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Stiamo già uscendo dall'euro

Luciano Capone e Carlo Stagnaro

Dalle dichiarazioni incendiarie contro le regole europee alla proposta di una Bce come bancomat del governo. Dall’oro della Banca d’Italia ai minibot. La prospettiva di un’Italexit sulla carta è fallimentare, ma la Lega sta facendo di tutto per renderla possibile. Inchiesta sul piano B

Davvero Matteo Salvini vuole portare l’Italia fuori dall’euro? Chi fosse ancora scettico sulle reali intenzioni della Lega dovrebbe sapere che questo quesito ha già avuto una risposta inequivocabile: “La questione dell’euro l’abbiamo tirata fuori io e Bagnai – ha dichiarato il responsabile economico del partito, Claudio Borghi, in un’intervista poco precedente alle elezioni politiche –, la questione dell’euro politicamente l’ha posta la Lega nord, quando alle elezioni europee si presentò addirittura con il simbolo ‘Basta euro’. Come si può pensare che sia una cosa che non vogliamo fare?”. Ecco, è questa la vera domanda, quella che il presidente della commissione Bilancio della Camera esorta a porsi: non se la Lega voglia uscire dall’euro, ma come si possa anche solo immaginare che non voglia farlo. “Se sembra un’anatra, nuota come un’anatra e fa qua-qua come un’anatra, allora molto probabilmente è un’anatra”, dice il duck test.

         


Borghi a fine 2017: “Sto cercando di scomporre la questione dell’uscita dall’euro in ingredienti che possano essere condivisi”


          

I dubbi sulle intenzioni della Lega sono iniziati a sorgere perché da un anno a questa parte, in seguito alla travagliata nascita del governo gialloverde, i dirigenti leghisti mentre si muovevano a passo d’anatra nelle istituzioni, ogni volta che starnazzavano, negavano di essere anatre. Cioè facevano professione di fede nella moneta unica. Le azioni e i fatti, però, sono andati in tutt’altra e univoca direzione: dalle dichiarazioni incendiarie contro le regole europee ai documenti sulla trasformazione della Bce in bancomat dei governi, passando per le proposte sull’oro della Banca d’Italia fino ad arrivare ai minibot, il governo sta conducendo il paese verso la porta d’uscita. Che questi siano tanti pezzi di una strategia politica che ha come obiettivo finale l’abbandono dell’euro lo ha spiegato lo stesso Borghi: “E’ evidente che io voglio uscire dall’euro e così lo vuole Matteo Salvini”. In quel lungo dialogo con Claudio Messora, ex responsabile della comunicazione del M5s in Europa, risalente a fine dicembre 2017, Borghi descrive per filo e per segno il percorso che la Lega avrebbe attuato una volta al governo.

    

“Non posso permettermi di dire: ‘Io esco dall’euro’ il giorno dopo che sono eletto – dice –. C’è tutta una parte di preparazione che va fatta, che può essere condivisa anche da partiti che non hanno nel programma di uscire dall’euro”. Borghi spiega così la sua ricetta per l’Italexit: “Se io voglio fare la carbonara e un altro non la vuole ma gli piace la pancetta o le uova, già il fatto di comprare le uova e la pancetta affumicata è un passo avanti. Se ragiono sapendo che devo fare dei passi precisi e questi passi in sé sono condivisi da qualcun altro che non condivide il punto finale, non importa perché tanto io in ogni caso dovrei andare a prendere la pancetta e le uova. Ho tempo di convincerlo e intanto passo questa fase di adattamento”. Pertanto non si tratta di proporre al paese una pietanza che non vuole ingurgitare, ma di convincerlo a procurarsi tutti gli ingredienti necessari a prepararla per poi servirla quando non ci sarà alternativa: o mangi questa minestra o ti butti dalla finestra. “Sto cercando, anche all’interno del mio partito, di scomporre la questione uscita dall’euro in ingredienti, i quali possono essere condivisi – prosegue Borghi –. La questione Banca d’Italia la trattiamo singola; la questione moneta in circolazione, stampa di moneta, la trattiamo singola; la questione gestione di debiti e crediti, gestione di Target 2, la trattiamo singola. Ogni cosa è un ingrediente che se riesco a sistemarli… poi la volontà politica per schiacciare il bottone finale la si costruisce”.

     


 “Una moneta disegnata su misura per Germania e multinazionali e contraria alla necessità dell’Italia” (dal programma di Salvini)


    

E’ doveroso interrogarsi sul senso di queste parole: esprimono posizioni individuali oppure descrivono una linea condivisa? Sulla permanenza nella moneta unica le dichiarazioni dei dirigenti della Lega sono sempre molto ambigue: per il momento non vogliamo uscire; l’uscita dall’euro non fa parte del contratto di governo; personalmente sono a favore dell’uscita, ma l’argomento non è all’ordine del giorno; non possiamo uscire perché non abbiamo la maggioranza, eccetera. Ma adesso che i rapporti di forza all’interno dell’alleanza di governo si sono ribaltati, con Luigi Di Maio ormai spalmato sulle posizioni di Salvini e disposto a tutto pur di non tornare al voto, più del contratto di governo conta la piattaforma programmatica di quella che è diventata la prima forza politica del paese. E da questo punto di vista non c’è alcun dubbio. La Lega è un partito no euro, che ha cioè come obiettivo prioritario e imprescindibile l’abbandono dell’unione monetaria europea. “L’euro è la principale causa del nostro declino economico, una moneta disegnata su misura per Germania e multinazionali e contraria alla necessità dell’Italia e della piccola impresa – c’è scritto nel programma di Matteo Salvini –. Abbiamo sempre cercato partner in Europa per avviare un percorso condiviso di uscita concordata. Continueremo a farlo e, nel frattempo, faremo ogni cosa per essere preparati e in sicurezza in modo da gestire da un punto di forza le nostre autonome richieste per un recupero di sovranità”. 

   

     

All’ultimo congresso federale, quello del 2017 tenuto a Parma, sono state approvate due mozioni che vanno esattamente in questa direzione. La prima è la mozione numero 10, presentata da Claudio Borghi, che impegna Salvini e la Lega a sottrarre la “sovranità monetaria” all’Europa in quanto “è la premessa necessaria per la sostenibilità di gran parte del nostro programma economico e di sviluppo”. E in effetti, il braccio di ferro sul deficit con l’Europa e i mercati mostra quanto questa affermazione sia vera. L’altra mozione (“Verso una nuova alleanza di nazioni e popoli europei liberi e sovrani”) è quella presentata dal “moderato” Giancarlo Giorgetti, che in realtà è ancor più radicale di quella di Borghi. Il documento dell’attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio parte infatti dal presupposto dell’Italexit, proponendo uno smantellamento concordato della zona euro per “tornare quantomeno allo status pre-Maastricht” oltre a una serie di modifiche ai pilastri dell’Unione europea (libertà di circolazione di persone, servizi e capitali, concorrenza, politica commerciale, supremazia del diritto comunitario) che rappresenterebbe la demolizione dell’Europa per come l’abbiamo conosciuta. Ma qualora non fossero accettate le modifiche ai Trattati proposti dalla Lega, la mozione Giorgetti propone l’uscita dall’Unione europea seguendo l’esempio della Brexit: “Come misura estrema non resterà che l’alternativa di un negoziato bilaterale tra Italia e Ue ricorrendo alla clausola di rescissione”, ricordando però che siccome “a differenza del Regno Unito, l’Italia è soggetta a molti più vincoli, derivanti dall’appartenenza alla zona euro” allora “spetterà al governo italiano adottare contestualmente tutti i provvedimenti necessari e urgenti per permettere all’Italia di affrontare il negoziato in una posizione che non sia di svantaggio o sudditanza, come accaduto per la Grecia”. Insomma la scelta non riguarda il “se” ma il “come”.

    

Il tema della piattaforma congressuale non è affatto irrilevante perché, dopo il boom delle elezioni europee, è la Lega a dettare la linea al governo. Quando Marine Le Pen, dopo la sconfitta alle presidenziali contro Emmanuel Macron, è stata costretta ad aggiustare il tiro, ha adottato diversi passi formali: oltre alla trasformazione del nome del partito da Front national a Rassemblement national al congresso di Lille, ha estromesso dal partito il suo vice Florian Philippot, che nel Fn era il teorico no euro e il principale artefice del posizionamento a favore della Frexit. Infine, nell’ultimo programma per le europee – pur rimanendo su posizione eurocritiche – Le Pen ha preso atto che “i francesi hanno dimostrato di rimanere attaccati alla moneta unica”. La Lega non ha fatto nulla di tutto ciò. Non ha dato, neppure dalle parti ritenute più moderate e razionali, alcun segnale concreto di un cambio di obiettivo politico. Anzi, nell’azione politica non ha fatto altro che cercare di procurarsi gli ingredienti per preparare l’Italexit.

    


La mozione del “moderato” Giorgetti all’ultimo congresso federale della Lega, nel 2017, proponeva uno smantellamento concordato della zona euro


   

Gli stessi Cinque stelle, d’altro canto, sull’euro hanno sempre mantenuto il piede in due scarpe, anche se negli ultimi mesi sembrano essersi auto-attribuiti la parte dei moderati all’interno della maggioranza di governo. La sensazione, però, è che si tratti di una scelta di mero opportunismo, come d’altronde confermano le tante proposte concrete che emergono da quel partito e che sono chiaramente incompatibili con la permanenza nell’euro. E, cosa più pericolosa, pur non essendo formalmente per l’uscita, sono invece – come da piano di Borghi – favorevoli a tutti gli ingredienti che servono a prepararla. Quindi, l’attuale esecutivo poggia su due forze che, pur oscillando tra esplicite professioni di anti europeismo, retromarce tattiche e implicite allusioni, sono l’una trasparentemente favorevole all’Italexit, l’altra disposta a cambiare posizione secondo le convenienze e comunque a fare la spesa insieme a Borghi.

   

La strategia della scomposizione in ingredienti è stata applicata in maniera silenziosa e continua, con alcuni ripiegamenti tattici dopo le prove di forza con le istituzioni europee e italiane (Quirinale, Banca d’Italia e Tesoro), sin dalla nascita del governo. Anzi, da prima, dal momento della formalizzazione dell’alleanza con il M5s, con l’inserimento nel contratto di governo – proprio da parte di Borghi – della richiesta di cancellazione di 250 miliardi di debiti da parte della Bce e di introduzione nei Trattati europei di “specifiche procedure tecniche di natura economica e giuridica che consentano agli stati membri di recedere dall’unione monetaria e recuperare la propria sovranità monetaria”. Questo primo strappo, che portò in pochi giorni lo spread sopra i 300 punti, fu ricucito con l’elisione delle proposte esplicite di un’Italexit che già iniziava a essere prezzata dai mercati. Il secondo strappo, anche quello ricucito, è stato l’indicazione di Paolo Savona – mister Piano B – come ministro dell’Economia. Nei dodici mesi successivi c’è stata una messa in discussione sistematica delle regole europee e dello stesso statuto della Bce che il governo italiano (e particolarmente la sua fazione più eurocritica) in maniera del tutto irricevibile e provocatoria – tanto da non ricevere alcuna risposta dagli altri stati europei – ha proposto di trasformare in una tipografia al servizio della monetizzazione del deficit italiano.

    

Il reddito di cittadinanza

Il primo ingrediente sta dove uno non se lo aspetterebbe. Il reddito di cittadinanza è uno dei pilastri programmatici del Movimento 5 stelle. Originariamente la Lega ne aveva avversato l’introduzione, ma poi ha dovuto ingoiare il rospo. Una spiegazione è che, in un governo di coalizione, ciascuna delle parti deve cedere qualcosa all’altra. Ma potrebbe esserci di più: il partito di Via Bellerio potrebbe aver visto nella card gialla uno degli strumenti potenzialmente utili a promuovere lo sganciamento dalla moneta unica. Infatti, c’è un precedente: quando la Grecia, nel 2015, si trovò a un passo dalla sovranità monetaria, il piano ideato dal ministro delle Finanze, Yanis Varoufakis, faceva perno proprio sulla creazione di un sistema di pagamenti parallelo a quello ufficiale.

        


Varoufakis in Grecia faceva perno sulla creazione di un sistema di pagamenti parallelo a quello ufficiale: “Nuova valuta con un semplice clic al computer”


    

L’idea, raccontata dallo stesso economista greco nel suo libro “Adulti nella stanza. La mia battaglia contro l’establishment dell’Europa”, muoveva dall’emissione di “carte di debito con un fondo di poche centinaia di euro al mese per coprire le necessità basilari, che sarebbero state distribuite a 300 mila famiglie che vivevano al di sotto della soglia di povertà”. Fin qui, pare trattarsi di una delle tante possibili policy per il contrasto della povertà. Invece, “queste carte sono solo l’inizio – prosegue Varoufakis –, presto potrebbero sostituire le carte di identità e fornire la base per un sistema di pagamenti che potrà funzionare in parallelo con le banche”. In tal modo, “il governo avrebbe potuto avere maggiore spazio di manovra fiscale, aiutare i poveri senza sottoporli all’umiliazione dell’uso di buoni, e soprattutto avrebbe fatto capire alla Troika che la Grecia si poteva avvalere di un sistema di pagamenti che avrebbe consentito il funzionamento dell’economia anche nel caso in cui loro avessero chiuso le nostre banche… se la Troika avesse deciso di buttar fuori la Grecia dall’Eurozona… quello stesso sistema di pagamenti sarebbe potuto venire ri-denominato come nuova valuta con un semplice clic al computer”. Parole quasi identiche a quelle spese da Borghi in un tweet del 1° giugno 2019: “Ma questi che diventano matti per i minibot perché ‘farebbero cambiare facilmente la moneta’ (?) non sono spesso gli stessi che vogliono vietare il pagamento in contanti? Ma lo sanno che per far cambiare la valuta di pagamento a una carta di credito basta un clic di un secondo?”.

    

E’ possibile che queste considerazioni non siano sfuggite alla delegazione leghista che ha contribuito alla stesura del contratto di governo. Del resto gli stessi pentastellati hanno flirtato a lungo con l’universo anti euro, mutuandone molte proposte e posizioni. Inoltre, gli anti euro italiani conoscono bene l’esperienza greca, di cui hanno fatto tesoro, e hanno spesso criticato la decisione di Alexis Tsipras di liberarsi del suo ministro abbandonando la Grexit. Lo stesso Borghi ha detto di aver mutato strategia dopo aver visto come si è conclusa la crisi greca. 

    

Il responsabile economico della Lega, probabilmente, si ritiene un Varoufakis più astuto, e non v’è dubbio che le somiglianze tra i due siano molte: si potrebbe anche argomentare che Varoufakis è un Borghi che ha studiato. Se non ce l’ha fatta il leader di Syriza, che per la sua strategia si appoggiava oltre che su Varoufakis anche su economisti di rango internazionale quali Jeffrey Sachs e Larry Summers, difficilmente ce la farà Salvini con la sua tripla B (Borghi, Bagnai e Antonio Maria Rinaldi detto Bombolo). Sia come sia, la cedevolezza della Lega sul reddito di cittadinanza diventa più facilmente comprensibile se ci si chiede: “Come si può pensare che sia qualcosa che non vogliamo fare?”.

   

L’oro della Banca d’Italia

Il secondo ingrediente è al centro di una mozione parlamentare, passata con il voto delle forze della maggioranza e il supporto di Fratelli d’Italia, ma presentata in due versioni al Senato (a prima firma Bagnai-Bottici, i capigruppo di Lega e M5s in commissione Finanze) e alla Camera (con le firme D’Uva-Molinari, presidenti dei rispettivi gruppi). Entrambi i documenti, approvati rispettivamente ad aprile e inizio maggio, chiedono al governo di “definire l’assetto della proprietà delle riserve auree detenute dalla Banca d’Italia” e, a tal fine, di “favorire, per quanto di competenza, l’iter parlamentare della proposta di legge di interpretazione autentica già in discussione alla Camera per ribadire la proprietà statale delle riserve auree in deposito presso la Banca d’Italia”. Le istituzioni nazionali – ma anche la Bce, che è stata coinvolta con un’interrogazione del capogruppo no euro della Lega a Bruxelles Marco Zanni – si sono dovute muovere per chiarire che quanto chiesto dai parlamentari non può essere realizzato. Nella relazione annuale della Banca d’Italia, il governatore Ignazio Visco ha detto che “la detenzione e gestione delle riserve auree e valutarie della Banca d’Italia costituisce uno dei compiti fondamentali assegnati alle Banche centrali dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea” e che “nel nostro ordinamento tale assetto si realizza con il diritto di proprietà”. Lo stesso premier Conte, rispondendo a un’interrogazione di FdI, ha sostenuto che “la proprietà delle riserve auree nazionali è della Banca d’Italia… l’utilizzo della riserva aurea rientra tra le finalità istituzionali della banca a tutela del valore della moneta. Un intervento normativo volto a modificare gli assetti della proprietà aurea della Banca d’Italia… andrebbe, quindi, valutato sul piano della compatibilità con i principi basilari che regolamentano l’ordinamento del Sistema europeo delle Banche centrali”. Ciò nonostante, le mozioni chiedevano una rapida discussione di una proposta di legge di Borghi che, invece, stabilisce che le riserve auree detenute dalla Banca d’Italia sono di proprietà dello stato e non della Banca centrale.

    

Che c’entrano i lingotti con l’uscita dall’euro? Bisogna prenderla larga. Con l’adozione dell’euro, è stato introdotto il sistema Target 2, una piattaforma che consente di regolare i pagamenti in tempo reale da parte di banche commerciali nei diversi paesi dell’Unione. All’interno di tale sistema, le Banche centrali nazionali intermediano i trasferimenti di denaro da un paese all’altro, accendendo crediti (o debiti) corrispondenti verso la Banca centrale europea. L’Italia è lo stato membro col saldo negativo più elevato in valore assoluto: 481 miliardi di euro alla fine di aprile 2019, circa 40 miliardi in più rispetto al periodo precedente all’insediamento del governo gialloverde. La Banca d’Italia garantisce questa passività verso la Bce col proprio patrimonio, di cui le riserve auree rappresentano circa il 9 per cento (sono valutate in 88 miliardi di euro su attivi totali stimati in 968 miliardi). In caso di uscita dall’euro, Via Nazionale dovrebbe utilizzare i suoi attivi, incluso l’oro, per saldare la passività su Target 2. Togliendo le riserve auree dalla disponibilità di Palazzo Koch, e trasferendole al Tesoro, gli anti euro sperano di disinnescare le pretese di Francoforte, a cui contano di non ripagare il saldo negativo o, al massimo, di farlo nella nuova moneta svalutata.

   

Lo spostamento delle riserve auree, incluso il trasferimento fisico in Italia di quelle attualmente detenute all’estero, viene giustificato con altre motivazioni, come per esempio disinnescare le clausole di salvaguardia attraverso i proventi della vendita dei lingotti. A tal proposito, l’agenzia Reuters ha rivelato di aver visto una bozza di legge per consentire la vendita delle riserve, che sarebbe un logico step successivo all’eventuale approvazione del ddl Borghi sulla loro proprietà. Ovviamente si tratta di un pretesto: se le mozioni si traducessero in atti concreti (per esempio l’approvazione del ddl Borghi da parte di un ramo del Parlamento) i mercati sconterebbero un incremento del rischio di uscita, e dunque lo spread aumenterebbe. Ma se secondo le persone normali l’aumento dello spread dovrebbe segnalare il rischio di uscita dall’euro, secondo i no euro indica che il grande giorno si sta avvicinando. Anche in questo caso, ciò che conta veramente è l’intenzione: “Come si può pensare che sia qualcosa che non vogliamo fare?”.

    

I minibot

La sera di martedì 28 maggio, la Camera dei deputati ha approvato all’unanimità una mozione sui debiti commerciali della pubblica amministrazione. Il dispositivo è all’acqua di rose, ma contiene un passaggio interessante: impegna il Governo a effettuare “la verifica della possibilità di realizzare iniziative per… l’ampliamento delle fattispecie ammesse alla compensazione tra crediti e debiti della pubblica amministrazione… anche attraverso strumenti quali titoli di stato di piccolo taglio” (successivamente, il Partito democratico e +Europa hanno fatto retromarcia ammettendo di aver votato la mozione per sbaglio, e hanno insistito sull’assenza di conseguenze formali). Le parole incriminate sono queste ultime dieci, su un totale di 1.670, e inizialmente erano presenti nella mozione di maggioranza D’Uva-Molinari (stessi firmatari della mozione sull’oro di Bankitalia) poi confluita nella mozione unitaria. Dieci parole vaghe, contorte e poste all’interno di un impegno formalmente molto debole, ma politicamente rilevante. Tanto da avviare una discussione, in Italia e all’estero, che non accenna a smorzarsi. Nei giorni scorsi, sono intervenuti a favore dei minibot, oltre al loro autoproclamato “creatore”, Claudio Borghi, i due vicepremier e azionisti di maggioranza del Governo, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, e perfino Giancarlo Giorgetti, “quello bravo” della Lega, oltre al barricadero pentastellato Alessandro Di Battista. Hanno messo le mani avanti, per esorcizzare l’eventualità dei minibot, il ministro dell’Economia Giovanni Tria, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco e persino il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. Le agenzie di rating Fitch e Moody’s hanno messo in guardia contro i rischi che potrebbero derivarne. Borghi e Bagnai hanno continuato ad alludere al possibile utilizzo dei minibot quale strumento per agevolare l’Italexit, negando che sia questo il principale obiettivo ma continuando a sottolineare che all’occorrenza avrebbero potuto essere uno degli ingredienti della ricetta.

   

In quella mozione votata all’unanimità si vede all’opera la strategia annunciata da Borghi: andare a comprare insieme ad altri partiti – più o meno svegli e consapevoli – un componente necessario alla minestra. E, in forza di quella mozione, rilanciare con un provvedimento avente forza di legge (esattamente come per l’oro di Bankitalia). Borghi, infatti, ha da un lato più volte preso l’impegno a inserire i minibot nella legge di bilancio e dall’altro ha “svelato” ai suoi seguaci parte della sua strategia. Per esempio, in un tweet di mercoledì 12 giugno ha scritto che i minibot, oltre ad accelerare i pagamenti della Pa (un pretesto ben poco credibile), hanno anche altre “esternalità”, e in particolare: “1) la forma cartacea lo rende spendibile principalmente nel commercio di prossimità e non nell’e-commerce; 2) si crea un metodo di pagamento aggiuntivo che può essere utile”.

   

Sempre Borghi, nel 2012, spiegava: “Sono una maniera subdola di introdurre fintamente un’altra moneta, perché se noi senza far capire che lo stiamo facendo mettiamo in circolazione un’altra moneta facciamo lo stesso sistema prudente del camionista che mette due ruote sull’assale”. Nel corso degli anni la descrizione non è cambiata: “I minibot sono un espediente per uscire in modo ordinato, una specie di ruota di scorta”, dice nel 2017. “Metteremo in circolazione una moneta, stampata e prodotta dallo stato. E così quando a qualcuno gli venisse l’idea di bloccare gli euro, avremmo già in circolazione una moneta che può diventare la nostra”. E ancora, quando presenta i fac-simile dei minibot con le effigi di Tardelli e Pertini: “Gli ingredienti preferisco andarmeli a comprare in silenzio, ma qualcosa devi far vedere. Non puoi pensare che la gente creda a scatola chiusa che hai un piano, almeno un ingrediente devi farglielo vedere per far capire che hai la carbonara sul fuoco”.

     

Per capire cosa c’è in ballo, bisogna partire proprio dalle parole di Draghi. Il presidente della Bce ha detto: “I minibot o sono moneta, e in tal caso sono illegali, o sono debito, e quindi lo stock del debito pubblico cresce. Non penso vi sia una terza possibilità”. In realtà, anche la seconda opzione è puramente ipotetica. La questione è persino banale: le pubbliche amministrazioni hanno dei debiti arretrati (lo stock è in rapida discesa dal 2013 e i tempi di pagamento sono ormai vicini, in media, al limite di legge dei 30 giorni, ma tant’è). Pagare i fornitori con titoli di stato di piccolo taglio, scontabili dalle tasse future, darebbe luogo a un ammanco di gettito: pertanto, lo stato dovrebbe individuare apposite coperture (maggiori tasse o minori spese) oppure collocare sul mercato titoli di stato di entità corrispondente. In tal caso, come ha sottolineato l’Eurotower, il buco andrebbe contabilizzato nell’ambito del debito pubblico. Ci sono però due “ma”.

    

Il primo è relativo alle modalità del pagamento: perché attribuire titoli di stato di piccolo taglio ai fornitori della Pa, anziché emettere titoli di stato ordinari per raccogliere gli euro con cui pagarli? L’effetto sul debito sarebbe il medesimo, ma nel secondo caso tutti sarebbero più felici: le istituzioni internazionali, che non sarebbero preoccupate dall’intento dell’operazione, e i creditori della Pa, che riceverebbero moneta liquida anziché titoli parzialmente illiquidi. Naturalmente, una risposta potrebbe essere che attraverso i minibot lo stato intende risparmiare sugli interessi (tassando implicitamente, in eguale misura, i creditori, che si vedrebbero negato ciò a cui invece oggi hanno diritto: un piccolo haircut o una mini-patrimoniale). Ma poiché l’intera manovra è rivolta a dare loro soddisfazione, e non ha una apparente motivazione di contenimento della spesa, ci sembra che la spiegazione non possa essere questa. Ciò conduce alla seconda obiezione. Se i minibot siano concretamente debito o moneta dipende solo in parte dal design: sarà altrettanto importante osservare in quale modo verranno utilizzati. Per esempio, il fatto di essere emessi in forma cartacea, con un formato analogo a quello delle banconote, e di essere trasferibili (cioè non nominativi), oltre a essere emessi dallo stato e utilizzabili per pagare le imposte, li rendono potenzialmente utilizzabili come moneta, anche se venissero formalmente contabilizzati quali titoli di debito. Inoltre i precedenti storici ricordano che le quasi-monete simili ai minibot – dagli assegnati durante la Rivoluzione francese ai Mefo del Terzo Reich, dai patacones in Argentina fino agli IOU in California – sono state introdotte quando uno stato non aveva accesso ai mercati internazionali, prima di un default o di un cambio di regime monetario. Di fronte a questa incertezza, e consapevoli delle possibili conseguenze, i mercati reagirebbero all’emissione di minibot come se si trattasse di un passo concreto verso l’uscita dall’euro, anche se non ve ne fosse alcuna intenzione. Che senso avrebbe, d’altronde, risolvere in modo complicato e ambiguo un problema che può essere affrontato in modo più semplice ed efficace? La risposta sta sempre nella domanda retorica di Borghi: “Come si può pensare che sia qualcosa che non vogliamo fare?”.

   

La tassa sui contanti

Alcuni giorni fa, Salvini ha proposto di estendere la “pace fiscale” ai contanti non dichiarati, massimamente conservati nelle cassette di sicurezza degli italiani. L’interpretazione di questa proposta non è chiara: qualcuno ci vede un tentativo di condono, finalizzato a strizzare ogni euro possibile per finanziare le politiche di spesa care al governo. Altri un intervento muscolare per spingere gli italiani a mettere in circolo i propri risparmi, con la speranza di stimolare i consumi. Non importa quale sia la versione corretta, anche perché le varie tesi non necessariamente si escludono a vicenda. Dietro questa operazione – che sia un condono o una vera e propria tassa sul contante – si nasconde uno degli “ingredienti” di Borghi. Proviamo a immaginare che lo stato effettivamente inizi a mettere in circolazione i minibot. Gli italiani molto probabilmente reagirebbero accantonando gli euro (valuta “forte” e molto liquida) e cercando di spendere i minibot (più facilmente soggetti al rischio di svalutazione e relativamente meno liquidi, in quanto non tutti li accetterebbero e comunque non a valore facciale, per esempio online e all’estero). E’ quella che gli economisti chiamano “legge di Gresham”: la moneta cattiva (il minibot) scaccia quella buona (l’euro), che le persone cercano di risparmiare perché non si sa mai. La tassa sul contante renderebbe meno conveniente questa condotta, specie in un contesto di incertezza in cui i cittadini potrebbero non avere la lucidità di intuire lo svolgimento del piano e il suo punto di caduta. Ancora una volta: “Come si può pensare che sia qualcosa che non vogliamo fare?”.

     

Conclusioni

Unendo gli ingredienti, si vede chiaramente prendere forma la ricetta dell’uscita dall’euro. C’è un ulteriore componente: il sale, cioè la continua ricerca di incidenti diplomatici con l’Unione, in un crescendo di stop and go finalizzati a creare, in ogni momento, un possibile alibi per lo strappo. Fin dalla nascita del “governo del cambiamento”, abbiamo assistito a un numero impressionante di provocazioni, ora affidate ai leader Salvini e Di Maio, ora ai loro gregari, seguite da rapide retromarce. Dalla minaccia di infrangere le regole alla proposta di riforme inverosimili dell’architettura dell’euro, dal tentativo di costruire alleanze coi partiti e i governi più lontani da Bruxelles alle frequenti dichiarazioni di sfida verso le istituzioni internazionali: tutto si tiene e tutto è funzionale a tenere alta la tensione. Una funzione particolarmente importante è assegnata all’inserimento di esponenti anti euro in posizioni nevralgiche, in modo da attribuire un peso particolare ai messaggi che essi lanciano. Proprio venerdì scorso il presidente della Consob Savona, in un discorso al mercato che ha parlato prevalentemente dei difetti dell’Europa e poco del ruolo e delle attività della Consob, ha definito “pregiudizi” le valutazioni “espresse da istituzioni sovranazionali, enti nazionali e centri privati”. Alla Rai, garantire la presidenza a Marcello Foa si è rivelato strumentale a introdurre il complottismo anti euro nella programmazione di alcune reti (in particolare Rai 2). Nelle aule parlamentari, il ruolo di Borghi e Bagnai come presidenti rispettivamente della commissione Bilancio della Camera e della commissione Finanze del Senato, ha già fatto vedere i suoi effetti, sia attraverso il loro potere di agenda setting, sia con la loro abilità nello sfruttare le distrazioni delle opposizioni (come sui minibot).

    

Il piano Borghi ha però un grande difetto: il suo impatto con la realtà. Come dimostra la forte sensibilità dello spread a qualunque dichiarazione, e come conferma la vicenda greca, per quanto Borghi e i suoi siano furbi, i mercati tendono a essere più furbi. O meglio, intelligenti e previdenti. Ogni volta che un ingrediente viene acquistato – o anche solo evocato – il sospetto che la fronda anti euro stia facendo la sua mossa si diffonde rapidamente, e questo si traduce in una maggiore difficoltà di accesso dell’Italia ai mercati internazionali. In fondo, l’emissione di valute parallele, la creazione di sistemi dei pagamenti alternativi, l’attacco all’indipendenza e alle riserve di Bankitalia, l’appello alla mobilitazione del risparmio nazionale, sono tipicamente segnali di avvicinamento all’ultima spiaggia. L’abbandono di una moneta forte per adottarne una svalutata è uno dei tanti modi attraverso cui può avvenire un default sovrano. Il fallimento dell’Italia è una prospettiva talmente disastrosa che difficilmente si concretizzerà e l’abbandono dell’euro è un processo così difficile e costoso che, molto probabilmente, non ci arriveremo mai (“l’euro è irreversibile”, nelle parole di Draghi). Tuttavia, non essere in grado di raggiungere un risultato non significa che sia impossibile provarci. E anche solo provandoci, l’Italia e gli italiani si troverebbero di fronte a conseguenze dolorose di cui hanno già avuto un antipasto col balzo ormai strutturale dello spread.

  

In altre parole, la strategia di Borghi & Co. è perfetta per un gioco di ruolo, ma estremamente naïf nel mondo reale, perché presuppone che investitori e risparmiatori ignorino le accelerate e si fidino delle retromarce. Prima di prendere atto che quella dell’Italexit è una prospettiva fallimentare, l’Italia potrebbe tuttavia subire conseguenze pesanti, in termini di costo di finanziamento del debito pubblico, accesso al credito da parte dei privati, scelte di investimento di famiglie e imprese, e quindi occupazione e crescita.

   

Oltre alla carbonara, per spiegare la sua strategia Claudio Borghi ha fatto un esempio molto più calzante che riguarda l’uso delle armi: “Puoi incontrare uno che dice ‘Io non sparerò mai a uno in casa mia, perché sono contrario alle armi’. Ma se gli metti lì la pistola e i proiettili, la volta che ti entra davvero il ladro, siamo sicuri che non sparerà? Anche una persona che inizialmente dichiarava che non lo avrebbe fatto, una volta che ha gli strumenti per reagire potrebbe farlo”. L’unico problema di questa metafora è che la pistola non è puntata contro i ladri, ma alla tempia di lavoratori, imprenditori e famiglie presi in ostaggio dalla banda dei no euro.