(Foto di Ansa) 

La forza intrusiva dello stato usa l'interesse nazionale come pretesto

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

Ciò che preoccupa è il rischio che il nostro legislatore se ne approfitti per estendere ulteriormente il campo d’azione della golden power anche per gli investimenti al di fuori del paese

Le politiche per il controllo degli investimenti sono state a lungo dirette a proteggere le imprese nazionali dalle “scorrerie” degli stranieri. Adesso cominciano anche a guardare alle operazioni all’estero. Potrebbe accadere negli Stati Uniti: al Congresso è in discussione un progetto di legge bipartisan finalizzato a limitare le attività delle aziende americane nei paesi stranieri. Questi nuovi vincoli sarebbero parte di un ampio pacchetto in teoria volto a promuovere la competitività del paese sul piano tecnologico e industriale. Le norme mirano dichiaratamente a evitare che capitali statunitensi possano contribuire a rafforzare la Cina, sempre più percepita come un insidioso competitor in grado di sottrarre agli Usa, nel medio termine, la leadership globale. Benché si faccia riferimento alla salvaguardia delle filiere, è evidente che si tratti di una disciplina ispirata da intenti geopolitici più che di politica industriale.  

Anche se siamo ancora in una fase preliminare, non sembra azzardato prevedere che, all’esito del dibattito parlamentare, venga data luce verde alla nuova disciplina. In tema di politica commerciale e di investimenti esteri, soprattutto per quanto riguarda la Cina, vi è infatti una sostanziale continuità fra Trump e Biden. I democratici, a parole, si dichiarano a favore del multilateralismo, ma nel merito (al di là della soluzione di alcune partite commerciali aperte con l’Ue) hanno mantenuto politiche di stampo protezionista e di forte contrapposizione alla Cina. Solo recentemente, e dopo lunghe tribolazioni, la Casa Bianca ha accettato di sospendere alcuni dazi sui pannelli fotovoltaici cinesi.  Il mood è comunque sempre più ostile al libero scambio. E non si tratta di un atteggiamento solo statunitense. In Europa abbiamo gli stessi riflessi pavloviani. Anche la conflittualità con la Cina sta aumentando: è stato congelato l’accordo Ue-Cina sugli investimenti, è stata presentata una proposta di regolamento per contrastare la concorrenza sleale delle imprese sovvenzionate da governi esteri e sono in crescita esponenziale gli investimenti bloccati dalle competenti autorità nazionali (sono già quattro gli investimenti cinesi in Italia bloccati, in virtù della normativa sul golden power, negli ultimi 18 mesi).

E’ dunque probabile che, prima o poi, queste policy attraversino l’Atlantico. Ciò che preoccupa, più ancora di una mossa europea, è il rischio che il nostro legislatore se ne approfitti per estendere ulteriormente il campo d’azione della golden power anche per gli investimenti al di fuori del paese. Dopo le ultime modifiche, è divenuta soggetta a notifica perfino la semplice costituzione di società il cui oggetto sociale ricomprenda lo svolgimento di attività di rilevanza strategica (ovvero che detengono attivi di rilevanza strategica) nei settori difesa e sicurezza nazionale (a cui è equiparato il 5G). Idem per le imprese che svolgono attività (ovvero detengono attivi strategici) nei cosiddetti settori civili, se uno o più soci esterni all’Ue possiedono almeno il 10 per cento del capitale. E restiamo in attesa delle disposizioni volte a introdurre meccanismi di raccordo tra obbligo di notifica e procedure di gara per l’affidamento delle concessioni. Ormai, una larga parte degli investimenti in Italia presuppone la notifica, ma è difficile credere che siano tutti investimenti in settori strategici.

Dei rischi di questa nuova “forza intrusiva” dello stato “ampiamente discrezionale quanto ai contenuti” ci ha avvertito anche Giuliano Amato, che certamente non può essere considerato un preconcetto avversario del ritorno dello stato, nel suo recente saggio “Bentornato stato, ma”.

Insomma, ci spaventa l’idea che, con il pretesto della difesa dell’interesse nazionale, si finisca in futuro per sindacare gli investimenti all’estero dei nostri imprenditori, magari per favorire il reshoring nei collegi elettorali dei politici più influenti. Non sia mai che dopo decenni di sforzi (e costi posti a carico del contribuente) per internazionalizzare le imprese italiane dobbiamo assistere a un repentino e radicale revirement. Come si suol dire, uomo avvisato, mezzo salvato.

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