Sergio Marchionne (foto LaPresse)

La metamorfosi di Marchionne nella biografia psicologica di Ebhardt

Giuseppe Berta

Il “secondo tempo” del manager tra Torino, Detroit e il sogno mancato di Opel. E quella nuova vita che non ci fu

Iam a fixer”, diceva Marchionne di se stesso, secondo quanto racconta Tommaso Ebhardt nel libro che gli ha dedicato (“Sergio Marchionne”, Sperling & Kupfer, pp. 278, € 17,90), frutto di lunghe conversazioni svoltesi un po’ in tutto il mondo nell’arco di quasi dieci anni. “Fixer” significa qualcuno che mette a posto le cose. Ristrutturare aziende e sistemarne i conti era stato il mestiere originario di Marchionne, in Svizzera, ma anche a Torino quando ci era arrivato nell’estate 2004. I suoi esordi erano stati quelli di un manager che doveva procedere a una riorganizzazione accurata e severa, cercando di ricostruire un ordine all’interno di un sistema aziendale che l’aveva smarrito. E come “fixer” aveva continuato a operare nei suoi primi anni alla guida della Fiat, quando si era trattato di assicurarne la sopravvivenza. Le doti del ristrutturatore si erano presto coniugate con quelle del negoziatore: per ripristinare un principio di funzionalità occorrevano risorse e queste furono reperite esercitando la complessa arte del negoziato, in cui – come scrive Ebhardt – Marchionne era maestro. Lo si vide al momento di sciogliere l’alleanza con la General Motors che per liberarsi di una partnership pericolosa fu disposta a pagare un prezzo salato. Ma anche allora il problema era di garantire la capacità finanziaria che permettesse alla Fiat di sopravvivere. Negli anni seguenti, tuttavia, Marchionne smise di essere soltanto un eccellente “fixer” per diventare qualcosa di diverso. Forse fino a sfiorare dimensioni che esorbitavano – e di parecchio – dal raggio d’azione di un manager il cui talento maggiore stava nell’analizzare i punti di debolezza delle strutture aziendali e di correggerli con azioni rigorose. Nel caso Fiat, questo lavoro investì la governance di un gruppo che aveva spesso confuso i confini tra le prerogative dell’azionariato e le responsabilità del management, pregiudicando così efficienza e risultati.

 

Al Lingotto nel 2008, incisivo fino quasi alla brutalità, indicò alla Fiat pericolo imminente. Ci si doveva preparare a un cambio totale

Quando Marchionne cessò di essere l’implacabile aggiustatore dei conti? Probabilmente dal lancio della Cinquecento, nel luglio del 2007. Non è un periodo che ricade nel racconto di Ebhardt, il quale cominciò a seguire metodicamente Marchionne a partire dalla crisi e dalla svolta internazionalista della Fiat, che la proiettò ben oltre il Lingotto. Nel libro descrive un Marchionne nel secondo tempo (probabilmente il più luminoso) della sua avventura manageriale e non si sofferma sulla fase antecedente, quella in cui la sua azione manageriale riscosse più consensi in Italia, anche nel movimento sindacale. Fu quello il Marchionne che piacque di più in Italia, quando venne accreditato di un’ispirazione socialdemocratica perché sosteneva che le ristrutturazioni dovessero incominciare dalla testa del corpo aziendale, dal nucleo direttivo, e non dalla forza-lavoro operaia. Quella stagione gli procurò apprezzamenti a Torino poiché sembrava che il rilancio della Fiat fosse non soltanto possibile, ma ormai effettivo.

 

Ebhardt si diffonde sulla seconda e la terza fase di Marchionne, allorché il “fixer” cedette il passo allo stratega. All’inizio del 2008, all’auditorium del Lingotto di Torino, la devastazione economica imperversava, l’occasione era quella del saluto di fine anno dell’associazione dirigenti Fiat, un appuntamento di rito che il discorso di Marchionne, incisivo fino a sfiorare la brutalità, trasformò in un’avvisaglia di pericolo imminente. Quasi una premonizione: ci si doveva preparare a un cambio totale, se si voleva far vivere il gruppo e che ci si doveva preparare a un rivolgimento da cima a fondo. I partecipanti uscirono da quell’incontro turbati, anche chi non era uomo d’impresa. Il senso delle sue parole si comprese la primavera successiva, quando Marchionne sbarcò a Detroit con un pugno di collaboratori per incontrare la task force nominata dal presidente Obama per non far collassare l’industria di Detroit. Accasando la Fiat a Detroit con la Chrysler, sapeva Marchionne di cambiare l’identità aziendale in maniera irreversibile? Probabilmente sì, anche se il suo disegno originario non consisteva nel trasformare in americana un’impresa che era stata italiana per 110 anni. L’intento era più ambizioso: costruire un gruppo globale grazie all’acquisizione di una terza componente in grado di ampliare il perimetro del nuovo gruppo automobilistico. Marchionne aveva persuaso le sue controparti negli Stati Uniti che non c’erano alternative all’offerta Fiat e che era giocoforza consegnare la Chrysler nelle mani dell’unico alleato disponibile, sebbene il loro potesse apparire come l’incontro di due soggetti sospinti a congiungersi dalle rispettive fragilità. Ottenuto ciò che voleva in America (un’unione priva di costi monetari per la Fiat, la quale portava in dote per il matrimonio esclusivamente le proprie competenze tecnologiche e organizzative), Marchionne intendeva completare il piano con l’acquisizione della Opel, il ramo europeo nato dal ceppo Gm. Ma nell’estate del 2009 emersero tutte le resistenze che impedirono la fondazione di un gruppo la cui produzione avrebbe sfiorato i 6 milioni di autoveicoli all’anno. Non andò così, perché gli ostacoli maggiori da vincere non stavano a Detroit, ma in Germania, la madrepatria effettiva di Opel.

 

Quella notte a Grosse Pointe, la dichiarazione di stanchezza di un manager che stava per lasciare, il desiderio di qualcosa di diverso

Marchionne si era vista ostruita la strada verso la costituzione di un grande gruppo, poiché la futura Fiat Chrysler Automobiles già in partenza non aveva i numeri per compiere il balzo sperato. E la fusione a due squilibrava inevitabilmente il nuovo soggetto d’impresa sul versante americano, delegando via via uno spazio residuale al retroterra italiano. Nel destino a lungo termine c’era Detroit, con la fusione con Chrysler. Una fusione che sottintendeva come la missione prevalente fosse in America. Così, gli sforzi si sono concentrati e profusi soprattutto a Auburn Hills, nel rilancio delle attività più profittevoli del nuovo gruppo, mentre la comunicazione aziendale ha esaltato il valore del made in Detroit. L’idea di una corporation globale, apolide, dislocata fra Europa e America, con la sede legale a Amsterdam e il centro finanziario a Londra, è stata sostituita, con pratica prontezza, dalla realtà effettiva di un’impresa che ha rinsaldato il suo nucleo negli Stati Uniti, mentre perdeva incidenza la sua produzione in Italia e in Europa. Marchionne voleva questo? Di sicuro, le sue mosse furono guidate da un’ambizione alta. Almeno finché ebbe corso la prospettiva di grandi imprese globali, risultato di fusioni azzardate e complesse. Come l’ipotesi, che tenne banco nei primi mesi del 2015, di un’Opa che Marchionne avrebbe potuto avanzare nei confronti di Gm per conquistarne il controllo (grazie al sostegno di banche europee, nota Ebhardt, senza specificare quali). Un’operazione temeraria, che si reggeva sul presupposto dell’eccessivo dispendio di capitale richiesto dall’industria automobilistica, argomento caro a Marchionne. L’automotive ai suoi occhi era una macchina drogata di capitali, che sollecitava volumi d’investimento sempre più massicci, senza assicurare un ritorno adeguato. Di qui la sua tesi che si dovesse razionalizzare il settore attraverso una politica di fusioni e concentrazioni. Se Fca e Gm si fossero unite, concludeva, ne avrebbero derivato una posizione di autentico vantaggio, oltre che di primato.

 

Forse anche Marchionne aveva assorbito col tempo la hybris sprigionata da un settore posseduto come nessun altro dalla volontà di potenza. Forse il rifiuto reciso che la sua avance ebbe da Mary Barra, la ceo di Gm con cui non riuscì mai ad avere un confronto, era la prova che l’ora delle grandi fusioni nutrite dall’espansione illimitata dell’economia internazionale volgeva al tramonto. Forse la manovra conteneva un grado d’azzardo troppo elevato persino per lui e in ultima analisi non riscuoteva il consenso necessario. A tre anni dalla sua scomparsa, l’abbandono del più grande e spericolato dei suoi progetti dovette avere qualche ripercussione anche sull’atteggiamento di Marchionne, che si richiuse in seguito entro i limiti di una gestione aziendale meno fantasiosa e creativa rispetto al suo stile precedente. Adempiendo al mandato dell’azionista, si dedicò ad abbattere l’indebitamento del gruppo e a mantenere gli equilibri aziendali, in vista – come si disse – di altre operazioni societarie, alleanze o vendite, che non sarebbe più toccato a lui dirigere. Come se in lui fosse scemato un po’ dell’entusiasmo di prima e che non fosse più così incrollabile la sua passione di leader d’impresa. Venuta meno la stagione dei grandi progetti al limite dell’impossibile, quelli che aveva coltivato persino Lee Iacocca trent’anni prima, che dopo aver risanato anche lui la Chrsyler aveva immaginato una fusione con una casa giapponese, Marchionne si trovò a ragionare sul suo futuro. Le pagine forse più interessanti del libro di Ebhardt (che a tratti assomiglia a una sorta di biografia psicologica di Marchionne) sono dedicate all’ultimo periodo della sua vita, nella preparazione del distacco da Fca. In una lunga serata invernale trascorsa nella casa di Marchionne a Grosse Pointe, il sobborgo ricco di Detroit, Ebhardt testimonia di aver raccolto, da un lato, la dichiarazione della stanchezza di un manager che sapeva di dover lasciare a breve la propria posizione e, dall’altro, il suo desiderio di fare qualcosa di diverso, di iniziare una nuova avventura, chiudendo quella apertasi quattordici anni prima. Marchionne aveva guadagnato tanto nella sua carriera, circa un miliardo di dollari, dice Ebhardt. Disinvestendoli gradualmente da Fca e raccogliendo altri capitali sul mercato, avrebbe potuto creare “un fondo multimiliardario”; col quale “agire con rapidità, rovesciare cda ingessati, far crescere valutazioni e risultati di gruppi nei diversi settori”. Ciò “avrebbe dato a Marchionne la libertà di agire senza dover più rispondere a un azionista di riferimento” e di “diventare azionista di se stesso”. Anche nel mondo dei capitali, d’altronde, c’erano tante cose da aggiustare. Questo capitolo, tuttavia, non era destinato a realizzarsi. In capo a sei mesi da quella notte a Detroit, Marchionne sarebbe scomparso, portando con sé i progetti che certamente stava elaborando nella sua mente. Dopo aver accantonato la visione di costruire il gruppo automobilistico più grande del mondo, Marchionne sarebbe tornato, pur in un’altra prospettiva, a occuparsi delle funzioni che avevano costituito la sua attività prima di giungere a Torino nell’estate del 2004. Del resto, forse presagiva che il sistema internazionale era a un passaggio delicato e difficile e che probabilmente era scaduto il tempo delle imprese globali e magari anche del management globale. Carlos Ghosn – un manager per tanti versi dissimile da Marchionne, ma vicino a lui per il respiro della sua azione – sarebbe caduto pochi mesi dopo la sua morte. A Marchionne Ghosn non doveva piacere: Ebhardt riporta un giudizio simile a quello che gli sentii pronunciare io una volta (Ghosn, disse ironicamente, era “come il Re Sole” e ci volevano gli occhiali scuri per poterlo avvicinare). E poi, Marchionne non amava certo il lusso sfrenato che connotava la vita del capo dell’alleanza Renault-Nissan. Non di meno, avevano impersonato entrambi la figura del manager globale, nell’epoca della globalizzazione al suo apice. Forse Marchionne intuì che quell’èra stava per concludersi e che era in procinto di incominciare un’altra stagione in cui la guida di Fca sarebbe stata più condivisa, meno sottoposta a una leadership solitaria qual era stata la sua. E’ la fase che è iniziata con la sua morte repentina, in cui assisteremo con tutta probabilità a una serie di cambiamenti che nessuno, ancora un anno fa, avrebbe potuto pronosticare.

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