La capitale di Israele è l’unica città dal Nordafrica all’Asia minore dove vivono e pregano ebrei, cristiani e musulmani (i non ebrei costituiscono un quinto della popolazione) (foto LaPresse)

In un medio oriente sempre più monocolore

E' Israele il paradiso delle fedi, Gerusalemme il suo cuore

Giulio Meotti

Ovunque si cacciano i cristiani, muoiono antiche fedi sincretiste e i siti religiosi (anche musulmani) sono in pericolo. Dallo stretto di Gibilterra al Golfo persico esiste un solo rifugio spirituale: lo stato ebraico

A fine novembre, lo sceicco Mowafak Abu Tariff, capo spirituale dei drusi in Israele, si è incontrato con il comandante della divisione nord dell’esercito israeliano, Yoel Strick. Hanno stretto un accordo: se i terroristi islamici di al Nusra avessero tentato di prendere i villaggi drusi nel Golan siriano, l’esercito con la stella di Davide sarebbe intervenuto per prevenire un altro massacro. Un’autobomba aveva appena ucciso nove fedeli di questo antico sincretismo religioso e filosofico. E nel 2015 venti drusi, tra i quali anziani e bambini, erano stati massacrati dai miliziani di Nusra nel villaggio di Qalb Loze, nel nord-ovest della Siria. “L’esercito israeliano è pronto ad aiutare gli abitanti del villaggio per un impegno preso nei confronti della popolazione drusa”, aveva annunciato l’esercito israeliano. E’ bastata la minaccia a salvare i drusi.

 

Faceva impressione vedere tutti quei drusi coi loro mustacchi e il copricapo ringraziare gli israeliani. Nello stesso esercito israeliano, oltre confine, servono migliaia di drusi che vivono nei villaggi del Carmelo e della Galilea. La loro alleanza con gli ebrei si radica nel sangue della guerra d’Indipendenza del 1948 e, prima, nell’emigrazione ebraica degli anni Venti. I drusi hanno regalato a Israele trecento vite nelle guerre dal 1948 in avanti (molti poliziotti israeliani uccisi nelle recenti ondate di violenze a Gerusalemme erano drusi).

 

Adesso è un gran moraleggiare sulla stampa e nei media sulla necessità di tenere Gerusalemme “città aperta” dopo la decisione americana di riconoscerla capitale di Israele. Sul Corriere della Sera, Donatella di Cesare chiede per la città, e come lei tanti altri, di diventare “banco di prova di future lungimiranti relazioni fra i popoli”. Basterebbe una cartina del medio oriente per vedere che, in una fascia di terra che va dallo Stretto di Gibilterra al Golfo Persico, c’è soltanto una città e un paese “banco di prova di future lungimiranti relazioni fra i popoli”.

 

Israele è appena intervenuto in Siria per salvare dalla persecuzione islamista di al Nusra i drusi, che nello stato ebraico già sono protetti

Ogni anno ce lo conferma la World Watch List di Open Doors, la ong americana che stila la classifica dei paesi che perseguitano i cristiani. A eccezione di Corea del Nord e Afghanistan, si trovano tutti ai confini d’Israele. A nord c’è il Libano, una sorta di Yugoslavia mediorientale dove oltre a non esserci più gli ebrei, i cristiani, i sunniti e gli sciiti sono sempre sull’orlo di una guerra civile. Poi la Siria, collassata su se stessa, dove l’odio religioso e settario ha fatto macelli e gassati. Oltre l’Iraq, da cui i cristiani sono scappati e le minoranze, come gli yazidi, sono finite nelle fosse comuni.

 

Nel 2017, la popolazione di Israele ha raggiunto gli otto milioni e 680 mila abitanti. Di questi il 74 per cento (sei milioni e mezzo) sono ebrei. Gli arabi sono il venti per cento della popolazione (1,8 milioni), mentre gli “altri” (cristiani non arabi, bahai e altre minoranze) costituiscono il cinque per cento della popolazione. Il paragone che va fatto è con uno stato arabo, come la Tunisia o l’Egitto, che oggi avrebbe dovuto avere una cospicua minoranza ebraica e un’altra cristiana. Entrambe, queste ultime, sono svanite ovunque o lo stanno per fare. Invece la popolazione araba in Israele è oggi molto più grande di quanto non fosse durante il mandato inglese.

 

L’anno scorso, Israele ha perfino riconosciuto l’esistenza di un nuovo gruppo di cristiani, gli “aramei”, entro i suoi confini; qualcosa che nessuna nazione araba o musulmana in medio oriente ha mai fatto o avrebbe mai fatto. Israele ha riconosciuto un distinto gruppo religioso ed etnico: gli indigeni dell’antica Mezzaluna fertile. La loro lingua, l’aramaico, era parlata da Gesù secoli prima che l’islam arrivasse nella regione. Johnny Messo, presidente del Consiglio mondiale degli aramei, ha elogiato Israele “per essere il primo stato al mondo a riconoscere il nostro popolo in linea con il diritto internazionale. Ci incoraggia a continuare la nostra lotta per il nostro riconoscimento in Turchia, Siria, Iraq e Libano”. “L’unico rifugio sicuro per il nostro popolo nell’intera regione è Israele”, ha detto Jahn Zaknoun, portavoce della Christian Aramaic Society in Israele. “E’ l’unico posto in cui stiamo crescendo demograficamente nell’intera regione. Nel 1948 vi erano tra i 50 e i 70 mila aramei nel paese, e oggi ce ne sono 130 mila”.

 

Per capire l’unicità di Israele ci sono proprio i due gruppi di aramei. Quelli in Israele, che crescono, che sono riconosciuti e che vivono al sicuro. E quelli in Siria, nelle montagne a sud di Damasco, nella piccola città di Maalula, a lungo sotto assedio nella guerra civile fra gli islamisti e il regime di Assad. Come per i drusi. Protetti dentro a Israele, esposti ai massacri e alla spoliazione fuori dai suoi confini.

 

Nessun altro paese fra Africa e Asia minore ha simili percentuali di pluralismo confessionale. Haifa è la città più multietnica del medio oriente. Vi sono ebrei, cristiani, musulmani sia sunniti che sciiti (forse solo in Israele pregano nelle stesse moschee), drusi e bahai, la comunità religiosa originaria dell’Iran che ha in Israele il suo quartier generale. La minoranza sincretista bahai, perseguitata dagli ayatollah, ha trovato riparo in quel piccolo stato, più piccolo della Toscana, con i suoi ventimila chilometri quadrati, a confronto con i paesi arabo-islamici che lo circondano su una superficie di tredici milioni di chilometri quadrati.

 

Oltre i confini di Israele si consuma l'odio religioso: l'ultima strage nel Sinai contro i musulmani sufi da parte dell'Isis

A testimoniarlo c’è lo splendore del tempio bahai ad Haifa, meta di pellegrinaggio di decine di migliaia di fedeli poiché si tratta del primo luogo di culto della religione fondata dal persiano Mirza Husain Ali Nuri e che si propone di unificare il meglio delle religioni sorte in precedenza, offrendo un messaggio di pace all’umanità. I circa quattro milioni di bahai sparsi in tutto il mondo hanno in Israele il loro grande tempio spirituale, mentre sono atrocemente perseguitati nei paesi musulmani.

 

Il mese scorso, la comunità sufi del Sinai, al confine con Israele, è stata praticamente decimata in una strage che ha ucciso oltre trecento fedeli. Quel Sinai da cui i cristiani, presi di mira dai fondamentalisti islamici, stanno scappando a gambe levate. Lo stesso accade in Siria.

  

Antoine Audo, vescovo caldeo di Aleppo, alla ong Aiuto alla chiesa che soffre ha detto pochi giorni fa che la comunità cristiana è ridotta a meno di un terzo rispetto al 2011. “Dei circa 150 mila fedeli ne rimangono poco più di 40 mila”, molti in case semidistrutte dalle bombe. Dimezzato anche il numero di chiese, ospedali e strutture sanitarie. Quella Siria dove la guerra civile si è trasformata in fratricidio etnico e religioso e in una distesa di rovine di chiese e tesori archeologici come Palmira.

 

Stessa scena ovunque, in Nordafrica come nel medio oriente. In Egitto, dove i cristiani copti subiscono attentati e vessazioni, come in Algeria, dove i cristiani sono costretti a subire discriminazioni continue. La situazione più drammatica è quella dell’Iraq, dove le chiese sono state incendiate e i cristiani scacciati da Mosul. In 120 mila lasciarono le case nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014. I cristiani erano il 95 per cento della popolazione mediorientale nel settimo secolo, il venti per cento nel 1945, il sei per cento oggi e si prevede che nel 2020 si dimezzeranno ancora.

 

“Ci saranno ancora dei cristiani in medio oriente nel Terzo millennio?”, si chiedeva vent’anni fa il diplomatico francese Jean-Pierre Valognes nel libro “Vie et mort des chrétiens d’Orient”. La tanto decantata eterogeneità mediorientale si sta riducendo alla monotonia di una sola religione, l’islam, e a una manciata di idiomi. In Libano, il paese dove i cristiani per decenni hanno avuto la guida della nazione e che confina con Israele, si è passati dal 55 per cento della popolazione a meno del trenta. Il paese è sempre sull’orlo della guerra civile settaria. In Egitto la popolazione cristiana si è sempre attestata sul venti per cento del totale: oggi è scesa sotto il dieci. Erano il diciotto per cento in Giordania, altro stato confinante con Israele, ma oggi sono il due per cento. In Turchia la persecuzione anticristiana ha assunto il volto della spicciola intolleranza, con la mancanza di seminari, il divieto per gli stranieri di diventare sacerdoti e la discriminazione che rende difficile trovare un lavoro, una casa, ottenere un documento. Come ha spiegato Joseph Alichoran, uno dei maggiori specialisti di storia dei cristiani d’oriente, “la maggior parte dei cristiani di Turchia ha subito un genocidio tra il 1896 e il 1923, e tra quelli che non sono morti la maggioranza ha scelto l’esilio piuttosto che restare in un paese negazionista”. I cristiani turchi sono dei “sopravvissuti”. In Arabia Saudita, non si può indossare una tunica, mostrare la croce o pregare in pubblico. Alla Mecca ci sono due uscite autostradali: una per i musulmani e una per i non musulmani (ma di questa apartheid non si parla). Qui la commissione per la Promozione della virtù ha persino suggerito il bando della lettera “X”, perché troppo simile a una croce. Ma sono gli stessi edifici musulmani a finire nel mirino.

 

Gerusalemme ha appena riconosciuto una nuova religione, gli Aramei (i loro fratelli siriani di Malooula stanno peggio)

Dell’epoca di Maometto, alla Mecca restano in piedi solo una ventina di edifici. Gli altri sono stati abbattuti dalla furia iconoclastica wahabita. Distrutta è la tomba di Amina bin Wahb, madre del Profeta. Distrutta la casa di Khadijah, moglie di Maometto. Quella di Abu Bakr ospita l’Hilton. Un destino che ricorda la cupola d’oro di Samarra, in Iraq, abbattuta in un attentato di al Qaida che scatenò la guerra etnica e settaria. Non una sola moschea in Israele è mai stata toccata, nonostante la propaganda palestinese ripeta che la moschea di al Aqsa a Gerusalemme “è in pericolo”.

 

Oggi i cristiani aumentano di numero in un solo paese nel medio oriente: Israele. Dall’ufficio centrale di statistica israeliano leggiamo come nel 1949 ammontavano a 34 mila i cristiani, oggi a 170 mila e a 187 mila è la previsione per il 2020. Negli altri paesi mediorientali, il fanatismo islamista sta cancellando ogni traccia del passato pre-islamico. Gerusalemme è oggi un piccolo paradiso per ogni confessione cristiana (cattolici di rito latino, greco, armeno, etiope, melchita e gli anglicani). Oltre la barriera di sicurezza, i cristiani stanno invece scomparendo.

 

Nel 1950, Betlemme e i villaggi circostanti come Beit Jala erano per l’86 per cento cristiani. Ma alla fine del 2016, la popolazione cristiana si è ridotta a solo il dodici per cento. In tutta la Cisgiordania, i cristiani rappresentano meno del due per cento della popolazione, mentre fino agli anni Settanta i cristiani erano il cinque per cento della popolazione. A Betlemme oggi ci sono solo undicimila cristiani.

 

A Gaza, la situazione per i cristiani è persino più tragica. Nel 2006, quando Hamas ha preso il potere, c’erano cinquemila cristiani a Gaza. Dieci anni dopo, ne rimangono solo 1.100, come ha detto Samir Qumsieh, proprietario di Nativity Tv, l’unica emittente televisiva cristiana palestinese. A Gaza sono stati deturpati cimiteri e statue cristiane. Una folla musulmana nel febbraio 2002 ha attaccato chiese e negozi cristiani a Ramallah. La prima chiesa battista di Betlemme è stata incendiata in almeno quattordici occasioni e il parroco, Naem Khoury, è stato colpito. A Gaza, nel giugno 2007, un leader della chiesa battista, una delle più antiche della zona e che contiene l’unica biblioteca cristiana di Gaza, è stato rapito e assassinato. La scuola della Sagrada Familia è stata incendiata e l’edificio delle suore nel Convento delle Suore del Rosario nel giugno 2007 è stato saccheggiato e sono state bruciati immagini e libri sacri. Non c’è più nemmeno un solo ebreo a Gaza, da quando Ariel Sharon li portò via nel 2005. La Striscia presto sarà una regione interamente islamica.

 

In Israele vive il sessanta per cento in più di cristiani che nei Territori palestinesi. Assieme a un gruppo etichettato come “uno dei peggiori nemici del popolo ebraico”. Hanno attaccato l’autorità dei rabbini e hanno affermato che il Talmud è pieno di falsità, si sono pure alleati con alcuni degli avversari più crudeli degli ebrei, come gli zar russi. Eppure oggi i caraiti – membri di una propaggine ebraica che nega la tradizione talmudica-rabbinica – stanno fiorendo in Israele. Questa comunità sta vivendo un raro boom nella sua storia antica milletrecento anni. Principalmente concentrati nelle città di Ashdod e Ramla, la comunità dei caraiti conta oggi trentamila persone. Nel 1932, solo dodicimila caraiti rimasero in tutto il mondo. Nel 1948, i caraiti – che erano fioriti nel Medioevo sotto il dominio musulmano – subirono la stessa persecuzione nei paesi arabi degli ebrei locali e in fuga dai paesi arabi furono accolti dal neonato governo israeliano (oggi ci sono anche minuscole comunità negli Stati Uniti e in Europa).

 

A Gaza, dove governa Hamas, non c’è più un solo ebreo da dodici anni, ma stanno diminuendo anche i cristiani

Per capire questa unicità di pluralismo di Israele è istruttiva una visita ai samaritani, uno dei più antichi gruppi etnici del mondo. Metà di loro vive a Holon, città-satellite di Tel Aviv, l’altra metà a Nablus, nei Territori della Cisgiordania. Quest’ultimo villaggio samaritano è una autentica énclave di libertà e sicurezza incuneata fra i campi profughi palestinesi, dominio di gang e terroristi. I samaritani vivono fra i palestinesi ma sono protetti dall’esercito israeliano (Gerusalemme gli ha anche dato la cittadinanza). Altrove in medio oriente, altre fedi minoritarie, come gli yazidi, sono state macellate e ora si scoprono in Iraq sempre nuove fosse comuni con i membri di questa comunità. I samaritani erano appena un centinaio quando gli inglesi governarono la Palestina quasi un secolo fa, mentre oggi sono 865, grazie soltanto alla protezione israeliana (si dice che il premier israeliano Benjamin Netanyahu abbia una foto con i sacerdoti samaritani). Lo studioso Nathan Schur li ha descritti come “probabilmente il più piccolo gruppo di persone che ha conservato per molti secoli una propria coscienza nazionale”. Il villaggio samaritano di Kirya Luza è un microcosmo di diversità. C’è una sola strada, ragazzi della locale università di Nablus che parlano in arabo, ragazze in minigonna che parlano ebraico e vengono dalla periferia di Tel Aviv, turisti israeliani e stranieri. Non esiste nulla di simile in tutti i Territori.

 

Mentre gli arabi cristiani fuggono da Iraq, Siria, Egitto, Autorità Palestinese, in Israele vi sono arabi cristiani arruolati nelle forze armate israeliane. Ci sono più musulmani che servono nell’esercito israeliano (mille a oggi) che in quello del Regno Unito.

 

In tutti gli stati confinanti con Israele, la libertà di coscienza dei musulmani è violata ogni giorno, ogni giorno ce n’è qualcuno che finisce al patibolo o in prigione per molteplici reati legati alla fede, dalla lunghezza del velo delle donne al numero delle preghiere quotidiane. In Israele sono al sicuro. I cristiani stanno scomparendo ovunque, gli ebrei se ne sono andati da un pezzo. E’ la pulizia etnica di cui nessuno parla. C’erano 38 mila ebrei in Libia. Ora non ce ne sono più (la comunità ebraica di Roma ha goduto di una iniezione di vitalità grazie all’arrivo di tanti ebrei libici, di cui parla il film “L’ultimo esodo”). In Algeria c’erano 140 mila ebrei, in Iraq 150 mila ebrei, in Egitto altri 80 mila. Dove sono tutti ora? A differenza dei rifugiati palestinesi che si tramandano lo status di profughi di generazione in generazione e che devono la propria condizione a una guerra dichiarata dai loro leader, questi 856 mila ebrei rifugiati dai paesi arabi non hanno mai ricevuto compenso o aiuto internazionale.

 

Di fronte a questo quadro di cancellazione del pluralismo e dell’odium fidei che impazza, qual è lo stato che ossessiona tanto la comunità internazionale e l’occidente in particolare in questi giorni e di cui si vorrebbe con ogni mezzo dividerne la capitale? Israele e Gerusalemme. Uno stato dove le chiese sono meno protette dall’esercito che a Parigi o a Colonia. Mai un solo sacerdote cristiano è stato ucciso in Israele, mentre un anno fa è successo persino in Francia a padre Hamel. Uno stato dove religione e laicità si intrecciano senza negarsi a vicenda, ma dove che tu sia ortodosso, laico, scettico o ateo, non devi rendere conto a nessuno.

 

In una Europa sempre più secolarizzata e su cui preme un medio oriente sempre più monocolore e monoculturale (l’islam fondamentalista), vibra quest’ansia suicida di dividere la capitale di Israele.

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.