(foto LaPresse)

Gli economisti alla prova della fase anti gnagnera. Che fare?

Il debito non è più tabù, lo stato che avanza non è più un dramma, ma i vecchi problemi non sono spariti. Girotondo

Nulla di nuovo sotto il sole dell’economia

In un recente articolo su questo quotidiano, il direttore Claudio Cerasa ha rivolto un appello agli economisti per “uscire dalla trappola della nostalgia e aiutare tutti noi non a polemizzare sul passato ma a immaginare finalmente il futuro”. L’appello merita di essere accolto, ma affinché la discussione risulti proficua è importante rendere chiari alcuni punti che nell’articolo non lo sono. Detto molto in breve, ciò che è lo studio e la comprensione dell’economia non sempre viene riflesso nel modo in cui i giornali trattano i temi economici.

 

Indicatori statici e aspettative dinamiche. L’articolo si apre con una discussione della mancata reazione dei mercati al downgrade del debito italiano di Fitch, presentandolo come una cosa sorprendente. Non lo è affatto. So che esiste una tendenza tutta italiana a guardare alle agenzie di rating come cerberi che danno brutti voti in modo arbitrario ma non è così. Quando uno studente prende un brutto voto non è quasi mai perché l’insegnante lo odia, ma perché non ha studiato. La bocciatura dello studente sarà conseguenza del fatto che non ha studiato, non dell’insegnante che semplicemente registra la sua mancanza di conoscenza. In questo senso, il voto è un indicatore che arriva in ritardo e certifica quello che chiunque frequentasse da vicino lo studente già sapeva. Lo stesso vale per i voti delle agenzie di rating. Sono tipicamente un indicatore che arriva in ritardo, certificando qualcosa che era già noto. Così come nessuno si sorprende dell’insufficienza dello studente poco volenteroso, nessuno si è sorpreso per il downgrading dell’Italia. E senza sorpresa non ci sono reazioni del mercato. Il giudizio era già stato dato: lo spread oggi è intorno a 240 punti base, 100 punti sopra a dove era all’inizio di febbraio, prima della crisi. Il downgrading ha semplicemente registrato questo fatto.

 

L’altro aspetto su cui insiste l’articolo è che livelli del rapporto debito/pil che prima sarebbero stati considerati allarmanti ora vengono considerati normali. Anche qui non c’è nulla di sorprendente. Quello che conta per la solvibilità di un paese sono le prospettive future. Un rapporto debito/pil del 130 per cento non è preoccupante per sé. E’ preoccupante se il paese mostra di non essere capace di crescere e di ridurre o almeno stabilizzare tale rapporto. Uno choc temporaneo che fa schizzare verso l’alto tale rapporto pertanto non cambia il giudizio complessivo sulla solvibilità. Dopo la seconda guerra mondiale il Regno Unito raggiunse un picco del rapporto a circa 270 per cento , senza che questo creasse drammatici problemi. Al contrario l’Argentina ha un rapporto relativamente basso, ben inferiore a quello italiano, ma lo stesso sarà probabilmente costretta al default. Nessuna delle due cose è sorprendente, almeno per un economista. La lezione da trarre qui è che, anche se talvolta certi indicatori possono essere utili, vanno sempre trattati con un grano di sale e senza perdere il senso dell’analisi. Le variazioni del rapporto debito/pil sono interessanti se ci dicono qualcosa sulla solvibilità futura, e in tempi normali è così. Non è così, ovviamente, quando l’economia viene colpita da uno choc temporaneo. Quando, come nel caso dell’Argentina (o dell’Italia negli anni ’80), il rapporto cresce anche nelle fasi di espansione economica allora le domande sulla solvibilità del paese diventano inevitabili.

 

Immaginare il futuro è meno facile di quello che si pensi. L’economia sicuramente cambierà dopo questa crisi. E’ persino possibile che diventi più produttiva. Si scoprirà che alcune pratiche, in particolare il lavoro online che riduce i costi di spostamento, sono effettivamente più efficienti e il capitale di conoscenza accumulato forzatamente durante la crisi verrà messo a frutto.

 

La sfida principale del paese però rimarrà essenzialmente la stessa. Sono più di venti anni che cresciamo a un tasso che è la metà di quello degli altri paesi europei. Come facciamo a riprendere a crescere? La fallimentare risposta che è stata data finora da tutte le forze politiche è: mediante maggiore spesa pubblica e mediante maggiore intervento pubblico nell’economia. Solo il timore della reazione dei mercati ha moderato questa unanime tendenza. E’ improbabile che le cose cambino adesso. E’ un vero peccato perché, per esempio, più che del livello della spesa pubblica ci sarebbe da discutere della sua composizione. Più sanità, più istruzione, più ricerca e sviluppo e meno pensioni aiuterebbero senz’altro la crescita. Ma qui, come tutti sappiamo, il problema non sono gli economisti e le loro idee. Il problema è che su un programma di crescita è difficilissimo costruire un’alleanza elettorale vincente.

 

Sandro Brusco, Stony Brook University

 

Felicità e resilienza le due parole chiave

L’articolo di Claudio Cerasa di ieri sul Foglio non mi trova impreparato perché non ho mai pensato che il lavoro dell’economista dovesse coincidere con quello di guardiano dell’equilibrio di bilancio. Si racconta che Malthus nel commento all’opera più famosa di Adam Smith (la Ricchezza delle Nazioni) abbia commentato che si trattava di un‘ opera che affrontava un tema molto importante, ma che esisteva un tema ancora più importante e affascinante da affrontare che è quello della felicità delle nazioni. Gli economisti e gli scienziati sociali devono occuparsi di ciò che influisce e delle politiche che possono accrescere il benessere delle nazioni. E per benessere dobbiamo intendere a mio avviso la soddisfazione e ricchezza di senso di vita delle persone. Se il nostro lavoro non serve a capire cosa rende la nostra vita migliore e ad aiutare ad utilizzare le risorse economiche, il nostro ingegno e le nostre energie per costruire società che aiutino le persone a realizzarsi cercando di non lasciare nessuno indietro a cosa serve?

 

Questo non vuol dire “spesa libera tutti” o decrescita. E neppure che le regole di bilancio non valgono. Le risorse sono preziose e vanno usate al meglio. Quando però si giudica se un economista o le sue affermazioni siano rigoriste o lassiste si fa molto spesso a mio avviso l’errore di prescindere dal contesto del momento. Sono pochi gli economisti (anche quelli che passano per severi guardiani dei conti) che non concorderebbero che in una situazione eccezionale come questa bisogna realizzare politiche fiscali e monetarie espansive di carattere eccezionale. Prima della nascita del quantitative easing in Europa ho promosso assieme ad alcuni colleghi un appello firmato da 360 colleghi che proponeva, oltre al quantitative easing, idee innovative di riduzione del debito pubblico in eccesso rispetto al 60 percento del rapporto debito/pil dei paesi membri attraverso l’acquisto da parte della Banca centrale europea e la trasformazione in titoli irredimibili (il cosiddetto “piano Wyplosz”). E in uno dei primi editoriali sulla crisi ho sottolineato che in momenti come questi bisogna usare anche metodi non convenzionali come l’helicopter drop of money (che ha il vantaggio di non creare debito che dovremmo pagare in futuro aumentando il fardello della nostra spesa per interessi) e, appunto, misure come quelle del piano Wyplosz.

 

Proprio perché non siamo solo guardiani dei conti (e la nostra non è una scienza triste ma può e deve essere la scienza della felicità) la questione di oggi è un’altra. L’importante non è solo quante risorse usiamo per ridare slancio all’economia ma anche come e in che direzione ripartiamo. Cedere nella frenesia del momento alla tentazione del ripartire “non-importa-come” sarebbe pericolosissimo e ci porterebbe a sbattere al prossimo incrocio. La pandemia fa suonare il campanello d’allarme sulla fragilità del cuore del nostro motore produttivo per via della sua esposizione a rischi di shock ambientali e di salute. La resilienza è e deve essere la parola chiave. Ovvero dobbiamo dare priorità strategica a tutti quegli investimenti che incidono positivamente su creazione di valore economico, lavoro, salute, ambiente e quella ricchezza di tempo che abbiamo sperimentato in questa gigantesca esercitazione di lavoro a distanza. Per questo economia circolare, smart work, efficientamento energetico, mobilità sostenibile, finanziamento dell’innovazione sostenibile sono e devono essere le parole chiave. E sono la via non solo per la qualità della nostra vita di cittadini ma anche per la competitività futura delle nostre imprese. E’ sul come e non solo sul quanto che si gioca il successo del nostro futuro.

 

Leonardo Becchetti Università di Roma Tor Vergata

 

Come gli economisti rispondono alla sfida

Il direttore Cerasa invoca un cambio di passo da parte degli economisti, a cui si chiede di smettere di essere “inflessibili guardiani dei conti del paese, indefessi ammonitori degli spendaccioni di stato, infaticabili fustigatori dei professionisti delle politiche in deficit” e di assumere un diverso ruolo: quello di generatori di “idee utili per adattarsi al nuovo tempo, per essere efficienti nella gestione delle molte risorse che ci saranno, per trasformare una tragedia come quella che stiamo vivendo in una piccola opportunità per innovare il paese e in definitiva per combattere l’economia della gnagnera”.

 

Da quello che ho potuto vedere in questi tre mesi, gli economisti stanno rispondendo alla sfida in modo sorprendente. In primo luogo, è veramente impressionante il flusso di lavori generato in questi mesi dalla comunità degli economisti. Abituati a meditare e rifinire i loro paper per anni, gli economisti hanno mostrato un’incredibile capacità di cambiare passo. In poche settimane hanno assimilato le principali lezioni degli epidemiologi, inserendole nei loro modelli. La diffusione del virus dipende anche dalle attività economiche, sia quelle legate al consumo che quelle legate alla produzione. Bar, ristoranti, uffici, cantieri possono essere veicoli di trasmissione del virus. Le politiche di lockdown riducono la diffusione dell’epidemia ma hanno un costo in termini di minore reddito, posti di lavoro, fallimenti di imprese. Quali politiche occorre attuare per affrontare al meglio questo tragico trade-off? Quanto devono durare i lockdown? Quanto devono essere severi? Quali altre politiche (tracciamento, test) possono essere di aiuto nel mitigare anche l’impatto economico del Covid? Gli economisti hanno prodotto una notevole quantità di modelli e stime. Naturalmente la scelta finale sulle politiche da adottare dipende dal peso che viene dato ai vari aspetti del trade-off e questo è il ruolo dei politici. Gli economisti non hanno e non devono avere l’ambizione di dettare prescrizioni, ma solo l’obiettivo di delineare in modo più chiaro i termini del dilemma, prospettando i possibili esiti di diverse politiche come un lockdown prolungato, una riapertura per fasce di età o per settori, ecc…

 

Un’altra osservazione importante che è stata fatta è che gli effetti del coronavirus sono asimmetrici: gli individui meno istruiti, i più poveri lavorano tipicamente in settori più esposti al contagio e che si prestano di meno al telelavoro, vivono lontano dai posti di lavoro e fanno quindi maggior uso dei mezzi pubblici, esponendosi a maggiori rischi. La valutazione delle politiche che verranno adottate non può prescindere dalla considerazione dei loro effetti distributivi e di questo gli economisti si sono mostrati ben consci.

 

Gli effetti economici del coronavirus saranno molto significativi. In primo luogo, in termini di finanza pubblica. Le spese sanitarie, per sostenere i disoccupati e le imprese saranno enormi. La riduzione della produzione e dei redditi sarà anch’essa molto rilevante. I debiti pubblici diventeranno più difficili da sostenere e finanziare. Molte imprese rischieranno di chiudere, con le inevitabili conseguenze per i lavoratori. Le catene produttive dovranno essere riorganizzate, ci sarà un maggiore ruolo del settore pubblico. Di fronte a questi scenari, gli economisti non hanno esitato a proporre ricette diverse da quelle tradizionali. Maggiore ruolo delle banche centrali, uso di bond perpetui, iniezioni di liquidità per le imprese, sostegno per i lavoratori disoccupati sono idee entrate stabilmente nel dibattito economico. E’ francamente difficile avvistare fustigatori di politiche in deficit in questi giorni.

 

Dopo la Grande Recessione del 2008, gli Stati si sono trovati a far fronte a richieste crescenti da parte dei cittadini senza avere un equivalente aumento di risorse. I movimenti populisti sono in parte un effetto di tale disallineamento. La crisi del Covid rende ancora più chiara l’urgenza di trovare un nuovo equilibrio tra ruolo dello Stato e quello del mercato. Gli economisti possono aiutare a delineare un sentiero per arrivare a questo obiettivo. Difficile giudicare dopo poche settimane se ci riusciranno, ma di certo ci stanno provando seriamente.

 

Fausto Panunzi, Università Bocconi

 

Ora serve più Stato, ma anche meno

Dalla crisi del coronavirus possiamo uscire solo se lo stato non svolge alla perfezione il suo mestiere. Questo implica necessariamente più spesa pubblica. Ma non significa che tutto ciò che prima era sbagliato, adesso diventi improvvisamente giusto. Anzi.

 

Nell’editoriale di ieri, Claudio Cerasa ha sollevato due punti cruciali: uno di fatto (la sostanziale tenuta dei mercati nonostante il downgrading di Fitch e l’aumento vorticoso del deficit), l’altro di prospettiva (l’incremento del rapporto debito / pil non è un fenomeno passeggero). Alla luce di questo, ha invitato gli economisti a smetterla di rinfacciare gli errori passati, per concentrarsi sui consigli per il futuro. Questo vuol dire non solo interrogarsi su come aiutare le imprese a passare la nottata – sopravvivere ai mesi di fatturati persi – ma anche su come re-inventarne le attività e trasformare la tragedia in opportunità. Per farlo, però, non si può non partire dagli errori pregressi, quanto meno per evitare di ripeterli. Proprio la gestione della finanza pubblica ne è la prova: se non avessimo gonfiato la spesa corrente con operazioni clientelari, oggi avremmo maggiore spazio fiscale per dare sollievo alla nostra economia. Non solo: se non avessimo investito risorse ingenti per impedirne o rallentarne il cambiamento, oggi avremmo una struttura produttiva più reattiva e capace di adattarsi.

 

Cerasa fa bene a metterci in guardia contro la tentazione di dedurne un’arringa contro chi si è avvicendato alla guida del paese. Ma è importante utilizzare i miliardi che il governo sta stanziando in modo da valorizzare le potenzialità competitive delle nostre imprese, e aiutarle a mantenere o rafforzare la loro collocazione sui mercati e nelle catene del valore. Per esempio, la scelta passata di proteggere un tessuto di imprese troppo piccole e poco patrimonializzate spiega parte delle difficoltà aggiuntive con cui oggi l’Italia deve fare i conti: sarebbe bene tenerne conto, e rimuovere gli ostacoli alla crescita dimensionale, per uscire dalla crisi, se non più forti, almeno un po’ meno acciaccati. Ancora: la qualità del settore pubblico italiano è quella che è. Ne abbiamo infinite dimostrazioni anche in questi giorni, dalla gestione del dossier mascherine fino alle lungaggini nell’erogazione dei fondi o nello sdoganamento dei dispositivi di protezione importati, tutt’altro che celere. L’azione amministrativa va resa più leggera e fluida: tutto serve tranne che appesantirla aggiungendo partecipazioni societarie con le quali lo stato finirebbe per generare solo caos. Eppure, il ministro Stefano Patuanelli sembra muoversi proprio in questa direzione: potrebbe restituire centralità al suo dicastero, invece sembra volerne fare una sorta di hospice per imprese decotte.

 

Inoltre, se nel campo della spesa pubblica (e, a tendere, della tassazione) dobbiamo necessariamente aspettarci uno stato più pesante, c’è un altro campo nel quale il potere pubblico deve dimagrire: la regolamentazione. Non facciamo che lamentarci dell’ossessiva burocratizzazione della nostra vita, che ha raggiunto l’apice col cinema delle autocertificazioni. Ora l’esigenza di ridisegnare i processi non è più differibile. Non si tratta di inventare niente. Basterebbe copiare i paesi scandinavi, tanto citati quanto poco compresi: essi hanno capito che la condizione per rendere sostenibile una fiscalità pesante è mantenere un basso livello di intrusione pubblica nel funzionamento dei mercati.

 

Se il governo desidera suggerimenti costruttivi, è in questa direzione che deve orientarsi. C’è un criterio molto semplice: prendere l’articolo di Mariana Mazzucato sul Sole 24 ore di ieri – che invoca un “cambiamento strutturale del modello economico” – e fare precisamente il contrario. Lo stato deve abbandonare ogni velleità di fare l’imprenditore o di moralizzare l’economia.

 

Carlo Stagnaro, Istituto Bruno Leoni

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