia è stato sospeso dalle Borse di Shenzhen e Hong Kong per eccesso di ribasso, e le compagnie americane fornitrici di Zte – tra queste Qualcomm, Microsoft e Intel – erano in calo a New York. Lunedì le azioni di alcune medie aziende americane che si occupano di fibra ottica e per le quali la fornitura a Zte costituisce fino al 30 per cento del fatturato sono crollate a doppia cifra. Una di queste, Acacia Communications, è arrivata a -34,6 per cento.

  

Dal quartier generale di Shenzhen i manager di Zte tentano di dissimulare sicurezza. L’azienda ha rilasciato un comunicato in cui dice che “sta valutando tutte le possibili implicazioni” e “comunicando con le parti terze coinvolte”. A rispondere duramente, invece, è stato il governo cinese, azionista di maggioranza (51 per cento). Pechino ha parlato di “boicottaggio” di Washington contro Zte e ha annunciato drastiche misure di ritorsione. Poche ore dopo, ha imposto una tassa (teoricamente si tratterebbe di una misura antidumping) del 179 per cento sulle esportazioni americane di sorgo, un cereale con cui i cinesi producono un liquore molto popolare e il cui commercio ha fruttato quasi un miliardo di dollari agli Stati Uniti nel 2017. Un’altra “mid-term sanction” con cui Pechino vuole colpire lo zoccolo duro degli elettori di Trump.

  

Insomma, la mossa dell’America non è una misura cautelativa tradizionale, e anche se il dipartimento del Commercio ha insistito sul fatto che la punizione nasce da un caso giudiziario dell’Amministrazione Obama, il tempismo e la sproporzione della pena (sette anni di bando alle forniture contro i bonus di 35 dirigenti), così come la risposta dura di Pechino, fanno pensare che la guerra commerciale è scoppiata a Shenzhen.

  

Zte non è l’unica a essere colpita. Il suo principale concorrente, Huawei, all’inizio di gennaio aveva perso un contratto praticamente già siglato con AT&T per la vendita dei suoi smartphone negli Stati Uniti – secondo i media americani, è stata Washington a impedire il deal. Nello stesso mese, i deputati repubblicani al Congresso hanno depositato la proposta di legge H.R. 4747 che vorrebbe vietare al governo americano di comprare qualsiasi componente o prodotto di telecomunicazione di Huawei e Zte. Ancora una volta la ragione è la stessa: “Sicurezza nazionale”.

  

Zte ha promesso 500 milioni di euro in investimenti in Italia e ha siglato una partnership strategica con Wind-Tre sul 5G 

Il fatto che lo scontro si concentri intorno alle telecomunicazioni e alle reti è dettato da due fattori: l’espansionismo all’estero delle compagnie interessate e, soprattutto, la centralità strategica delle reti 5G, che nei prossimi anni saranno la struttura portante dello sviluppo economico nei paesi più industrializzati. Avere il controllo del 5G significa godere di un vantaggio strategico fondamentale, tanto che pochi mesi fa uscirono sui giornali americani rumors secondo cui l’Amministrazione Trump stava pensando di costruire una grande rete 5G nazionale esattamente come Eisenhower costruì la grande rete ferroviaria americana nel Novecento. Washington sembra decisa tuttavia a estendere il campo. Lo scorso marzo, nell’annunciare il primo round di dazi contro la Cina, il rappresentante del Commercio americano Robert Lighthizer ha detto che “gli unici dazi che mi importano” sono quelli che colpiscono il progetto “Made in China 2025”, un piano strategico con cui Pechino intende raggiungere la supremazia tecnologica a livello mondiale. Traduzione: vogliamo colpire i settori strategici, tech in primis. Fan Xiaobing, vicepresidente di Zte, ci ha detto che la sua azienda partecipa a Made in China 2025 “esattamente come a tutti gli altri progetti di smart industry, come Industria 4.0 della Germania”.

  

La guerra commerciale è scoppiata a Shenzhen, ma per Laura Egoli, console generale italiano a Canton (la regione da oltre 300 milioni di abitanti che comprende anche Shenzhen), l’Italia è protetta e le aziende italiane non dovrebbero finire colpite nello scontro, a meno che non rientrino nella supply chain di una compagnia sotto dazi. Al contrario di quanto avviene tra America e Cina, le relazioni commerciali tra Roma e Pechino sono in netto miglioramento, dice la console, che dal suo osservatorio di Shenzhen dà un giudizio molto netto sulla trade war e sui suoi possibili sviluppi. “La Cina ha i numeri per assorbire lo choc eventuale molto più degli Stati Uniti”, dice al Foglio la console, e potrebbe “uscire meglio di Washington da una guerra commerciale”. Pechino inoltre “ha buon gioco, perché la situazione attuale aiuta l’immagine della Cina”, che è diventata ormai “il fulcro della stabilità mondiale”. Il fatto che un membro di alto livello della diplomazia faccia dichiarazioni così nette intorno a Cina e America è segno che il clima si sta polarizzando.

 

Pechino ha parlato di “boicottaggio” di Washington contro Zte e ha annunciato drastiche misure di ritorsione

Ieri i dati sopra le attese della crescita del pil cinese (6,8 per cento) sono stati rovinati in Borsa dalle notizie legate a Zte e alla guerra commerciale. L’America ha mostrato di avere armi potenti dalla sua parte, ora molto dipende dalla reazione cinese. Lunedì, seppur travolto dalle dichiarazioni di James Comey e dai guai del suo avvocato personale, Donald Trump ha trovato il tempo per fare un tweet contro la Cina e la Russia, accusate di manipolare la valuta a loro vantaggio (“Not acceptable!”). Con l’eccezione di qualche elogio di Xi Jinping, che ammira in quanto leader dal pugno di ferro, fin dalla campagna elettorale Trump ha mantenuto una coerenza eccezionale nei suoi attacchi alla Cina, prima sferrati con la retorica e poi con le azioni. Tanta coerenza, specie considerando il soggetto, denota un’ossessione. Forse perfino una strategia coerente.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.