Giorgio Napolitano (foto LaPresse)

Napolitano: “Il terrorismo si combatte con ogni mezzo. Schengen? Può essere sospeso”

Redazione
Anticipiamo stralci della Lectio Doctoralis dell'ex  presidente della Repubblica in occasione della Laurea Honoris Causa in storia ricevuta oggi all’Università di Pavia

Anticipiamo stralci della Lectio Doctoralis dell'ex  presidente della Repubblica e senatore a vita Giorgio Napolitano in occasione della Laurea Honoris Causa in storia ricevuta oggi all’Università di Pavia.

 

Muovendomi ancora in questo solco, intendo oggi soffermarmi sull'aspetto dei comportamenti delle leadership e delle forze politiche come concause delle contraddizioni e divisioni da cui oggi è stretta l'Unione Europea, e al tempo stesso come responsabili, guardando avanti, delle scelte che s'impongono per il superamento della crisi e del travaglio in atto.

 

Dalla crisi finanziaria ed economica globale che li ha raggiunti sul finire dello scorso decennio, l'Europa, l'eurozona, il nostro paese stanno uscendo, grazie a una ripresa sia pure insufficiente e ancora malsicura, ma netta. Tuttavia, con le efficaci parole - scritte di fronte a quei segni di ripresa - di un brillante studioso e commentatore, Maurizio Ferrera, possiamo dire che "la terra ha smesso di  tremare e l'euro è sopravvissuto al rischio di disintegrazione, ma le crepe restano. E soprattutto si sono alzati fortissimi venti sul piano politico. I sacrifici imposti durante la crisi e i risentimenti fra popoli e fra governi stanno oggi mettendo a repentaglio la tenuta dell'Unione Europea in quanto comunità di Stati".

 

La crisi finanziaria ed economica, passata anche attraverso la convulsa vicenda greca, è dunque sfociata in crisi politica, e questa, senza soluzione di continuità, in crisi non solo politica ma ideale, di valori e di principi fondamentali. Fattore scatenante e rivelatore la drammatica impennata della pressione migratoria, dell'afflusso, soprattutto, di richiedenti asilo.

 

Concausa rilevante di queste tensioni e contraddizioni, è certamente la mancata percezione, da parte delle nostre nazioni, del radicale mutamento intervenuto da qualche decennio nel contesto mondiale. In effetti, "le nostre nazioni non ne sono state rese consapevoli dai loro governi" : è questa la denuncia che levò già nel novembre 2011, al Congresso della SPD, Helmut Schmidt in un discorso memorabile per drammaticità e per coraggio politico. Schmidt - alla cui figura ho reso omaggio lunedì ad Amburgo  e rivolgo qui un commosso e grato pensiero - passò innanzitutto in rassegna i dati - comuni a tutte le previsioni - che segnalano l'inesorabile perdita di peso dell'Europa nel nuovo contesto mondiale, di qui al 2050, sul piano demografico, in rapporto al prodotto economico globale  e su altri versanti essenziali.

 

"Questo significa" - egli concluse - "che se noi europei vogliamo avere la speranza di mantenere un significato per il mondo, possiamo farlo solo in comune. Infatti, come singoli Stati - in quanto Francia, Italia, Germania o in quanto Polonia, Olanda, Danimarca o Grecia - alla fine potremo essere misurati non più in percentuali, ma solo in millesimi."

 

Constatazioni e previsioni simili sono, negli ultimi anni, certamente venute, sia pure con minore crudezza, anche da importanti personalità attualmente al governo in Europa: ad esempio, dalla Cancelliera tedesca Signora Merkel, quasi a fugare ufficialmente il dubbio che in Germania si coltivi una presunzione di eccezionalità o un'illusione di autosufficienza in quanto maggiore Stato e maggiore economia d'Europa.

 

Ma è un fatto che nell'insieme, e da troppo tempo, non è stata trasmessa, attraverso i canali della politica, agli strati più larghi dell'opinione pubblica e dell'elettorato nei nostri paesi, una realistica presa d'atto di come sia strutturalmente - nel profondo e in prospettiva - cambiato lo status dell'Europa. Per effetto di molteplici eventi storici, confluiti nel più ampio processo di globalizzazione, dobbiamo più che mai parlare - come ha fatto il vecchio Cancelliere nel discorso che ho già richiamato - del "nostro piccolo continente europeo".

 

Il baricentro dello sviluppo mondiale si è spostato lontano dall'Europa e dall'Atlantico. Abbiamo di fronte nuovi grandi protagonisti economici e politici. I paesi emergenti, "i mercati emergenti" - come ha di recente rilevato il Presidente Draghi - "valgono il 60% del prodotto mondiale ; a partire dal 2000 tre quarti della crescita mondiale sono dovuti a loro, la metà delle esportazioni dell'area dell'euro va in questi mercati". E se essi registrano in questo momento un rallentamento "probabilmente non transitorio", ciò può preoccupare in generale, ma non attenua per l'Europa i termini della sfida ardua come non mai che ci tocca fronteggiare. Sfida di cui sono parte integrante i ritmi della rivoluzione tecnologica, le leggi inesorabili della competitività.

 

In che misura di tutto ciò hanno le nostre classi dirigenti e leadership politiche dato coscienza ai cittadini-elettori? Non perché vi si reagisse con spirito rinunciatario, subendo come fatale declino quella che è una dura partita da combattere. Ma perché la si combatta uniti, al fine di "mantenere come europei un significato per il mondo" pur avendo perduto la condizione privilegiata di cui godevamo : al fine dunque di dare ancora un nostro peculiare contributo alla costruzione di un nuovo sviluppo e ordine mondiale, salvaguardando anche per i nostri paesi, per le nostre società, l'essenziale delle conquiste di civiltà e di benessere via via raggiunte.

 

Purtroppo si è lasciato che si radicassero ampiamente sordità e miopie, quasi un voler tenersi lontani da realtà sgradevoli e allarmanti ; si sono lasciate fermentare reazioni di rigetto e di chiusura, illusioni anacronistiche di conservazione dell'esistente e di prolungamento delle aspettative coltivate nel passato. Sono qui le responsabilità della politica, per le debolezze e le ambiguità che l'hanno segnata per anni.

 

Siamo, così, dinanzi a regressioni nazionalistiche, a insorgenze populiste, ad estremismi vecchi e nuovi, che hanno congiurato nell'oscurare contrastare la sola autentica necessità storica per l'Europa, coincidente con l'interesse strategico di lungo periodo degli Stati nazionali europei : la necessità, cioè, di una crescente cooperazione e integrazione, e oggi, ormai, di un vero e proprio salto di qualità verso l'unione politica.

 

Procedere in tale direzione è precisamente la responsabilità in positivo che la politica è chiamata ad assumere. Si tratta di partire da un'agenda fatta di urgenze, su cui si affannano e dividono le istituzioni dell'Unione : urgenze da sciogliere in un orizzonte più lungo di quello dominante, nel senso di un'effettiva progressione verso forme via via più avanzate di integrazione, soprattutto nell'Eurozona.

 

E' ciò che sta accadendo sul tema emerso negli ultimi mesi come ineludibile e dirompente: la crisi dei profughi. Ed è quel che non deve accadere di fronte al repentino imporsi, in queste settimane, al centro dell'attenzione e nel modo più drammatico, della sfida mortale del terrorismo, del fanatismo estremo in veste di Stato Islamico.

 

Questa sfida, e la necessità di fronteggiarla in tutta la sua complessità, hanno in questo momento un tale spazio nelle ansie dei cittadini e dei governi da sommergere, quasi, tutte le tematiche e preoccupazioni precedenti. Ma, attenzione : i nodi accumulatisi nella realtà europea e nel governo dell'Europa permangono e non possono restare irrisolti.

 

Parto dalla crisi dei profughi, con cui avremo comunque e a lungo da fare i conti. E anche a questo proposito il primo imperativo è portare avanti la nostra visione e costruzione europea, non fare fatali passi indietro.

 

Con la lucidità e l'equilibrio di sempre, Jacques Delors è intervenuto con una dichiarazione del 7 novembre  per reagire alle mistificazioni - "i profughi sono delle vittime, non delle minacce" - e per sostenere la causa dell'accoglienza e dell'integrazione. Ma lo ha fatto senza contrapporre l'appello per più solidarietà alle preoccupazioni per la sicurezza. E ciò è divenuto cruciale dinanzi all'acuirsi - sotto il drammatico urto degli sconvolgenti attacchi del terrorismo a Parigi - della stringente necessità, nella percezione ormai comune a tutti gli Europei, di un impegno in prima persona dell'Europa per la sicurezza : impegno per troppo tempo trascurato o delegato ad altri.

 

Delors, intervenendo con quella dichiarazione prima del sanguinoso venerdì 13 novembre, ha sottolineato che al fine di garantire il controllo delle nostre frontiere anche rispetto alle incursioni terroristiche, occorre non retrocedere verso la scelta inefficace della tutela da parte di ciascuno Stato dei propri confini nazionali, bensì difendere e rafforzare strumenti come l'accordo di Schengen e altri che ci hanno permesso e possono permetterci ancor più di europeizzare un approccio che coniuga più libertà - la grande conquista della libera circolazione delle persone - e più sicurezza.

 

E questo punto appare cruciale, alla luce della drammatica esperienza dell'attacco terroristico a Parigi : il controllo delle frontiere, come, in ciascun paese, il controllo del territorio, sono il quadro entro cui poter agire insieme al livello europeo per disinnescare la minaccia del terrorismo, che siamo chiamati a contrastare, in uno con l'ISIS,  con ogni mezzo sul piano internazionale. Il netto riferimento all'accordo di Schengen - che contempla peraltro sospensive imposte dall'emergenza e può consentire altri accorgimenti senza essere stravolto - sta a ribadire la validità di un approccio comune europeo, e della salvaguardia di conquiste di libertà da non sacrificare dandola vinta ai nemici dei nostri valori fondanti.

 

[**Video_box_2**]E c'è di più : guardare al mondo d'oggi significa per noi innanzitutto misurarci con  afflussi massicci (non solo verso l'Europa !) di richiedenti protezione e asilo in fuga da guerre devastanti - come quella dilagata oltre ogni previsione in Siria -  o da conflitti e persecuzioni in paesi di cronica disgregazione e violenza armata. Ma dobbiamo misurarci anche con un altro fenomeno, quello dell'emergere di una reazione impetuosa da parte delle popolazioni di aree - specie in Africa - che permangono in condizioni di estrema indigenza e di generale degrado. E accanto ad esse ci sono invece paesi e continenti nei quali, e grazie a trasformazioni profonde, sono in breve tempo uscite dalla povertà centinaia di milioni di persone, o si sono avviati (nella stessa Africa) rilevanti processi di rapido sviluppo. Si sono così accresciute - e in modo visibile - le disuguaglianze, e con esse il senso di insopportabilità e la volontà di evasione da un destino penoso e mortificante.

 

Ciò si traduce in una forte spinta migratoria, sollecitata e sfruttata da organizzazioni criminali senza scrupoli, e in gran parte diretta verso l'Europa che, nonostante il suo travaglio e il suo minor dinamismo economico, appare ancora "terra promessa".
Diventa dunque decisivo un rapporto di dialogo chiarificatore e di cooperazione concreta e generosa tra l'Europa e i paesi di provenienza di tale afflusso di migranti economici, in cerca di lavoro. Effettuando, certamente, un rigoroso screening tra questi ultimi e quanti giungono nei nostri paesi con evidenti titoli per ottenere l'asilo, operando perché agli arrivi illegali conseguano concordate riammissioni nei paesi di origine, ma si accompagni altresì "la creazione" - come suggerisce Delors - di "rotte europee di immigrazione legale", entro limiti e con controlli ben definiti.