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Quindi Trump si è rimangiato la trade war? Due opzioni sul caso Zte

Eugenio Cau

In un tweet, il presidente promette di salvare i “posti di lavoro cinesi”. Il nuovo round di negoziati a Washington

Roma. “Il presidente cinese Xi, e io, stiamo lavorando assieme per dare alla gigantesca compagnia dei telefoni cinese, ZTE, un modo per rientrare nel business, in fretta. Troppi posti di lavoro persi in Cina. Al dipartimento del Commercio è stato ordinato di passare all’azione!”. Con un tweet, domenica pomeriggio, Donald Trump ha apparentemente ribaltato settimane di azioni bellicose contro il gigante delle telecomunicazioni cinese Zte, costretto la settimana scorsa a sospendere la produzione a causa delle sanzioni imposte dal dipartimento del Commercio dell’Amministrazione americana. Veloce riassunto: l’anno scorso, dopo un caso giudiziario durato anni, Zte aveva pagato una penale di 1,19 miliardi di dollari per aver venduto componenti con tecnologia americana ai governi iraniano e nordcoreano, in violazione delle sanzioni. Gli iraniani, con i componenti comprati da Zte, avevano potenziato il loro sistema di sorveglianza telefonica della popolazione e repressione del dissenso. Ad aprile, il dipartimento del Commercio riapre il caso perché Zte, a quanto pare, non aveva rispettato alcune pene accessorie (avrebbe premiato alcuni manager coinvolti nel caso iraniano, anziché punirli, ma su questo la versione dell’azienda cinese diverge). A causa della violazione, l’Amministrazione ordina ai fornitori americani di Zte di interrompere le spedizioni per sette anni. Misura durissima: i prodotti di Zte contengono tra il 15 e il 25 per cento di tecnologia americana, e senza fornitori la settimana scorsa l’azienda annuncia la sospensione della produzione. La vittoria per Trump è schiacciante e inattesa dagli analisti: con uno schiocco di dita, il presidente americano ha messo in ginocchio una potenza dell’economia cinese da 80 mila dipendenti e 14 miliardi di dollari di fatturato. In pochi credono che la riapertura del caso da parte del dipartimento del Commercio sia casuale: Trump ha iniziato la trade war col botto.

 

  

 

Passano pochi giorni e arriva il tweet di cui sopra: trade war rimandata, c’è da pensare ai posti di lavoro cinesi! Lunedì un retroscena del Wall Street Journal ha rivelato che Washington sarebbe disposta a sollevare il bando dei fornitori a Zte in cambio dell’eliminazione delle sanzioni cinesi sui prodotti agricoli americani, come la carne di maiale e il ginseng, molto cari allo zoccolo duro dell’elettorato trumpiano. Il Journal ha trovato fonti concordanti da entrambi i lati del Pacifico, e sembra che l’accordo sia vicino.

 

 Secondo il Wall Street Journal, Washington e Pechino sarebbero vicini a un accordo: gli americani salvano Zte sollevando il divieto di vendita dei componenti; i cinesi eliminano le sanzioni ai prodotti agricoli americani, come carne di maiale e ginseng, cari allo zoccolo duro degli elettori trumpiani

 

Dunque finora Trump ha scherzato con la trade war e con la retorica anti cinese? Perché l’alfiere dell’“America First” si preoccupa di salvare posti di lavoro del principale concorrente strategico degli Stati Uniti? Per quale ragione una persona sensata dovrebbe portare un’azienda sull’orlo del fallimento per poi promettere di resuscitarla pochi giorni dopo? 

 

 

Ci sono due opzioni possibili, entrambe con buone motivazioni e indizi.

 

Opzione uno. Donald Trump vuole usare l’affaire Zte come pedina nel gioco più grande che in questo momento è in corso intorno alle questioni commerciali. Con le sanzioni del dipartimento del Commercio, l’America ha dimostrato di poter mettere in ginocchio un gigante dell’industria cinese in pochi giorni. La dipendenza tecnologica della Cina nei confronti degli Stati Uniti è una vulnerabilità eccezionale (a parti opposte, non c’è azienda che Pechino potrebbe colpire altrettanto duramente: se, per ipotesi, i cinesi vietassero la commercializzazione dei prodotti Apple, l’azienda sarebbe ferita gravemente ma non crollerebbe) e ha depresso molto gli ambienti tecnologici cinesi sullo sviluppo della loro innovazione. Secondo questa prima interpretazione, il tweet di Trump significa: vi ho distrutto con lo schiocco delle dita, con un altro schiocco vi posso resuscitare.

 

E’ una dichiarazione di potenza, che anche in caso di accordo su Zte può influenzare i negoziati bilaterali sulle questioni commerciali: dopo che la settimana scorsa il team negoziale americano (Breitbart ha chiamato il gruppo di burocrati ministeriali “gli Avengers”, tanto per dare l’idea del tipo di clima che si respira) non ha ottenuto aperture in un primo round di trattative a Pechino, oggi il capo negoziatore cinese, Liu He, e i suoi arriveranno a Washington per continuare l’opera. Aver messo sul tavolo il salvataggio di Zte renderà senz’altro più convincenti gli argomenti degli americani, che finora hanno negoziato con durezza.

 

Il “grande accordo” al ribasso

 

Opzione due. Trump è pronto per un “grand bargain”, un grande accordo, con Pechino, che gli consenta di ottenere qualche concessione facile da presentare alle elezioni di mid-term. Secondo due retroscena pubblicati lunedì da Axios e dal Financial Times, i falchi anti cinesi della Casa Bianca come Peter Navarro e Robert Lighthizer sarebbero preoccupati perché il segretario del Tesoro Steven Mnuchin punterebbe a chiudere in fretta un accordo con la Cina che non affronta i problemi strutturali della relazione bilaterale. I cinesi, dicono i retroscena, potrebbero accontentare l’ossessione trumpiana per il deficit commerciale e tagliarlo di 200 miliardi di dollari (adesso è a 337 miliardi); in cambio, gli americani non farebbero pressioni ulteriori (o farebbero concessioni) sul tema dei trasferimenti tecnologici forzati e della concorrenza sui settori strategici. Il salvataggio di Zte sarebbe il coronamento di questo accordo: Trump avrebbe la mastodontica cifra di 200 miliardi da sventolare come simbolo di vittoria e la Cina avrebbe guadagnato altro tempo per costruirsi una posizione di dominio tecnologico (e non solo), dopo lo spavento preso con le sanzioni.

 

L’opzione dell’accordo al ribasso sarebbe in contrasto con la retorica anti cinese piuttosto coerente che Trump ha mantenuto dalla campagna elettorale in avanti, e che ha contagiato buona parte del discorso pubblico americano: da decenni l’America non era così sospettosa della Cina, sui media come nelle proposte di legge del Congresso. Trump ha costruito le basi per uno scontro epocale. Ma con le questioni dell’Iran, di Gerusalemme e della Corea del nord che incombono, un tweet può essere sufficiente per riposizionare l’America sulla relazione strategica più importante del prossimo secolo.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.