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Per capire cosa non va nella trade war trumpiana, guardate l'iPhone

Eugenio Cau

Il prodotto di Apple genera ricchezza in America ma è frutto di una catena di valore che Trump vuole interrompere

Roma. Le guerre commerciali del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, possono essere riassunte con due copertine dell’Economist. Nella prima, pubblicata all’inizio di marzo, Trump è rappresentato come una bomba pronta a scoppiare e a distruggere, con le sue politiche commerciali protezioniste e aggressive, l’ordine economico mondiale. Nella seconda, pubblicata la settimana successiva, le bandiere dell’America e della Cina si contendono un paesaggio cibernetico, a rappresentare “la battaglia per la supremazia digitale” tra le due superpotenze. I dazi e le tariffe di Trump devono essere intesi secondo queste due direttive: da un lato c’è il desiderio di ribaltare un sistema internazionale che, pur avendo garantito all’occidente sicurezza e prosperità per quarant’anni, è visto da Trump come ingiusto, svantaggioso per l’economia americana e costellato di bad deals. Dall’altro lato c’è la volontà strategica di iniziare un’opera di contenimento della Cina che l’Amministrazione considera urgente. Il prossimo round di dazi americani si concentrerà appunto sulle industrie cinesi ad alta tecnologia e ieri il Financial Times scriveva che siamo alle porte di una “Guerra fredda digitale” tra Washington e Pechino.

 

Nella retorica e nelle strategie dell’Amministrazione, i due aspetti (guerra commerciale e contenimento tecnologico cinese) sono l’uno funzionale all’altro. Per contenere la Cina dobbiamo ottenere dei deal commerciali migliori, per ottenere deal migliori dobbiamo colpire la Cina sui commerci. Questo è un errore, e una mossa per niente tattica da parte dell’Amministrazione. Se, infatti, l’idea di mettere in atto una politica più assertiva nei confronti della Cina è vista con interesse anche da molti analisti lontani dalle idee di Trump, le sanzioni e lo scontro commerciale sono quasi universalmente condannati. Anzitutto perché, come si è visto in questi giorni, consentono alla Cina di fare la parte della vittima aggredita dal mercantilismo scriteriato del palazzinaro biondo; poi perché le guerre commerciali, al contrario di ciò che twitta Trump, non sono affatto “facili da vincere”; infine perché i dazi commerciali in un sistema economico integrato sono in realtà un’arma che si ritorce contro chi li impone. Prendete l’esempio dell’iPhone.

 

Lo smartphone prodotto da Apple è ormai un esempio scolastico di una catena di valore globale: è un prodotto che sarebbe quasi impossibile da realizzare senza la globalizzazione. E’ anche un prodotto che è stato citato molto spesso in questi giorni in cui si è parlato in continuazione di guerra commerciale: l’iPhone è assemblato in Cina, e al contempo la Cina è uno dei mercati più importanti per Apple. Come hanno notato molti analisti, se Pechino vuole assestare un colpo doloroso in risposta ai dazi trumpiani Apple è un bersaglio facile. Ma l’iPhone è anche l’esempio perfetto della ragione per cui Trump non ha capito niente di come funzionano i rapporti commerciali, specie quelli tra Stati Uniti e Cina.

 

Nel libro pubblicato in campagna elettorale, “Crippled America”, il futuro presidente Trump scriveva: “Pensiamo ad Apple come a un’azienda americana. Ma loro assemblano i prodotti in Cina. Hanno uffici qui [in America], ma se ci pensate la Cina fa con Apple più soldi di noi”. C’è un problema: anche se l’iPhone è tecnicamente “made in China”, i profitti sono quasi tutti americani – e questo dipende da una catena di valore globale che i dazi di Trump vorrebbero spezzare.

 

Uno studio del 2013 commissionato dall’Oecd e dal Wto, per esempio, mostra che le aziende cinesi contribuiscono soltanto per circa il 4 per cento ai costi di produzione di un iPhone (il modello preso in considerazione è l’iPhone 4). Per produrre un iPhone 4, Apple sborsava 187,51 dollari in componenti (ne sborserà 187,91 per un iPhone 6s e 219,80 per un iPhone 7: i numeri sono paragonabili). In tutto, di quei 187 dollari, Apple ne pagava ad aziende cinesi appena 20 in componenti, più 5 dollari di assemblaggio (quest’ultimo dato non è riferito nello studio). Insomma: l’iPhone sarà anche un prodotto “made in China”, ma era l’americana Apple, che vendeva l’iPhone 4 a 600 dollari, a ottenere un profitto spettacolare di oltre 400 dollari: un buon deal, a occhio. Come scrive l’Oecd, è probabile che la quota della Cina sia in realtà un po’ più alta. Per esempio, tra i fornitori di Apple c’è la tedesca Infineon, che però ha fabbriche in Cina. Ma il concetto rimane: la Cina fa pochi soldi con l’iPhone, l’America ne fa una marea.

 

Cosa succederà se Trump dovesse imporre dazi sui prodotti tecnologici (per esempio: sui semiconduttori o sui prodotti assemblati in Cina) e interrompere la catena del valore che dà vita all’iPhone? Semplice, sarebbe l’economia americana, più che quella cinese, a risentirne. Sarebbe lo stesso per un’infinità di prodotti, e i dazi trumpiani finirebbero per essere autoimposti.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.