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Amica Teheran

Giulio Meotti

Niente #MeToo per le ragazze iraniane che strappano il velo. Alle nostre femministe interessa di più spingere per la caduta dei Weinstein. E indignarsi per l’iniqua tassa sugli assorbenti

Sono arrivate a centinaia di migliaia. Hanno attraversato gli Stati Uniti e il Canada per marciare e affermare il loro posto nella società, non più molestate e ai margini, ma libere e al centro. La marcia di quest’anno per i women’s rights si è svolta tutta all’insegna del movimento #MeToo.

 

Tuttavia, il movimento delle donne sembra essere diventato una pedina nelle mani di femministe liberal “consapevoli della diversità” e che hanno deciso di rispettare i misogini nel resto del mondo semplicemente perché il loro antiamericanismo e antioccidentalismo sono diventati una parte intrinseca del movimento dei “diritti delle donne”. Alcune femministe hanno fatto proprio il messaggio che Linda Sarsour, islamista americano-palestinese col velo che una volta ha twittato di voler “togliere la vagina” ad Ayaan Hirsi Ali, dissidente critica dell’islam che ha subito la mutilazione genitale. Alla marcia del 2018, l’egoismo, l’arroganza e l’ignoranza neofemminista potevano essere notate con generosa abbondanza.

 

Le ragazze iraniane in questi giorni hanno sventolato una bandiera bianca per protestare contro l’obbligo del velo da parte del regime dei mullah. Ma la loro non era affatto una resa. Quella è stata decisa dalle femministe.

Molto prima della marcia di Washington, Toronto, Los Angeles e di altre città, le donne in Iran si erano da giorni ribellate in modo coraggioso per attaccare gli ayatollah che, dal 1979, hanno imposto loro hijab e chador. Più a occidente, le ragazze-soldato delle milizie Ypg curde erano invece impegnate a resistere all’invasione della Siria da parte delle forze armate turche. La marcia delle donne avrebbe potuto pronunciare parole di solidarietà per le donne iraniane e curde, ma non è successo. Non è stata detta una sola parola. Se le organizzatrici avessero sostenuto che la marcia riguardava soltanto le donne in occidente, avrebbero avuto almeno un briciolo di onestà. Ma non è stato questo il caso. A Los Angeles, Thandiwe Abdullah, figlia della fondatrice di Black Lives Matter, ha tenuto un discorso a sostegno delle donne palestinesi e ha definito Israele “stato di apartheid”. In Canada, una femminista raccontava invece “le atrocità contro le compagne Rohingya” (la minoranza islamica in Birmania). Se le donne Rohingya e palestinesi potevano trovare spazio nella marcia delle bianche femministe americane, perché le donne iraniane e curde ne sono state escluse?

 

Nel frattempo, la ragazza iraniana che aveva protestato contro il codice forzato dell’hijab veniva dispersa e arrestata. Dalla rivoluzione iraniana del 1979, le donne iraniane sono state costrette a coprirsi i capelli secondo la legge islamica della “modestia” e ad indossare abiti fino al ginocchio. La donna che si è tolta il velo e lo ha sventolato è stata in seguito identificata come Vida Movahed. Quasi nessuna femminista, autoproclamatasi tale, si è rallegrata che le donne iraniane si fossero ribellate alla dittatura del velo. Come ha scritto Rita Panahi, “mentre le coraggiose donne iraniane protestavano contro le leggi sull’hijab, le femministe occidentali celebravano l’hijab”.

 

Il 1° febbraio trenta ragazze iraniane venivano arrestate. Quel giorno, in occidente, si celebrava invece la Giornata del velo

In Australia, infatti, la cui ministra degli Esteri Julie Bishop si è velata per visitare l’Iran, il dipartimento al Commercio estero in quelle ore lanciava una nuova entusiasmante iniziativa: “modest Australian fashion”. Ovvero la fiera dell’abbigliamento islamico. Questo poche ore dopo l’annuncio che l’hijab della Nike era tra i vincitori del Design of the Year 2017 del London Design Museum. I giudici inglesi hanno ritenuto che “potrebbe cambiare il volto dello sport per le donne musulmane”. Non stiamo parlando del cupo indumento islamico di Raqqa o Kabul, ma di una impresa islamica occidentalizzata, colorata e “fashion”. Prima è la donna musulmana che indossa un hijab su Playboy. Poi Aab, uno dei principali rivenditori al mondo di abbigliamento islamico, che apre la prima boutique a Londra, giusto in tempo per la London Fashion Week. Poi Vogue Arabia che pubblica il primo numero. Poi la Mattel che fabbrica la prima Barbie che indossa l’hijab. Poi l’annuncio di Vogue: “Dolce & Gabbana sta producendo una collezione di hijab e abaya (il velo saudita integrale per le donne) destinata ai clienti musulmani in medio oriente. Per le donne musulmane con un gusto per la moda di lusso, questa collezione è uno sviluppo entusiasmante”.

 

Sfortunatamente, per le donne iraniane il velo non è uno “sviluppo entusiasmante”, ma un’imposizione odiosa del regime. Nei giorni scorsi, trenta altre ragazze iraniane si sono tolte il velo e lo hanno sventolato con una canna agli angoli delle strade e delle piazze dell’Iran, sapendo che pochi minuti dopo sarebbero finite in carcere. La Guida suprema, Ali Khamenei, aveva detto di voler fermare questa “invasione culturale occidentale”. La polizia avrebbe preso di mira le donne troppo libere. Vietati i jeans stretti, i tatuaggi, gli abiti dai colori accesi e le unghie lunghe. Banditi pure i body piercing, le gemme nei denti, i cappottini stretti. Gli occhiuti moralizzatori fanno attenzione in particolare alle donne che vestono “come modelle”. Vietati i foulard che lasciano uscire ciuffi di capelli.

 

Quando lo scorso autunno le forze americane e curde hanno liberato Raqqa, tante donne della città siriana sono scese per strada per bruciare i lugubri veli che l’Isis aveva loro imposto. In occidente quasi nessuno se ne è accorto. Nessuna femminista ha gioito con sit-in, flash mob o altri eventi per attirare l’attenzione. La caduta di Harvey Weinstein, della Hollywood del patriarcato e del sessismo istituzionalizzato, aveva già occupato tutta l’immaginazione del femminismo occidentale. Negli stessi giorni in cui veniva lanciato l’hashtag #MeToo, le combattenti curde facevano cadere Raqqa e liberavano, oltre alla città, anche molte schiave yazide.

 

Il 1° febbraio in occidente si celebrava la Giornata mondiale del velo. In Iran, le donne venivano arrestata per essersi tolte il velo. Nessuna rappresentante ufficiale dell’Unione europea, non certo Federica Mogherini, si è esposta a difesa delle donne iraniane. Nessuna delle femministe svedesi, un anno fa lestissime a marciare col velo di fronte agli ayatollah iraniani, ha detto nulla sull’incarcerazione delle iraniane. Non certo Ann Linde, la ministra svedese che aveva guidato la delegazione di donne e ufficiali di Stoccolma velate di fronte agli ayatollah. Non certo Lady Ashton, che a Bruxelles occupò la sedia oggi di Federica Mogherini. Ashton cominciò col colletto aperto, continuò con un foulard e l’opposizione iraniana ha finito, almeno nella satira, per farle indossare un chador, la tunica tradizionale iraniana che copre la donna dalla testa ai piedi. Ashton era arrivata a un giro di colloqui a Istanbul con gli iraniani avvolta in una grande sciarpa bianca che ne copriva la camicia, un “gesto” accolto con favore dagli iraniani, i cui media di stato avevano in precedenza coperto il collo della Ashton rimasto fuori dalla giacca.

 

Parla Chesler: “Le donne occidentali sono state persuase che è bello indossare il velo e lo difendono come un diritto religioso”

Le ragazze iraniane non hanno trovato sponda nelle femministe che dominano i big media americani, come Diane Sawyer. D’altronde fu la stessa giornalista che, sulla Abc, intervistò il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, il grande moralizzatore, ben avvoltolata nell’hijab. Caroline de Haas, la femminista francese che si è scagliata contro Catherine Deneuve che ha rivendicato sul Monde la libertà di essere “importunata” e contro il “puritanesimo”, non sembra neppure sapere dell’esistenza di un paese chiamato Iran e che è governato da puritani. Nel dubbio, se scegliere fra l’antisessimo o l’antirazzismo, le femministe europee per le donne musulmane privilegiano il secondo. Guai a farsi dare di “islamofobe”.

La National Organization of Women, la Now, non ha detto nulla sulle ragazze iraniane. Non una sillaba da parte della American Association of University Women, altra storica organizzazione femminista americana. Niente da parte della Ywca, la più antica assise femminista al mondo. Niente da parte di Naomi Klein. Nulla nemmeno da parte delle ufficiali dell’Onu. Le donne iraniane sono le uniche nel mondo islamico che sfidano apertamente la dittatura dell’imamato islamico. Non accade altrove, non in Arabia Saudita o in Qatar. Il messaggio che lanciano loro le femministe è questo: noi, femministe occidentali, prima ci sdilinquiamo, poi facciamo la morale al maschio bianco e condanniamo l’uso del corpo femminile; voi, ragazze dell’oriente esotico e islamico, vi lasciamo abbracciare tutto il vostro “pudore” e l’imposizione del burqa come forma di “rispetto culturale”.

 

Nei giorni in cui veniva lanciato l’hashtag #MeToo, le donne di Raqqa venivano liberate dall’Isis dalle donne curde

Era già successo. La rivista Time l’aveva definita “la morte più ampiamente testimoniata nella storia dell’umanità”. E’ il momento in cui una pallottola ha colpito Neda Soltan al petto e lei ha ansimato a morte in una affollata strada di Teheran, in Iran. Soltan stava protestando per i risultati delle elezioni del 2009 quando è stata colpita e uccisa dalle Guardie rivoluzionarie. E’ morta per strada come un animale per aver osato protestare. Neda Soltan non era politicamente attiva, ma come la maggior parte dei manifestanti voleva dire di esserci. Aveva lasciato l’università perché era stata attaccata a causa della sua scelta liberale nel vestirsi. Le femministe americane, che quest’anno hanno dato battaglia contro la “tassa degli assorbenti”, non hanno ritenuto importante battersi per Neda. Un anno fa Dorsa Derakhshani, diciottenne campionessa di scacchi femminile, è stata bandita dalla nazionale iraniana per essersi esibita senza il velo islamico in un torneo a Gibilterra. Le femministe avevano sicuramente qualcosa da dire sul caso Derakhshani, giusto? Purtroppo no. Masih Alinejad, una giornalista e attivista iraniana, ha lanciato la campagna #MyStealthyFreedom per protestare contro le leggi che impongono alle donne di indossare l’hijab in Iran. Paikidze-Barnes non è sola. Ma è stata lasciata sola in occidente.

 

Alle marce delle donne cori contro il bando di Trump dai paesi musulmani, non uno slogan contro i regimi che impongono il velo

C’è qualcosa di terribilmente sbagliato quando un milione di donne possono trovare i soldi e il tempo per recarsi a Washington, acquistare cappelli rosa e scendere in strada indossando l’hijab per protestare contro Donald Trump e il suo bando dei sette paesi musulmani, ma sono reticenti e accondiscendenti quando si tratta delle pene di milioni di donne (come Derakhshani) che sono represse per non aver indossato l’hijab. Per qualche ragione, quando si tratta di altre culture, le femministe sono più che pronte e prone a giustificare la discriminazione di massa sulla base del fatto che quel paese è stato abusato o maltrattato dall’imperialismo occidentale, fornendo in qualche modo una clausola di “uscita” quando si tratta di diritti umani per i propri popoli. Questo porta ad alleanze sbalorditive. Ad esempio, nel dicembre 2015, le società femministe e Lgbt della Goldsmith University di Londra si sono alleate con la società islamica fondamentalista del college, contro l’ex attivista per i diritti umani e iraniana, Maryam Namazie, che si oppone all’hijab.

 

“Le esiliate iraniane in Europa e Stati Uniti, come le femministe sikh, parlano eccome delle donne iraniane”, dice al Foglio Phyllis Chesler, docente alla City University di New York, femminista e giornalista. “Il problema sono le femministe di sinistra, le postmoderniste, le ‘intersezionali’, quelle che marciano con il cappellino rosa con le orecchie da gatto e denunciano la violenza maschile in occidente ma la negano nel tribale e totalitario oriente, per ragioni di antirazzismo che, a loro avviso, viene prima dell’antisessismo. Molte femministe occidentali hanno definito l’hijab come un atto di resistenza, una protesta contro il razzismo e in particolare contro la presunta islamofobia. Le donne musulmane in medio oriente, estremo oriente e Africa sono costrette a indossare l’hijab, non per una libera scelta. Molte vengono picchiate, alcune sono uccise in delitti d’onore quando si rifiutano di farlo o lo fanno in modo improprio. Inoltre, come molti altri attivisti occidentali, sono state persuase a indossare l’hijab. E’ un requisito religioso (al contrario di un’usanza etnica o culturale) e come tale, gli occidentali lo difendono come un diritto religioso”.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.