Sergio Marchionne (Foto LaPresse)

Il grande timoniere

Giuseppe Berta

Un anno dopo la morte di Marchionne, Fca non sa come usare l’eredità del manager che voleva rivoluzionare il settore dell’auto

L’anno che ci separa dalla scomparsa di Sergio Marchionne è stato a tal punto denso di avvenimenti per il sistema dell’auto da far percepire una distanza temporale più profonda. È cambiato lo scenario, si sono trasformate le prospettive, sono mutate le domande circa il futuro. Marchionne morì quando era iniziata la marcia verso il mutamento del paradigma tecnologico, ma essa non aveva ancora preso i ritmi accelerati di adesso. L’universo della globalizzazione era già in regresso, ma il commercio mondiale non aveva ancora preso la piega che lo caratterizza oggi. Il passaggio dal settore dell’auto all’industria della mobilità era in atto, ma il riassetto non aveva ancora i lineamenti che ha assunto oggi.

 

Per venire a Fca, un anno fa sembrava che la repentina uscita di scena di Marchionne avvenisse quando il suo destino era ormai tracciato. Oggi il futuro del gruppo che aveva fondato si profila più incerto. Gli interrogativi, nel corso di dodici mesi terribilmente complicati per il mondo dell’automobile, sono aumentati e si sono fatti anche più pressanti.

  

Un anno fa era già iniziata la marcia verso il mutamento del paradigma tecnologico. Adesso però è tutta un’altra velocità 

Eppure Marchionne aveva assolto al suo compito, al momento della morte. Aveva sostanzialmente portato a compimento la sua missione, anche se mancavano ancora alcuni mesi per passare le consegne a chi dopo di lui avrebbe dovuto guidare Fca. Formalmente il testimone è andato al nuovo ceo, Mike Manley, ma nessuno potrebbe sostenere che Manley abbia preso il posto di Marchionne. Questi, che ha inventato e realizzato la fusione tra Fca e Chrysler, non era evidentemente una personalità fungibile, ma il risultato del cambio al vertice è che oggi il gruppo reca l’impronta del principale azionista più che del suo manager più importante. In luogo dell’Fca di Marchionne esiste oggi l’Fca di John Elkann, tanto evidente è l’imprinting che ha voluto apporre al gruppo il suo primo azionista.

    


Sergio Marchionne con Mike Manley nel 2011 (Foto LaPresse)


 

Un anno fa non pareva questa la direzione verso cui era avviata l’evoluzione di Fca. Il mandato di Marchionne volgeva al termine con un indirizzo piuttosto chiaro, che consisteva in primo luogo nel realizzare le condizioni finanziarie affinché il gruppo potesse andare a nozze con un’altra impresa dell’automobile. Per questo aveva lavorato Marchionne, impegnandosi, negli ultimi tre anni della sua gestione, per migliorare la posizione finanziaria di Fca e rendere il gruppo in grado di trattare al meglio una partnership o una fusione con un altro soggetto. Era stato l’obiettivo che Marchionne, più parco nelle dichiarazioni pubbliche, aveva caricato su di sé, dopo che era tramontata la fase più smagliante della sua leadership, quella culminata con l’arrivo fin sulla soglia di un’opa su General Motors, ambizione accarezzata nei primi mesi del 2015, che poi aveva dovuto abbandonare. Fra il 2009 e l’inizio del 2015, infatti, Marchionne aveva coltivato il progetto di creare un grandissimo gruppo dell’automobile, capace di dominare i mercati più che di inseguirne i mutamenti. Era la visione che era già stata all’origine dell’operazione da cui era nata Fiat Chrysler e che, nelle intenzioni, doveva culminare nell’acquisizione di Opel, il ramo europeo di Gm che però il sistema tedesco aveva allora voluto mantenere entro il suo perimetro.

  

  

Le ambizioni di Marchionne erano state grandi in partenza, e si erano soltanto temporaneamente ridimensionate per i limiti e gli ostacoli che la sua azione manageriale aveva incontrato. Esse tuttavia non erano mai state messe da parte definitivamente: lo si vide quando si delineò la possibilità di condurre un’iniziativa nei confronti di una Gm che non aveva ancora recuperato appieno le proprie prerogative. L’occasione parve giungere nel 2015, quando Marchionne fu in procinto di lanciare un’opa da 60 miliardi di dollari (stando a quanto ha raccontato, nel suo libro-testimonianza su Marchionne, da Tommaso Ebhardt). Ma dovette recedere e ripiegare sull’obiettivo assai più circoscritto di migliorare i conti di Fca. Ciò che fece con tutta la meticolosità di cui era capace, anche se era una missione che doveva piacergli assai meno dell’altra. La adempì, lavorando con strumenti chirurgici su strutture, marchi e prodotti. Nel senso che migliorò la posizione finanziaria di Fca, agendo entro i limiti che gli erano stati dati. Ne risentì – e non poteva essere diversamente – la progettazione di nuovi prodotti, che alla lunga avrebbe indebolito i marchi, come si è visto, depotenziandone la presa di mercato. Ne scapitarono alla lunga anche i progetti in cui per un po’ l’Italia aveva sperato, come in primo luogo quello del “polo del lusso”, che sarebbe dovuto nascere dall’aggregazione di Maserati e Alfa Romeo e invece non si costituì mai, col risultato di incrinare il richiamo di questi marchi. Il vento soffiava in pieno, invece, nelle vele americane del gruppo: con Jeep Fca aveva fatto da battistrada a Detroit nella scelta a favore dei Suv, sfruttando i margini offerti dal mercato americano, come sarebbe poi avvenuto anche con i pick-up di Ram. A quel punto, il Nord America era diventato l’asse attorno a cui giravano le fortune del gruppo.

 

Il recente giudizio di Goldman Sachs su Fca, le difficoltà del gruppo in Europa, in nord America e in America latina

 Subito prima della morte di Marchionne la strada di Fca era tracciata, a detta di molti. Certo, il passaggio di consegne non era ancora stato annunciato, ma era programmato per la primavera del 2019. Una sostituzione anticipata non avrebbe dovuto influire poi così tanto su una rotta che era ormai stata fissata. Invece non è andata a questa maniera. Come mai?

  

Forse perché la scomparsa di Marchionne ha costituito una cesura brusca nella storia di Fca. La procedura di ricambio poteva essere stata pianificata, ma i modi in cui avvenne sconvolsero le procedure. La scelta del ceo cadde su Manley, com’era in molte previsioni, ma con la lacerazione rappresentata dalle dimissioni immediate di Alfredo Altavilla, ciò che fu percepita come una discontinuità. Sullo sfondo traspariva anche il peso accresciuto del direttore finanziario Richard Palmer. Ma soprattutto la novità evidente era il protagonismo di Elkann. Un protagonismo certamente imposto dalle circostanze straordinarie entro cui avveniva il cambio al vertice, ma che sarebbe proseguito anche dopo la fine della situazione d’emergenza.

   


Il presidente di Fca, John Elkann (Foto LaPresse)


 

Da allora in poi, Elkann non ha più fatto un passo indietro, come ha dimostrato in particolare la vicenda della tentata fusione con Renault, di cui è stato lui, non il suo management, il protagonista assoluto. I rivolgimenti che si stanno verificando nel sistema dell’auto hanno probabilmente favorito il ruolo dell’azionista, ma esso non avrebbe subìto un simile potenziamento se non vi fosse stata anche una volontà precisa. È vero: a novembre scorso c’era stato il terremoto provocato dall’arresto di Carlos Ghosn in Giappone, che si è immediatamente riverberato nello stallo dell’alleanza fra Renault, Nissan e Mitsubishi, da allora entrata in uno stato di congelamento. Tuttavia, anche rispetto a un evento tale da poter coinvolgere l’assetto del sistema dell’auto, la sollecitazione più grande è venuta dalla trasformazione tecnologica della mobilità.

  

Il passaggio di consegne era stato pianificato, ma l’improvvisa scomparsa del manager sconvolse le procedure. Il ruolo di Elkann 

Nel corso del 2019 sono stati comunicati investimenti colossali nelle piattaforme elettriche e nell’Intelligenza artificiale applicata alla guida dei veicoli, che coinvolgono sia i produttori occidentali sia quelli orientali. Annunci come quelli emessi da Volkswagen, Ford, General Motors – per citare solo alcune delle case che stanno fra Europa e Stati Uniti – evocano una trasformazione con pochi precedenti per entità dei costi, portata e conseguenze. È come uno sviluppo dello scenario che Marchionne aveva fatto intravedere nella primavera del 2015, quando aveva ritratto l’industria dell’auto come una sorta di creatura continuamente affamata di nuovi capitali. Non aveva previsto che, a fronte della mole degli investimenti, ci sarebbe stata una forte riduzione dell’occupazione (almeno dal punto di vista delle strutture produttive dei nuovi veicoli) e, soprattutto, che la via per far fronte all’ingordigia di capitali non sarebbe stata, in primo luogo, quella delle fusioni e delle concentrazioni. Anzi, quest’ultima è una prospettiva che sembra quasi essere stata accantonata.

 

L’attenzione si concentra oggi sull’alleanza tecnologica che si va dipanando tra Ford e Volkswagen. Un’intesa che, in questa fase, scarta decisamente ogni tentazione finanziaria o di scambio azionario fra i gruppi per svilupparsi esclusivamente sul terreno di un’attività di ricerca condotta in stretta cooperazione. Altri produttori tendono peraltro a battere da soli la pista dell’innovazione tecnologica, avendo cura anch’essi di lasciar cadere ogni ipotesi di fusione. A ben vedere, di una grande alleanza, designata a sfociare fin troppo in fretta in una fusione vera e propria, si è parlato soltanto tra Fca e Renault. E non a caso, perché – come si è detto – l’intesa franco-giapponese già esistente attraversa un periodo di blocco totale, da cui nessuno sa dire come si possa uscire. La nuova Fca, quella priva dello stampo di Marchionne, appare davanti a un futuro incerto.

 

Il recente giudizio espresso da Goldman Sachs su Fca, con l’indicazione “sell” riferita alle sue azioni (oggi a un valore di mercato superiore di quasi un euro a quello valutato dalla banca d’investimento), si sofferma sulla collocazione di un gruppo attualmente in forte penalizzazione sul mercato europeo, in una condizione di difficoltà in America Latina a causa della volatilità dei mercati, e in una situazione di limitate opportunità in nord America (dove Jeep è in calo quest’anno, mentre Ram ha raggiunto i suoi picchi più elevati).

Fca, inoltre, non detiene una posizione avanzata sul fronte dell’innovazione tecnologica, come rivela il ritardo sulle piattaforme elettriche e ibride (che non ha impedito la cessione di Magneti Marelli), ciò che pone il gruppo davanti alla necessità di intraprendere rapidamente un’azione prima di avvitarsi su se stesso. Acuta è la caduta di Alfa Romeo e Maserati, tanto che il rapporto di Goldman Sachs arriva a sollevare dubbi sul loro valore effettivo, in considerazione delle ingenti perdite di quote di mercato.

 

L’arresto di Carlos Ghosn ma soprattutto l’annuncio di enormi investimenti sul settore tech applicato all’automobile

In un tale contesto, la soluzione della fusione con un altro gruppo continua ad apparire una sorta di passaggio obbligato. Di qui le aspettative riposte nel matrimonio con Renault che avrebbe, se non risolto, quanto meno spostato i termini del problema Fca. Allo stato attuale delle cose, però, non è ipotizzabile una rapida ripresa dei contatti col gruppo francese, il quale deve sottostare a un vincolo politico che gli prescrive di sciogliere i dilemmi sulla prosecuzione dell’alleanza con Nissan e Mitsubishi, prima di poter volgersi ad altri accordi. Ancora una volta, quindi, tutto riporta alle decisioni dell’azionista e alla responsabilità ultima di John Elkann, il quale è chiamato a pilotare Fca verso un porto dove possa mettersi al sicuro, sfuggendo alle insidie di un mare in tempesta come quello in cui naviga l’industria dell’auto.

 

Morendo Sergio Marchionne ha riconsegnato nelle mani del suo azionista il gruppo che aveva forgiato. Inutile chiedersi se, grazie all’inesauribile fantasia di cui si avvaleva per non farsi mai mettere all’angolo nel mondo del business, unita a una tempra di negoziatore dalle risorse infinite, avrebbe potuto sottrarre Fca alla stretta crescente cui è sottoposta. La sua azione va giudicata per quello che Marchionne ha potuto realizzare quando era nella pienezza dei suoi poteri manageriali. La sua eredità si è modificata non appena la guida del gruppo è passata in altre mani. Del resto, è l’azionista ad avere l’ultima parola nelle questioni di assetto di lungo periodo delle imprese. I manager dispongono pur sempre di un potere condizionato e limitato nel tempo, si chiamino Sergio Marchionne o Lee Iacocca.

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