l'analisi

Cosa prevedono i 7 bonus del governo Meloni che non aiutano a migliorare il lavoro

Oscar Giannino

Quattro tipi di incentivi alle assunzioni e tre all'autoimpiego. Misure che arrivano quando non c'è nessuna emergenza occupazionale in corso. Se vogliamo una ripresa industriale non servono questo tipo di agevolazioni ma formazione e investimenti privati

Ieri è intervenuto qualche ulteriore elemento di chiarezza sui molteplici bonus-lavoro che il governo intende varare con un occhio alla campagna elettorale per le europee. Dovrebbero essere otto, di cui sette subito compresi nel decreto legge “Coesione” o “Primo maggio” che dir si voglia, e l’ultimo, il bonus 100 euro per una platea ristretta di lavoratori fino a 28 mila euro lordi di reddito, che si annuncia oggi per scattare solo da inizio 2025, visto che il Mef vuole stringerlo all’osso, ma Palazzo Chigi no e dunque manca la copertura. 

 


L’unica notizia positiva è che grazie al Mef è intanto scomparsa la ripetizione di agevolazioni per le assunzioni pari al 120 o 130 per cento dei costi relativi, un’insensata ripetizione dello schema 110 per cento del Superbonus edilizio, che evidentemente i partiti fanno proprio fatica a seppellire come uno dei peggiori errori di finanza pubblica dell’intera storia repubblicana.

I sette bonus, in vigore dal primo luglio fino a fine 2025, dovrebbero dunque dividersi in due categorie.

Tre configurano aiuti all’autoimpiego, uno al centro nord e uno più generoso al sud, con voucher di 30 mila o 40 mila euro per l’acquisto di beni necessari all’avvio d’impresa individuale, e con contributi a fondo perduto del 65 per cento o 75 per cento per una spesa fino a 120 mila euro, che scendono al 60 per cento o al 70 per cento al sud per la spesa aggiuntiva fino a 200 mila euro. E un terzo che prevede esenzioni totali contributive (questa volta per tre anni) per i giovani che avviano attività imprenditoriali nella transizione green e digitale, e per tutti i giovani che assumeranno. 

Gli altri quattro incentivi articolano invece in tipologie diverse il bonus-assunzioni. Esonero totale per 18 mesi del versamento dei contribuiti previdenziali (Inail esclusi) entro una soglia di 500 euro mensili per i giovani assunti a tempo indeterminato, con una soglia fino a 666 euro per l’assunzione di giovani donne svantaggiate. La stessa soglia di 666 euro vale per tutte le nuove assunzioni a tempo indeterminato nella maxi Zes del Sud (ancora molto indietro nel suo iter attuativo), nonché esenzione totale contributiva anche per i neo assunti se lavoravano in grandi imprese in crisi. 

Detto tutto questo, il problema di fondo sollevato ieri da Luciano Capone resta tutto. Non c’è nessuna emergenza lavoro in corso, come del resto ha osservato il presidente del Consiglio nel suo intervento alla kermesse di Fratelli d’Italia a Pescara, vantando l’aumento impetuoso dell’occupazione. L’aumento delle posizioni di lavoro contrattualizzate in questi anni è stato molto rilevante, nel 2023 in percentuale ben superiore all’aumento risicato del pil che ha chiuso al +0,9  per cento, mentre la produttività continua a ristagnare.  A seconda che si guardino le due rilevazioni Istat sul lavoro o i dati Inps diramati ogni fine mese sulla base delle comunicazioni amministrative delle imprese, la crescita occupazionale nel 2023 si è attestata oltre le 400 mila unità (per Istat 500 mila)  e raddoppia se si guarda al 2019 pre Covid. Tutta la crescita è da lavoro dipendente, gli autonomi flettono, e checché dica Landini nel lavoro dipendente l’aumento preponderante (per Istat pressoché esclusivo) è realizzato da occupazione a tempo indeterminato. C’è di più. 


Se si esamina la composizione settoriale dei maggiori incrementi occupazionali in questi anni, essa è avvenuta nei settori pubblici (in tutta la Ue l’andamento post Covid è comune) e nei servizi amministrativi, nonché nelle costruzioni per i bonus edilizi, e nell’ultimo biennio nella ristorazione, ricettività turistica e alberghi, commercio. Cioè in settori ad alta intensità di manodopera, basse retribuzioni, e purtroppo basso valore aggiunto. Niente al momento lascia credere che i nuovi bonus non incoraggino ulteriormente queste tendenze, visto che gli ordini e la produzione industriale continuano a ristagnare. 

Queste elementari considerazioni dovrebbero spingere la politica a due conclusioni che non sembrano far capolino nel suo orizzonte. La prima è che quel che serve è formazione elevata di lavoratori a elevato know-how e alta produttività, mentre oggi la percentuale di posti non coperti per mancati profili formati è a doppia cifra percentuale nella manifattura avanzata. La seconda è che non ha senso continuare a spendere soldi pubblici in bonus a tempo per il lavoro, mentre si continuano a rinviare i decreti attuativi per gli incentivi agli investimenti della transizione green e di Industria 5.0. Se vogliamo una ripresa industriale e non di lavoro a bassa qualità, sono gli investimenti privati la priorità.

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