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L'acciaio di Trump non è un gran problema per Pechino

Giulia Pompili

Nel 2017 in America soltanto il 3 per cento delle importazioni totali di prodotti in acciaio arrivava dalla Cina, e il peso delle esportazioni di acciaio e alluminio a Pechino non supera lo 0,5 per cento del pil

Roma. Dopo aver annunciato a lungo la sua strategia anticinese con misure commerciali protezionistiche, e nonostante le minacce da parte degli altri paesi coinvolti, il presidente americano Donald Trump non ha intenzione di mettere in discussione la decisione di imporre dazi del 25 per cento sull’importazione in America dell’acciaio e del 10 per cento sull’alluminio. Nemmeno dopo che lo speaker della Camera, il repubblicano Paul Ryan, ha criticato pubblicamente le misure. Uno degli uomini chiave della rivoluzione protezionistica della Casa Bianca è Peter Navarro, consigliere economico di Trump e autore di saggi come “Death by China” (2011) e “Crouching Tiger: What China’s Militarism Means for the World”, nei quali sostiene che la manipolazione del mercato di Pechino va contrastata in ogni modo, e che una guerra commerciale “sarà inevitabile”. Scriveva il Wall Street Journal a fine febbraio che per capire le priorità della Casa Bianca basta guardare alle personalità che perdono di importanza e quelle che tornano centrali: il National Trade Council guidato da Navarro era stato prima subordinato al più grande e macchinoso ufficio sul Commercio, ma a metà febbraio Navarro era stato richiamato nella Stanza Ovale per un colloquio con Trump, il National Trade Council era stato trasformato di nuovo in un ufficio autonomo della Casa Bianca, e lui stesso era stato promosso all’ufficio esecutivo del presidente – in pratica allo stesso livello del direttore della Commissione per l’economia nazionale della Casa Bianca, Gary Cohn. In questi giorni Navarro è apparso molto in televisione, ed è quindi lui il volto della svolta protezionistica di Trump, se così si può chiamare.

 

Il primo annuncio del presidente americano sui nuovi dazi è arrivato giovedì scorso, quando Liu He – consigliere economico e uno degli uomini più vicini al presidente cinese Xi Jinping, forse prossimo vicepremier – era ancora a Washington, in secondo round di colloqui in un mese su commercio e l’industria. Domenica scorsa, Liu ha detto di aver avuto un “sincero e costruttivo” dialogo con i funzionari americani, e che le trattative sulla bilancia commerciale proseguiranno “presto” a Pechino. Mentre Canada e Ue hanno reagito duramente contro i dazi, la posizione cinese negli ultimi giorni è stata, al contrario, ferma e calma. 

 

E il motivo è nei settori colpiti: nel 2017 in America soltanto il 3 per cento delle importazioni totali di prodotti in acciaio arrivava dalla Cina, e il peso delle esportazioni di acciaio e alluminio a Pechino non supera lo 0,5 per cento del pil. “Anche perdere l’accesso all’intero mercato americano per la Cina non avrebbe un forte impatto sulla crescita”, scriveva ieri Bloomberg. “La Cina ha già tagliato la sovraccapacità nel suo settore siderurgico – riducendo la produzione a circa 50 milioni di tonnellate nel 2017 – per scopi sia ambientali sia economici”. E la tendenza continua: il premier cinese Li Keqiang, all’apertura dei lavori dell’Assemblea nazionale del popolo, ha detto che la produzione verrà ridotta ancora nel 2018 fino a 30 milioni di tonnellate.

 

“La Cina ha trovato uno spazio per continuare a interpretare la parte del difensore dell’ordine internazionale”, dice al Foglio Giulio Pugliese, lecturer al Dipartimento War Studies del King’s College di Londra. “In questo modo Pechino può dichiarare pubblicamente, soprattutto con Canada, Messico, Corea del sud, che la Cina in realtà è a favore del libero scambio e del libero commercio”. E in effetti a essere colpiti di più dalle misure su acciaio e alluminio sono i paesi più vicini, geograficamente, all’America: “C’è di sicuro la volontà di Trump di usare i dazi per rinegoziare il Nafta. Non è un caso se nel 2003 George W. Bush impose tariffe sull’importazione dell’acciaio ma esentò Canada e Messico. E poi ci sono le elezioni di mid-term che giocano un ruolo, Trump deve mostrare che sta sistemando il deficit commerciale”. Ma i guai grossi arrivano anche per Giappone e Corea del sud, tradizionali e fondamentali alleati dell’America in Asia orientale: da giorni le principali aziende siderurgiche nipponiche e sudcoreane, da Japan Steel Works a Hyunday Steel, chiudono in territorio negativo – per Tokyo in America si giocano il 5 per cento delle intere esportazioni, per la Corea del sud il 10 per cento. La federazione dei produttori di ferro e acciaio giapponese ha protestato con il governo, mentre il ministro delle Finanze sudcoreano, Kim Dong-yeon, ha detto che l’esecutivo di Seul non prenderà una posizione concreta fino a che non saranno chiare le perdite in caso di dazi.

 

“Quello che potrebbe fare la Cina è esplorare, insieme con gli altri paesi colpiti dalle misure, una soluzione con l’Organizzazione del commercio estero. Però da diversi mesi l’Amministrazione Trump sta di fatto castrando l’organo d’appello del Wto, boicottando la nomina di tre dei sette giudici”, dice Pugliese. Trump ha invocato i dazi sulla base di un problema di sicurezza nazionale, ma sa anche che l’organo d’appello del Wto può eventualmente sanzionare le rappresaglie dei paesi colpiti. “Non nominando i giudici, sta rallentando l’operato del panel, e le eventuali sanzioni potrebbero arrivare dopo le elezioni di mid-term”.

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.