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Il patibolo di Lula

Angela Nocioni

Solo indizi, non una prova per la condanna dell’ex presidente. Giusto così per il suo giudice, che si ispira a Mani pulite ed è già eroe popolare

Ora che Lula è stato arrestato ed è appeso all’attesa della decisione del Tribunale supremo sulla legittimità costituzionale di una detenzione prima del terzo grado del processo – unica carta al momento in possesso dell’ex capo del governo brasiliano per sperare di uscire di cella e entrare in qualche modo da libero nella campagna elettorale per le presidenziali di ottobre – vediamo di ricostruire come è finito in galera, con una condanna a dodici anni e un mese per corruzione passiva e riciclaggio, il candidato favorito al primo turno di un paese messo sottosopra da megainchieste sulla corruzione, in cui la Mani pulite italiana è spesso indicata da giudici e analisti come modello da imitare.

   

Con Lula non candidabile, resta per ora senza sfidante di peso Jair Bolsonaro, ex militare di estrema destra, secondo nei sondaggi

Se il giustizialismo di casa nostra è diventato un prodotto for export, forse è il caso di scrutare gli avvenimenti brasiliani e usarli come specchio. Perché si può detestare la liturgia di proteste del Partito dei lavoratori (Pt), fondato da Lula e poi portato al governo nel 2003, la prima volta della sinistra alla guida del Brasile. Si può considerare insopportabile il rosario di lamenti sul “golpe bianco” che sarebbe stato orchestrato “per impedire il ritorno al potere del presidente dei poveri e degli oppressi” ecc. Ma è innegabile che la non candidabilità di Lula condannato lasci per ora senza sfidante di peso il secondo favorito nei sondaggi, a 20 punti di distanza, Jair Bolsonaro, ex militare di estrema destra. E consegni l’elettorato di sinistra a Marina Silva, la madonnina ecologista che non crede alle teorie darwiniane, predica il creazionismo ed è diventata l’icona dell’antipolitica locale.

  

Non fa tremare il Brasile, ma un po’ di inquietudine la crea, il fatto che il capo dell’esercito Villa Lobos, alla vigilia del pronunciamento del Tribunale supremo federale sull’habeas corpus di Lula, si sia messo a twittare frenetico, rivolgendosi pomposamente alla nazione, per chiedere “la fine dell’impunità”. I suoi tweet sono stati letti con tono solenne nel principale tg della sera.

  

  

  

Mettiamo in fila i fatti. Il 12 luglio del 2017 il giudice federale Sergio Moro ha condannato Luiz Lula da Silva a nove anni e mezzo di prigione, diventati dodici e un mese in appello nel gennaio scorso. Lula è stato considerato responsabile di aver ricevuto come tangente dalla impresa edile Oas un attico con superattico a Guaruja, litorale di San Paolo, in cambio di appalti in contratti pubblici. La sentenza non ha precisato né quale affare della Oas sarebbe stato facilitato da Lula, né in quale momento. L’ex presidente non era più nemmeno al governo per la gran parte del periodo considerato, ma questo può essere irrilevante vista la sua influenza sul governo di Dilma Rousseff, sua erede politica.

  

Lula è così stato condannato per una tangente di un milione e duecentomila dollari, valore stimato dell’appartamento. Che non risulta essere di sua proprietà. Non è saltato fuori uno straccio di prova sulla sua colpevolezza, solo una serie di indizi. Non esiste un contratto di acquisto, l’appartamento non è stato mai abitato né da lui né dalla sua famiglia, che non risulta averne mai posseduto le chiavi.

   

Nel 2005 la moglie di Lula, Marisa Letizia, allora first lady, comprò una quota per l’acquisto futuro di un appartamento nell’edificio in costruzione e proprietà di una cooperativa, la Bancoop. Questo è l’unico documento firmato mostrato al processo. Ma si tratta di una quota per l’acquisto di un appartamento ancora da costruire, non di un documento di proprietà. La cooperativa fallì. L’edificio nel 2009 fu comprato dalla Oas che, secondo testimoni dell’accusa, l’avrebbe cominciato a ristrutturare per metterlo a disposizione di Lula. Lui dice invece che andò sì a visitare l’attico (un video lo riprende durante la visita), ma non gli piacque e non lo comprò. Dice di essere stato lì dentro in tutto un’ora nella sua vita.

  

La condanna si regge interamente sulla accusa di Leo Pinheiro, presidente di Oas, condannato nello stesso processo – come correo ha diritto a mentire secondo la legge brasiliana – che ha detto ai giudici di aver assecondato la richiesta di Lula di far sparire i documenti della proprietà.

  

Non potendo dimostrare che l’appartamento sia di Lula o della sua famiglia, si è stabilito che gli è stato messo a disposizione. Testimoni dell’accusa sostengono di aver visto l’allora first lady suggerire modifiche all’arredamento: questo è l’indizio fondamentale. Si è deciso quindi che l’appartamento sia stato in qualche modo attribuito a Lula. Si è creata una nuova figura giuridica: il reato di attribuzione, capace incredibilmente di configurare poi quelli di corruzione e riciclaggio.

 

Chi denuncia la violazione del diritto alla difesa passa per un pericoloso agente dei ladri. Dubbi di ordine costituzionale sull’arresto 

Non si capisce neanche come la tangente possa essere di un milione e duecentomila dollari, visto che un appartamento messo a disposizione non può essere né venduto né dato in eredità. Risulta poi che quel famoso attico sia stato usato dalla Oas come garanzia per chiedere prestiti. Se l’impresa l’usava come garanzia per farsi dare soldi dalle banche, ha chiesto invano la difesa, come poteva essere di Lula? Dettaglio irrilevante ai fini della soluzione della vicenda, ma buffo, è che l’attico dell’edificio Solaris, un palazzone assai bruttino, sia diventato nelle cronache anche italiane un appartamento da nababbi in un posto da favola. E’ vero che è molto grande, 297 metri quadrati, con piscina e sauna. Ma nessuno si chiede perché l’uomo più potente del Brasile avrebbe dovuto fare letteralmente carte false per poter andare al mare con la sua numerosa famiglia in un posto che sembra Ladispoli, pieno come un uovo in qualsiasi momento dell’anno, con un mare orrendo, all’ultimo piano di un condominio stretto tra edifici costruiti quarant’anni fa, con sotto casa un negozietto di dolciumi a due soldi e una rivendita di souvenir. Dove infatti non è stato mai visto trascorrere un weekend. Né lui, né i suoi figli, né sua moglie. La casa non è mai stata abitata.  

   

E’ noto che Sergio Moro, il giudice federale che ha ordinato l’indagine, condannato Lula in primo grado e firmato l’ordine di arresto, citi spesso frasi di Piercamillo Davigo, dica di aver studiato i metodi di Antonio Di Pietro e consideri l’Italia del ’92-’93 un esempio di rivoluzione morale e politica per via giudiziaria.

  

Moro rivendica sia la sacralizzazione degli indizi al posto delle prove nei processi per corruzione, nei quali altrimenti sarebbe difficile, sostiene, arrivare a una condanna, sia l’uso a tappeto della “delazione premiata” che è la norma locale sui collaboratori di giustizia. La legge prevede un vero e proprio contratto tra imputato e magistrati, in cui il primo si impegna a collaborare facendo nomi e cognomi di terze persone indicate da lui come colpevoli e riceve in cambio uno sconto di pena. Una sorta di libera traduzione del “dimmi qualcosa che non so” di Antonio Di Pietro. Norma pericolosa per l’accertamento della verità. Allo scopo di mettere fine alla propria carcerazione preventiva o per garantirsi uno sconto di pena, infatti, un imputato può finire per dire al magistrato inquirente quello che pensa il magistrato voglia sentirsi dire, mentendo anche.

  

Sia l’inchiesta Lava Jato che ha raso a zero i grandi partiti brasiliani (tutti, non solo il partito di Lula) rivelando il sistema di tangenti del 3 per cento pagato dalle aziende per aggiudicarsi gli appalti pubblici, sia il Mensalao, l’altra inchiesta del 2012 che ha spedito in galera l’intera dirigenza del Pt sfiorando Lula, senza mai riuscire a incriminarlo, sono basate sull’uso spregiudicato della delazione premiata. Senza delazione premiata non ci sarebbero state condanne.

  

Si è creata una nuova figura giuridica: il reato di attribuzione, capace di configurare poi quelli di corruzione e riciclaggio

Ciò nonostante, o chissà proprio per questo, Sergio Moro, quarantasei anni, è da tempo un eroe popolare in Brasile. Davanti al Tribunale federale di Curitiba, dove lavora, un accampamento di sostenitori devoti ha sventolato come bandiere t-shirt con la sua faccia per testimoniargli giorno e notte solidarietà incondizionata per anni. Questi folcloristici ultras delle aule di tribunale non sono gli unici sordi alle perplessità di molti giuristi brasiliani, non tutti sostenitori di Lula, sulla correttezza del processo contro l’ex presidente. Nessuno dà peso alle denunce di violazione delle garanzie del processo. L’opinione pubblica è ormai convinta che per stanare i responsabili di un sistema di tangenti non si possa andare per il sottile. Chi denuncia la violazione del diritto alla difesa passa per un pericoloso agente dei ladri. Quindi, come non ha fatto scandalo in passato che la telefonata tra l’allora presidente Dilma Rousseff e Lula sia stata intercettata e resa pubblica – era la telefonata in cui lei gli offriva una nomina da ministro per garantirgli una sorta di immunità temporanea – non fanno scandalo oggi le proteste degli avvocati. Dice una dei legali di Lula, Vaneska Zanin: “Per due anni gli inquirenti hanno avuto in mano una mappatura delle conversazioni degli avvocati del nostro pool, venticinque avvocati. Hanno avuto le registrazioni di tutte le nostre telefonate, stavano là, disponibili, chiunque le poteva ascoltare. Ci sono stati metodi autoritari in questo processo, propri di uno stato d’eccezione”. 

   

L’inchiesta sull’attico di Guaruja costata l’arresto a Lula è solo una delle sei a suo carico e, secondo alcuni, sarebbe quella con l’impianto accusatorio più fragile. Ma era quella più vicina ad arrivare a sentenza e ha avuto un’accelerazione notevole negli ultimi mesi. “E’ stato gestito tutto secondo un timing elettorale impressionante” dice l’avvocata Zanin.

   

Determinante per l’epilogo di questa storia sarà il ruolo della Corte suprema. Che non avrebbe potuto accettare l’habeas corpus di Lula la settimana scorsa, respinto con sei voti contro cinque, senza creare un precedente che avrebbe finito poi per consentire la scarcerazione della maggior parte dei politici detenuti. E far saltare l’inchiesta su cui si fonda l’azzeramento per via giudiziaria della classe dirigente del Brasile. Il ruolo dell’Alta corte è fondamentale in questa fase della Mani pulite brasiliana. Sono 78 i legislatori e i ministri accusati di corruzione e non ancora processati.

  

  

  

La Corte suprema è il porto finale di tutte le inchieste per corruzione. Tutte lì approdano. Gli undici giudici che la compongono hanno un potere personale enorme. Molto più grande di quello di qualsiasi politico. I membri del Supremo sono personaggi straconosciuti, star popolari, perché le loro sessioni di discussione sono pubbliche e trasmesse in tv. A volte il dibattito tra giudici offre grande spettacolo. “Sei una persona orribile, un misto di malvagità e arretratezza con tocchi psicopatici”, ha detto il mese scorso il giudice Luis Roberto Barroso al giudice Gilmar Mendes. “Sua Eccellenza Barroso dovrebbe chiudere il suo studio legale”, ha replicato Mendes. Quasi meglio della telenovela delle otto.

  

L’appartamento di cui si favoleggia è in realtà in una brutta zona, davanti a un mare orrendo. E non è stato mai abitato

La Corte suprema ha sì un potere enorme, ma anche un mandato impossibile. Il tribunale del Brasile è in realtà tre tribunali in uno: è contemporaneamente un tribunale costituzionale che interpreta le questioni del diritto, una corte d’appello per casi con questioni costituzionali e un tribunale penale per i politici che godono dell’immunità nelle corti comuni (non esiste il procedimento per l’autorizzazione a procedere in Brasile, esiste il foro privilegiato per politici in carica: appunto la Corte). C’è una notevole congestione al Supremo. I casi arretrati si affastellano in attesa di essere discussi e finiscono per essere decisi spesso da una sola persona, senza analisi collegiale. Uno studio del 2013 della Fondazione Getulio Vargas ha rilevato che dei 1,3 milioni di casi ascoltati nei precedenti 22 anni, l’87 per cento è stato deciso da un giudice monocratico. Quali garanzie esistono contro l’arbitrarietà di questi giudizi? Nessuna. L’agenzia Bloomberg raccontava l’altro giorno la vicenda di un detenuto per corruzione in attesa di processo. Decideva su di lui il giudice Mendes, che ha rifiutato di rinunciare al caso nonostante lui e sua moglie siano stati ospiti d’onore al matrimonio della figlia del magnate degli autobus perché lo sposo era il nipote della moglie del giudice. E nessuno si è potuto opporre al suo rifiuto di farsi da parte.

  

Cosa succede ora a Lula? Perché tutte le sue speranze sono riposte nell’accertamento di costituzionalità della controversa sentenza del Supremo di due anni fa che consente la detenzione dopo la condanna in appello, senza aspettare il terzo grado, quando la condanna è stata decisa all’unanimità? Perché la giudice Rosa Weber, il cui voto è stato fondamentale per il respingimento dell’habeas corpus di Lula, ha fatto sapere di aver votato contro l’habeas corpus non valutando la sostanza del caso specifico, ma attenendosi al rispetto (che ha curiosamente ritenuto dovuto) della lettera della norma. Ma ha detto di considerare quella norma incostituzionale. Come dire: visto che la norma c’è e io sono una giudice costituzionale, quando decidiamo sull’habeas corpus non posso non applicare la norma esistente anche se la trovo incostituzionale perché ritengo leda il diritto alla presunzione di innocenza e quindi voto contro l’habeas corpus; se però mi fate votare l’accertamento della costituzionalità di quella norma, io la dichiaro incostituzionale.

  

Quindi, quando sarà chiamata a dichiarare se è costituzionale o no la norma che ha consentito l’arresto di Lula, dovrebbe essere disponibile a cassarla. Questione di lana caprina solo in apparenza, perché il futuro politico del Brasile dipende da questa decisione della Corte.

   

Subito dopo che il Supremo si è pronunciato contro Lula, i cinque giudici finiti in minoranza hanno segnalato la loro intenzione di sollevare punti di ordine costituzionale nelle prossime sessioni. Da qui la possibilità che Lula – e con lui decine di condannati dell’inchiesta Lava Jato – possano essere rilasciati per motivi costituzionali. Lula l’ottimista ci spera. Il suo slogan in carovana per il Brasile è stato: “Se mi arrestano divento un eroe, se mi uccidono mi trasformo in un martire e se mi fanno uscire torno a essere eletto presidente”.

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