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Per fortuna che l'Europa c'è

Claudio Cerasa

Tra un atlantismo ammaccato (Trump), un antiatlantismo minaccioso (Cina) e antieuropeisti nel pallone (Regno Unito e Salvini) mai come oggi il mondo ha bisogno di Europa. I numeri choc della recessione (Italia -9,7) e la nuova sfida per la libertà

Non è forse la stagione migliore per essere europeisti, con tutti i guai che ci sono, con tutti i problemi che emergono, con tutte le lentezze che spiccano, con tutte le leadership che mancano, ma la stagione pandemica che stiamo vivendo ormai da mesi ci ha ricordato che quella che stiamo osservando in queste settimane è certamente la stagione peggiore per essere antieuropeisti. Essere antieuropeisti oggi – ovverosia gioire per le difficoltà dell’Europa, soffiare sulle sue contraddizioni, speculare sulle sue divisioni e spacciare problemi risolvibili per drammi non risolvibili – non significa solo lavorare per affermare una forma più o meno sciacallesca di sovranismo nazionalista ma significa ormai qualcosa di più. Significa fare il gioco dei regimi illiberali che vogliono indebolire l’Europa, significa fare il gioco delle democrature che soffrono la forza dell’Unione, significa volersi trasformare nel cavallo di Troia di dittature che vedono nella debolezza dell’Europa un ostacolo alla propria egemonia e significa molto semplicemente non rendersi conto di cosa rischiano i paesi europei a voler combattere contro i giganti del mondo vestendo i panni più del topolino che dell’elefante. Non è forse la stagione più semplice per essere europeisti, ma è certamente la stagione peggiore per essere antieuropeisti perché mai come oggi, osservando le alternative che esistono al modello europeo, risulta difficile individuare una realtà capace di garantire come fa l’Europa un mix unico. In cui coesistono un sistema di welfare capace di garantire la salute anche dei cittadini meno abbienti (citofonare America), un sistema istituzionale che non mette la ricerca dell’efficienza in competizione con la protezione delle libertà individuali (citofonare Cina) e un sistema di relazioni politiche ed economiche che con mille difetti ha garantito a diverse generazioni di vivere immerse nella pace e nella libertà (libertà di circolazione, libertà di commercio, libertà di studio, libertà di lavoro, libertà di viaggiare senza passaporto, libertà di usare lo spazio unico dell’Europa come un veicolo di nuove opportunità). Tra un atlantismo ammaccato (vedi Trump), un antiatlantismo sempre più minaccioso (vedi la Cina) e antieuropeisti un po’ nel pallone (vedi il Regno Unito) mai come oggi verrebbe da urlare che meno male che l’Europa c’è. E da un certo punto di vista si potrebbe dire che anche la dura decisione presa due giorni fa dalla Corte tedesca relativamente alla legittimità del Quantitative easing (ieri la Commissione ha ricordato che la Bce è soggetta alla legge europea, non a quella tedesca, che la Corte di giustizia europea si è già espressa sulla legittimità del Qe, che non vi è alcun obbligo per la Bce di soddisfare le richieste tedesche di giustificare le sue decisioni e che comunque quando e se lo farà troverà i giusti argomenti per risolvere anche questo problema) è una decisione che va letta nel verso giusto e che dimostra un tratto dell’Europa probabilmente unico al mondo: la ricchezza della sua cosiddetta balance of power.

 

La crisi in corso, come è evidente, è destinata a creare sempre più tensioni tra i poli e chi si ritrova schiacciato in mezzo, senza scegliere da che parte stare, rischia l’osso del collo. Ma in una stagione come quella che stiamo vivendo per scegliere da che parte stare non è più sufficiente definirsi semplicemente atlantisti – l’atlantismo di Trump è un atlantismo isolazionista che considera il multilateralismo un virus da combattere – e mai come oggi tocca forse riconoscere che essere atlantisti senza essere europeisti è come voler utilizzare una maschera per l’ossigeno sprovvista di ossigeno. L’Europa anche dal punto di vista geopolitico non è mai stata centrale come lo è oggi (e anche per questo motivo i suoi nemici interni fanno di tutto per combatterla a tutti i costi: permettere all’Europa di portare avanti le politiche di integrazione significherebbe rendere l’Europa con la sua moneta unica un progetto irreversibile, e un conto è voler scardinare un progetto non ancora completato, un altro conto è voler scardinare un progetto completato, ma mai come oggi la sua centralità è messa a rischio più che dalle istanze che arrivano dai nazionalisti (che mentre speculano sulla lentezza dell’Europa sono costretti a fare i conti con la velocità con cui viene eroso il loro consenso: citofonare Salvini) semplicemente dai dati che arrivano dalla realtà.

 

La Commissione, ieri, presentando le previsioni economiche per l’anno in corso, ha ammesso che l’Europa, causa impatto del coronavirus, “è entrata nella più profonda recessione economica della sua storia”. Tradotto significa: calo per l’Eurozona nel 2020 pari a 7,7 punti percentuali di pil (con un rimbalzo però del 6,3 nel 2021), calo dell’Italia pari a 9,7 punti percentuali di pil (il Def italiano prevedeva un meno 8 per cento) e impatto della pandemia sul mercato del lavoro pari a un aumento di due punti percentuali della disoccupazione (dal 7,5 al 9,6).

 

Il mondo, mai come in questa fase, ha un grande bisogno dell’Europa, e l’Europa, come mole di risorse mobilitate, come sostegni alle imprese, come aiuto alla disoccupazione, come progetti di integrazione, ha fatto negli ultimi due mesi ciò che non era riuscita a fare negli ultimi vent’anni. Ma mai come in questa fase, per affrontare le sfide delle prossime settimane, l’Europa ha bisogno di qualcuno che abbia la forza di guidarla e che abbia l’intelligenza, come ci ricordano oggi Paola Peduzzi e Micol Flammini, per renderla non solo più forte ma anche più sexy. La vera fase due, in fondo, è tutta qui.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.