(foto Ap)

L'altra faccia del nimby

L'Africa e i paesi in via di sviluppo tornano a sentirsi colonizzati, in nome dell'ambientalismo

Jacopo Giliberto

Sfruttati dall’occidente o indotti a impiegare modelli energetici che frenano l’uscita dalla povertà. Ma a causa di questa nuova forma di colonialismo verde, i paesi del continente rimandano l'appuntamento con lo sviluppo

[Avvertenza per l’uso. Molti sentiranno pungere la loro coscienza, diversi attribuiranno ciò non alla coscienza bensì all’indignazione per l’articolo che segue e qualcuno di essi penserà: “E’ un trucchetto molto comune: ricordarsi che esistono i poveri africani soltanto quando è messo in discussione lo sfruttamento di petrolio e gas”].

Da alcuni anni analisti e studiosi cominciano a chiedersi se una parte della spinta di noi cittadini, dei capitali e dei fondi d’investimento verso l’ecologia nasconda una forma di eco-colonialismo. Questi analisti pensano che la nostra sensibilità ambientale danneggi – a volte, che sfrutti – i poveri del mondo. Ci descrivono così: noi esigiamo che siano ecologici e verdi la nostra vita, gli investimenti nel greenwashing, il nostro territorio vocato per il turismo culturale e l’agricoltura di qualità, e chìssene se ciò comporta lo sfruttamento di quegli straccioni laggiù.

 

Lo chiamano colonalismo verde, il neo-colonialismo del clima oppure (con un gioco lessicale che impone mezzo secondo per risolverlo) CO2lonialismo. Un esempio di questa denuncia è l’articolo scritto diversi mesi fa su Newsweek dall’autoritario e irremovibile presidente dell’Uganda, Ioweri Kaguta Museveni. Sintesi di Museveni: voi europei ipocriti aprite le miniere di carbone in Germania e intanto chiedete a noi africani di realizzare impianti rinnovabili invece di lasciarci uscire dalla povertà; il vostro è neocolonialismo climatico. Dall’Africa alla costa pacifica degli Stati Uniti. Racconta il periodico High County News di Paonia (Colorado) la resistenza del popolo Yakama contro la realizzazione di un bacino idroelettrico vicino a Goldendale, nello Stato di Washington. Titolo: “Il colonialismo verde sta inondando il nord-ovest del Pacifico”.  E non è molto diversa in Norvegia la vicenda della lotta del popolo Sami, a lungo oppresso, contro la realizzazione di parchi eolici nella loro Lapponia norvegese. L’accusa è neocolonialismo; è insospettabilmente bianco e scandinavo, ma a molti appare come un neocolonialismo nitido e purissimo. 


L’autoritario presidente dell’Uganda Museveni ha accusato gli europei di neocolonialismo climatico


Se si scende sulla scala minuscola della quotidianità del cittadino singolo, ecco il nostro disappunto per la perdita del colore etnico. Con la globalizzazione e il reddito più alto, gli egiziani indossano t-shirt e non usano più i dromedari; i messicani non calzano il sombrero di paglia; le donne africane invece delle giare di terraglia equilibrano sulla testa taniche di polietilene. Disgraziata modernità, che li ha fatti uscire quasi tutti dalla miseria così etnica e pittoresca. 

 

Per riconoscere in noi questo meccanismo che ci viene attribuito, dobbiamo leggere i fenomeni nimby (no ai giacimenti qui, nel mio territorio; ma poi vado dal benzinaio e finanzio dittature feroci, califfati e oligarchi i quali opprimono i popoli lontani, ma chìssene; tanto quelli sono buzzurri). E poi chiedere che laggiù smettano di emettere CO2; usino vetture elettriche; rinuncino agli Ogm e al cibo sterile, economico e abbondante; asiatici e africani smettano di inquinare con la plastica dei flaconi del detersivo o delle bottiglie di bevande. Sono segnaletiche le frasi come “un mondo sempre meno sicuro”, “dobbiamo smettere di produrre troppo”, “per colpa della deforestazione e delle coltivazioni intensive” e così via.

 

Per salvare il pianeta, miliardi di persone devono tornare a bere l’acqua opaca delle abbeverate portata con le giare in equilibrio sulla testa, e chìssene.  Un cenno del fenomeno era stato anticipato due anni fa da Carlo Stagnaro e Chicco Testa, i quali scrivevano sul Foglio (26 maggio 2021, “I guai dell’energia pulita”) che intorno al 2050 non dovrebbero essere più in circolazione auto con motore a carburante: solo elettriche. Stagnaro e Testa: “Questo è possibile, forse, a Milano, Parigi o San Francisco. Ma come avvenga a Mumbai, Nuova Delhi, Nairobi o Lagos, città con decine di milioni di abitanti, con consumi elettrici, quando ci sono, a livelli infimi, con reti elettriche poverissime e instabili, con frequenti black-out e cadute di tensione continua sfugge a ogni previsione di buon senso”. 
E’ interessante notare il fatto che la Francia – paese di forte tradizione colonialista – abbia sviluppato un filone importante di analisi sulle forme di questo asserito colonialismo verde. Già negli anni 50 diversi intellettuali francesi alzavano la bandiera verde della tutela naturale. “L’unica cosa che mi interessa è la protezione degli elefanti”, era il motto di Morel, il protagonista del romanzo “Le radici del cielo” con cui Romain Gary vinse il Premio Goncourt nel 1956 e da cui nel 1958 venne tratto un film di successo. Da allora, tra il Sahel e l’Africa centrale l’ecologista idealista francese Morel è diventato il simbolo della conservazione di un’Africa selvaggia e primitiva, quella così pittoresca rimasta alle giare piene di acqua opaca portate in equilibrio sulla testa. Una figura di rilievo dello studio storico dell’ambientalismo è Guillaume Blanc. Nel saggio “L’invenzione del colonialismo verde” (Guillaume Blanc, “L’invention du colonialisme vert. Pour en finir avec le mythe de l’Éden africain”, prefazione di Francois-Xavier Fauvelle, Flammarion, 326 pp., 21,9 euro), Blanc descrive un’Africa devastata non dal pericolo ambientale bensì dal pericolo ambientalista, in cui il neocolonialismo espelle gli africani e si appropria della conservazione della natura. “Di tutte le politiche che segnalano la continuità con il tempo delle colonie, quelle della natura sono in prima linea”, osserva Blanc.


Blanc descrive un’Africa  in cui il neocolonialismo espelle gli africani e si appropria della conservazione della natura


L’Africa è percorsa da legioni di epigoni di quel Morel. Donne e uomini appagano i loro sensi di colpa – la colpa di essere bianchi, europei o nordamericani – e difendono foreste e montagne; proteggono i gorilla minacciati non solamente dal capitalismo ma anche dalle popolazioni indigene, attratte dal capitalismo e considerate insensibili o addirittura estranee alla bellezza di questa biodiversità.   

 

Un esempio ci viene descritto dal New York Times del 14 marzo scorso, dove un grande reportage racconta che gli ecologisti si oppongono a una corsa al petrolio che minaccia le meraviglie dell’Africa orientale; i governi di Uganda e Tanzania sono coinvolti nei progetti delle perforazioni e di un grande oleodotto, e dichiarano obiettivi di sviluppo e benessere per la popolazione. Adesso a questa stessa frase aggiungo gli aggettivi suggeriti dalla mia sensibilità indignata di ecologista: una capitalistica corsa all’inquinante e corruttivo petrolio minaccia le meraviglie dell’Africa orientale; i governi di Uganda e Tanzania millantano obiettivi di sviluppo per la popolazione ma so bene che è il solito magnamagna, e per fortuna gli ecologisti giustamente si oppongono. 

 

Hamza Hamouchene, coordinatore per l’Africa settentrionale del Transnational Institute (Tni), in novembre descriveva il neocolonialismo verde sulla rivista Middle East Eye attraverso una sua analisi con il titolo “Climate crisis: Green colonialism is a new form of empire”. Dice: l’ecologia assicura all’uomo bianco la missione civilizzatrice, un modo per arraffare le risorse, privatizzare beni comuni, impoverire le comunità e consolidare un percorso segregante di transizione energetica. “La natura africana merita di essere preservata dagli africani stessi”, riassume Francois-Xavier Fauvelle nella prefazione al saggio di Guillaume Blanc sul neocolonialismo verde. 


“Gli africani poveri hanno  più da guadagnare dai combustibili fossili di quanto hanno da perdere con il climate change”


Proteggere la natura dagli africani. Nel nord dell’Etiopia per l’istituzione del Parco nazionale del Simien voluto dall’Unesco e dal Wwf dal 1963 è stato creato l’ambiente che poi verrà descritto dal cartone “Il Re Leone”, i tramonti mozzafiato, la natura dei safari fotografici e dei documentari, in cui l’intero regno animale e vegetale sono ricompresi nel ciclo della vita. Magia totale. Semplice. Scrive Blanc che per creare quel paradiso così emozionante da poterci ambientale un cartone animato di successo e poi un film, gli abitanti ne erano stati sfrattati e chi rimane è criminalizzato: il cacciatore tradizionale è definito il bracconiere; l’allevatore e l’agricoltore sono agenti di erosione del suolo.  Questo dice lo storico dell’ambientalismo Guillaume Blanc. E per questo motivo è odiatissimo dagli altri ecologisti. 

 

Resto nel settore degli ambientalisti odiati dagli altri ambientalisti. Michael Shellenberger è uno scrittore, giornalista e attivista ambientale che suscita dermatite verde per le sue posizioni eterodosse. Nell’ottobre 2021 ha scritto su Twitter: “L’Onu sta facendo greenwashing con la sua campagna per negare l’energia a buon mercato agli africani mostrando immagini di africani poveri. E’ sbagliato e disgustoso. Gli africani poveri hanno molto più da guadagnare dai combustibili fossili di quanto hanno da perdere con il cambiamento climatico, secondo la ricerca dell’Ipcc e della Fao dell’Onu”. (Ecco, ora Shellenberger ha suscitato anche in me la dermatite verde). 

In sostanza, i sostenitori della tesi dicono che i paesi europei vogliono diventare ecologici sfruttando l’Africa. Citano ad esempio il fatto che l’Inghilterra progetta di usare il Marocco (già colonia francese e spagnola) per produrvi energia fotovoltaica e importarla con un colossale elettrodotto sottomarino da posare per migliaia di chilometri sul fondale dell’Atlantico al largo di Gibilterra, Portogallo e Francia. La Germania e il Belgio intendono produrre idrogeno in Africa dalla Namiba, già colonia tedesca. 

Il mondo ecologista si oppone ferocemente allo sfruttamenti dei giacimenti di gas nel poverissimo Mozambico, che fu colonia francese; Olatunde Okeowo, senior associate della società di consulenza energetica Rmi, commenta sul media indipendente Npr che per alcuni paesi africani le enormi riserve di gas fanno parte della “giusta transizione”; dice che bisogna usare i proventi degli idrocarburi per alimentare lo sviluppo economico e un eventuale passaggio alle energie rinnovabili. Raccontava nel settembre scorso su Domani l’ecologista Edoardo Zanchini che in Sudafrica i ricchi bianchi si staccano dalla rete con solare e batterie e lasciano ai poveri i problemi e i costi di un sistema a carbone. 


Per il Guardian, il progetto eolico del lago Turkana, nel nord del Kenya, ha causato migrazione forzata


Ma ecco su Newsweek il padre-e-padrone dell’Uganda, Museveni: “La notizia dall’Europa della demolizione di un vasto parco eolico per far posto a una nuova miniera di carbone a cielo aperto è il riprovevole doppio standard che in Africa ci aspettiamo”. E poi: “In Africa crediamo a ciò che vediamo, non a ciò che sentiamo. Vediamo centinaia di milioni di nostri cittadini senza accesso all’elettricità. Vediamo investimenti occidentali compulsivi per il clima nell’energia africana incanalati nell’eolico e nel solare che creano elettricità intermittente e non la costante generazione di carico di base necessaria per alimentare le fabbriche o produrre occupazione”. Ancora: “Non accetteremo una regola per loro e un’altra regola per noi. Non permetteremo che il progresso africano sia vittima del fallimento dell’Europa nel raggiungere i propri obiettivi climatici”. Infine: “Il denaro occidentale si è riversato in progetti eolici e solari che ricevono applausi dai virtuosi nei corridoi del Congresso e nelle cancellerie d’Europa, ma lasciano gli africani senza elettricità quando il vento non soffia e il sole non splende”.
Attenzione, Museveni dice anche un’altra cosa: il nuovo colonialismo verde “costringe decine di migliaia di persone a compiere traversate mortali del Mar Mediterraneo verso l’Europa”. E Nina Lakhani pochi mesi fa sul Guardian ha dipinto il caso del lago Turkana, nel nord del Kenya, dove un consorzio di investitori internazionali ha costruito il parco eolico più grande dell’Africa senza coinvolgere le comunità locali: “Il progetto eolico ha causato migrazione forzata”. I paesi che subirono le colonie tornano a sentirsi colonizzati da noi. Colonizzati da me, ecologista boomer con la pancia piena.

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